Anzi, il vento le faceva vibrare ricavandone un’armonia lamentosa di un’intensità davvero particolare.
Queste corde danno la quinta e l’ottava - disse Mister Fogg.
E queste furono le uniche parole che egli pronunciò in tutta quella traversata. La signora Auda, accuratamente impacchettata in pellicce e coperte da viaggio, era preservata per quanto possibile dagli assalti del freddo.
Quanto a Passepartout, anch’egli, con la faccia rossa come il disco del sole al tramonto, si sentiva invaso da pensieri ottimistici. Ripigliava le speranze: forse c’era probabilità che le cose si mettessero in modo da giungere ad acciuffare a New York il piroscafo per Liverpool.
In tanta buona disposizione d’animo, il francese fu ad un tratto lì per lì per stringere la mano al “detective”. «E’ lui che ha procurato la slitta», pensava. «Senza questo mezzo provvidenziale sarebbe stato davvero impossibile arrivare in giornata ad Omaha. Bisogna essere riconoscenti a Fix!». Tuttavia, chi sa per quale presentimento, Passepartout si trattenne dal seguire l’impulso che gli dettava un gesto tanto espansivo. Ben tosto un’onda di altri commoventi pensieri venne ad assalire il servo del signor Fogg. Egli ripensava al sacrificio che il “gentleman” aveva fatto senza esitare per strapparlo dalle mani dei Sioux. «Per me il mio padrone ha rischiato patrimonio e vita! Oh!
Passepartout non lo dimenticherà mai!...». E intanto la slitta volava sulla prateria bianca. Si passava qualche affluente del Platte River, ma nessuno se ne accorgeva: terreno e corsi d’acqua sparivano sotto uno strato di ghiaccio uniforme. Quel tratto della prateria, compreso fra due tronchi della Ferrovia del Pacifico, era come una vasta isola deserta. Non si incontravano né villaggi né stazioni né forti. Di tanto in tanto fuggiva alla vista come un esile spettro qualche albero scheletrito e bianco che si torceva al vento. Passavano stormi d’uccelli selvatici che volavano lontano verso il sud.
Più d’una volta, branchi ululanti si misero all’inseguimento della slitta. Erano lupi della prateria, magri, resi terribili dalla fame che li sospingeva dietro alla fuggente preda. Passepartout, con la pistola in pugno, si teneva pronto a far fuoco sui più vicini. Qualche sparo si mescolava all’urlio della torma: si vedeva qualche lupo volteggiare in aria e cadere rigando di sangue la neve.
In breve il branco assalitore diradava e rimaneva indietro, mentre la slitta volava sicura verso la meta.
A mezzodì, Mudge riconobbe da certi indizi che si stava passando il corso gelato del Platte River. Non disse nulla; ma ormai era sicuro che non rimanevano da percorrere più d’una ventina di miglia per giungere ad Omaha.
E difatti non era ancora trascorsa un’ora che l’abile guidatore abbandonando la barra si precipitava alla dritta ad ammainare le vele, mentre la slitta, trascinata dallo slancio, percorreva ancora mezzo miglio e poi si fermava. Mudge, additando un ammasso di tetti bianchi, annunciò:
Siamo arrivati.
Arrivati!
Erano arrivati infatti a quell’importante stazione che ogni giorno numerosi treni collegano con l’est degli Stati Uniti. Passepartout e Fix saltarono a terra e si sgranchirono le membra intirizzite, aiutarono quindi Phileas Fogg e la signora Auda a scendere anch’essi. Phileas Fogg regolò generosamente il conto con Mudge a cui Passepartout strinse la mano come ad un vecchio amico. Poi la piccola comitiva si affrettò verso la stazione di Omaha. Era in questa importante città del Nebraska che si fermava la ferrovia del Pacifico propriamente detta, che mette in comunicazione il bacino del Mississippi con il grande oceano. Per andare da Omaha a Chicago, la ferrovia, che porta il nome di «Chicago-Rock-Island-road», corre direttamente verso est collegando cinquanta stazioni. C’era un treno diretto pronto a partire. Phileas Fogg e i suoi compagni ebbero giusto il tempo di precipitarsi in un vagone. Non avevano visto proprio niente di Omaha, ma Passepartout confessò a se stesso che non era il caso di rimpiangerlo, perché non era questione di fare i turisti.
Con una rapidità davvero notevole, il treno passò per lo Stato dello Iowa, per Council-Bluffs, Des Moines, Iowa City. L’indomani, dieci dicembre, alle quattro del pomeriggio, giungeva a Chicago che s’era già ripresa dalle sue rovine e stava assisa più fieramente che mai sui bordi del suo bel lago Michigan.
Da Chicago a New York ci sono novecento miglia. I treni non mancavano affatto a Chicago e Mister Fogg passò immediatamente dall’uno all’altro. La scalpitante locomotiva del «Pittsburg-Fort Wayne-Chicago rail road» partì a tutta velocità, come se avesse compreso che quell’onorevole “gentleman” non aveva tempo da perdere. Attraversò come un lampo l’Indiana, l’Ohio, la Pennsylvania, il New Jersey, passando per delle città dai nomi arcaici, alcune delle quali avevano già delle strade e delle rotaie per i tram, ma ancora nessuna casa. Infine fece la sua comparsa lo Hudson e l’11 dicembre, alle undici e un quarto di sera, il treno si fermava alla stazione, sulla riva destra del fiume proprio davanti al «pier» (il frangiflutti) dei piroscafi della linea Cunard detta pure «British and North American royal mail steam packet Co.».
Il «China», con destinazione Liverpool, era partito da quarantacinque minuti!
32.
PHILEAS FOGG INGAGGIA UNA LOTTA DIRETTA CONTRO LA CATTIVA SORTE.
Partendo, il «China» aveva portato via con sé l’ultima speranza di Phileas Fogg.
Infatti nessun altro piroscafo diretto tra l’America e l’Europa poteva soddisfare alle esigenze della situazione: né i transatlantici francesi, né le navi del «White-Star-line», né gli “steamers” della Compagnia Imman, né quelli della linea Amburghese, né qualsiasi altro. In realtà, il «Pereire», della Compagnia transatlantica francese- i cui meravigliosi bastimenti uguagliano in velocità e superano in conforto tutti quelli delle altre linee, senza eccezione - , sarebbe partito solo due giorni dopo, il 14 dicembre. E d’altronde esso, analogamente a quelli della Compagnia Amburghese, non andava direttamente a Liverpool o a Londra, ma a Le Havre, e la traversata supplementare da Le Havre a Southampton, facendo ritardare Phileas Fogg, avrebbe reso vani i suoi ultimi sforzi. Quanto ai piroscafi Imman, uno dei quali, il «City of Paris», partiva l’indomani, non bisognava neppure pensarci. Questo tipo di navigli sono particolarmente impiegati nel trasporto degli emigranti, le loro macchine sono deboli, navigano tanto a vela che a vapore e la loro velocità è mediocre. Per attraversare l’Atlantico da New York all’Inghilterra ci mettevano ben più tempo di quanto ne avesse a disposizione Mister Fogg per vincere la sua scommessa. Il “gentleman” si rese perfettamente conto di tutto questo consultando il suo “Bradshaw”, che gli consentiva di conoscere, giorno per giorno, i movimenti della navigazione trans-oceanica. Passepartout era annientato. Il fatto di avere perso il piroscafo per soli quarantacinque minuti gli bloccava il respiro. Era colpa sua, proprio sua, e lui invece di aiutare il suo padrone non aveva smesso di seminare ostacoli sul suo cammino! Quando ripercorreva con la memoria tutti gli incidenti di quel lunghissimo viaggio, quando calcolava le somme spese in pura perdita e nel suo solo interesse, quando pensava che quell’enorme scommessa, se vi si aggiungevano le spese considerevoli di quell’inutile viaggio, rovinava del tutto Mister Fogg, si sarebbe riempito la faccia di schiaffi. Mister Fogg, tuttavia, non gli fece alcun rimprovero e, allontanandosi dai piroscafi transatlantici, disse soltanto queste parole:
Domani provvederemo. Venite.
Mister Fogg, la signora Auda, Fix e Passepartout attraversarono lo Hudson nel «Jersey City Ferry-boat» e salirono poi su di una carrozza che li condusse all’albergo Saint-Nicolas, a Broadway. La notte fu riposante per Phileas Fogg il quale dormì d’un sonno perfetto; ma fu tormentosa per la signora Auda e per i suoi compagni, a cui la preoccupazione non permise di chiudere occhio. Il domani era il 12 dicembre.
Il “gentleman”, desto di buon mattino, ricapitolò un momento nella memoria il suo bilancio orario.
Dalle ore 7 di stamane, 12 dicembre, alle 8,45 di sera del 21 dello stesso mese ci sono esattamente 9 giorni, 5 ore e 45 minuti. Se fossi partito ieri col «China», uno dei migliori camminatori della linea transatlantica inglese, è certo che sarei giunto a Liverpool, e da Liverpool a Londra, nel tempo voluto!... Ma qualcosa forse rimane da tentare.
Phileas Fogg lasciò l’albergo, solo, dopo avere raccomandato al suo servo d’aspettarlo e d’avvertire la signora Auda affinché si tenesse pronta a partire in qualunque momento.
Una carrozza condusse il “gentleman” in riva all’Hudson dove una fila di navi erano ormeggiate al molo o ancorate sul fiume. Da quel grandioso e magnifico porto di New York non c’era giorno, già ai tempi di questo racconto, che centinaia di navi non salpassero per tutti i punti del mondo. Si trattava peraltro in maggior parte di navigli a vela, ed essi non erano ciò che serviva a Fogg. Il “gentleman” ebbe lì per lì l’impressione di dover fallire il suo ultimo tentativo, quando scorse, ancorato davanti alla Batteria, un modesto vaporetto da carico, di forme smilze e dalla cui ciminiera uscivano sbuffi di fumo: segno che la nave era in partenza. Phileas Fogg saltò in una lancia e noleggiò il traghetto. In pochi colpi di remo il barcaiolo lo condusse sottobordo al modesto vapore da carico: l’«Henrietta», uno “steamer” dallo scafo di ferro ma che aveva le soprastrutture in legno. Fu chiesto di calare la biscaglina, e un istante dopo Phileas Fogg metteva piede sul ponte e domandava del capitano. Questi venne subito. Era un uomo di cinquant’anni, non molto simpatico, corpulento, coi capelli rossicci e la pelle color bronzo ossidato. Il “gentleman” s’informò:
Il capitano?
Sono io.
Sir Phileas Fogg, di Londra.
E io Andrew Speedy, inglese di Cardiff.
State per partire?
Fra un’ora.
E andate?
A Bordeaux.
Il vostro carico?
Ciottoli nella stiva. Parto sopra zavorra.
Avete passeggeri?
Nemmeno per sogno! Mai passeggeri sulla mia nave. Mercanzia che ragiona e che perciò da fastidio.
La vostra nave fila bene?
Caspita, l’«Henrietta», conosciuta da tutti! Tra gli undici e i dodici nodi all’ora.
Mi volete trasportare a Liverpool, me e tre persone?
A Liverpool? E perché non in Cina?
Ho detto Liverpool.
No!
No?
No. Io sono in partenza per Bordeaux, e vado a Bordeaux.
A qualunque costo?
A qualunque costo.
Il capitano aveva parlato con un tono che non ammetteva repliche.
Ma gli armatori dell’«Henrietta»... - riprese Phileas Fogg.
Gli armatori sono io - rispose il capitano. - La nave è mia.
Ve la noleggio.
No.
Ve la compro.
No.
Phileas Fogg non batté ciglio. Eppure la situazione si presentava grave. Il capitano della «Henrietta» non era, ahimè, come il padrone della «Tankadère»! Fino qui il denaro del “gentleman” aveva sempre abbattuto gli ostacoli: stavolta nemmeno il denaro otteneva risultato. Per qualche istante il signor Fogg stette soprappensiero. Bisognava assolutamente trovare il mezzo di attraversare l’Atlantico in battello... a meno di non attraversarlo in pallone, cosa che sarebbe stata molto avventurosa e del resto non realizzabile. Si sarebbe detto ad un tratto che il “gentleman” avesse concretato un disegno, poiché disse al capitano:
Ebbene, volete portarmi a Bordeaux?
Nemmeno se mi offriste duecento dollari.
Ve ne offro duemila.
A testa?
A testa.
E siete quattro?
Quattro.
Il capitano Speedy cominciò a grattarsi la fronte. Ottomila dollari da guadagnare senza modificare per nulla la rotta prefissa, non erano cosa da disprezzarsi. Valeva la pena, per una volta tanto, mettere da parte l’irriducibile antipatia per ogni sorta di passeggeri: a duemila dollari l’uno non si trattava più di passeggeri, si trattava di merce preziosa!
Parto alle nove - disse semplicemente il capitano Speedy. - E se voi e i vostri vi fate trovare pronti...
Alle nove saremo a bordo - rispose altrettanto semplicemente Mister Fogg. Erano in quel momento le otto e mezzo.
Sbarcare dall’«Henrietta», saltare su una carrozza, giungere l’albergo, portare via la signora Auda, Passepartout e l’inseparabile Fix, al quale veniva cortesemente offerto un nuovo passaggio gratis, furono cose compiute dal “gentleman” con una rapidità e al tempo stesso con una calma da sbalordire.
Tutti erano a bordo al momento in cui l’«Henrietta» levava l’ancora. Quando Passepartout seppe la cifra del nolo pattuito dal suo padrone, cacciò uno di quegli «oh» che si distendono su tutta la scala dei vocalizzi ascendenti e discendenti.
Fix, per conto proprio, pensava che decisamente la Banca d’Inghilterra se la sarebbe cavata assai magra da quell’affare. Infatti, ammesso che si giungesse sani e salvi a Liverpool, e ammesso che il signor Fogg non gettasse imprevedibilmente qualche altra manciata d’oro in mare, dal sacco delle banconote sarebbero mancate intanto già la bellezza di sette mila sterline!
33.
PHILEAS FOGG SI MOSTRA ALL’ALTEZZA DELLE CIRCOSTANZE.
Un’ora più tardi, lo “steamer” «Henrietta» sorpassava il Light-boat che segna l’ingresso dello Hudson, aggirava la punta di Sandy Hook e si dirigeva in mare aperto. Nel corso delLa giornata, costeggiò Long Island, al largo del faro di Fire Island, e si diresse decisamente verso est.
L’indomani, il 13 dicembre, a mezzogiorno, con un magnifico sole che rideva nel più puro cobalto del cielo, un uomo saliva sulla plancia dell’«Henrietta» per rilevare il «punto astronomico». Ma chi crederebbe che quell’uomo sulla plancia dell’«Henrietta» non era il capitano Speedy?... Era Phileas Fogg. Speedy a quell’ora si trovava nientemeno che chiuso a chiave nella propria cabina, e cacciava urli che denotavano una collera spinta fino al parossismo: una collera, del resto, ben perdonabile. Che cos’era accaduto? Semplicissimo. Basterà ricordare che Phileas Fogg voleva andare a Liverpool, e che il capitano Speedy non aveva accondisceso a portarvelo. Allora il “gentleman” aveva accettato di prendere un passaggio per Bordeaux. Ma, dopo trenta ore che era a bordo, aveva così ben manovrato a colpi di banconote, che ormai l’intero equipaggio - gente un po’ avventuriera, la quale con Speedy non se la intendeva troppo stava in pugno al nuovo comandante. Già: Phileas Fogg aveva preso il posto e le funzioni del capitano Speedy ed ecco perché il capitano era stato rinchiuso nella sua cabina ed ecco infine perché l’«Henrietta» si stava dirigendo verso Liverpool.
E a vederlo manovrare non c’era da mettere in dubbio che si trovasse davanti ad un provetto marinaio.
Le macchine dell’«Henrietta» erano state messe sotto pressione e le valvole di sussidio erano state aperte. «Tra gli undici e i dodici nodi all’ora» aveva detto Speedy: ebbene, Phileas Fogg aveva saputo finora far mantenere alla nave quel massimo di velocità. E si poteva sperare di arrivare a Liverpool il 21 dicembre. E’ vero che c’erano tuttavia ancora molti «se» in aria: se il mare non diventava agitato, se il vento non balzava nell’est, se non sopraggiungeva qualche guasto di macchina... A Liverpool, in ultimo, l’affare del cambio di rotta dell’«Henrietta», annodandosi con l’affare della Banca, avrebbe anche potuto causare indesiderabili complicazioni per il “gentleman”, e portarlo un pochino più lontano di dove voleva arrivare.
Durante i primi giorni, la navigazione avvenne in condizioni eccellenti. Il mare non era troppo «duro»; il vento sembrava fissato al nord-est; furono perciò distese le vele e con tutte le sue golette l’«Henrietta» marciò come un vero transatlantico. Passepartout era incantato. Il risoluto gesto del suo padrone, di cui si sforzava di non vedere le conseguenze, lo riempiva di entusiasmo.
Mai l’equipaggio aveva visto un giovanotto più gaio e più
intraprendente. Faceva amicizia con i singoli marinai e li
meravigliava con tutte le sue manovre. Attribuiva loro i nomi migliori e distribuiva le bevande più gustose. Per lui, quei marinai manovravano come dei “gentleman” e i fuochisti poi erano dei veri «eroi». Il suo buon umore, molto comunicativo, si trasmetteva a tutti. Aveva già scordato il passato, i fastidi, i pericoli. Aveva fissa la mente alla meta, e talvolta ribolliva d’impazienza quasi venisse anche lui riscaldato dalla caldaia dell’«Henrietta». Spesso, inoltre, il giovanotto girava attorno a Fix, lo guardava in un certo modo che voleva significare: «Eh, noi la sappiamo lunga!», ma non gli rivolgeva la parola, perché non v’era più alcuna familiarità tra i due ex-amici. Fix invece non ci capiva proprio nulla. Quel colpo di mano sull’«Henrietta», la compera dell’equipaggio, quel Fogg che manovrava come un lupo di mare, per lui erano cose semplicemente da sbalordire. E ci ragionava su, giungendo a conclusioni impressionanti: «Un “gentleman” che comincia col rubare 55 mila sterline, può ben finire col rubare un bastimento! E vuoi vedere che costui non va per niente a Liverpool, ma in qualche parte del mondo dove potrà starsene al sicuro e mettersi impunemente a fare il pirata?!». A questo punto del ragionamento, il povero “detective” cominciava a sudare freddo e a pentirsi amaramente di essersi imbarcato in una simile avventura. Il capitano Speedy intanto seguitava ad urlare chiuso in cabina. E Passepartout, incaricato di portare il vitto al prigioniero, assolveva il compito prendendo le sue brave precauzioni. Per robusto che fosse, non si sentiva troppo sicuro. Il signor Fogg, invece non aveva neanche l’aria di sognarsi che ci fosse un capitano a bordo. Si giunse ai paraggi insidiosi del banco di Terranova dove d’inverno regnano le nebbie e dove i colpi di vento sono formidabili. Già la sera prima il barometro, abbassatosi bruscamente, faceva prevedere un prossimo cambiamento nell’atmosfera. In realtà, durante la notte, la temperatura si era modificata, il freddo divenne più intenso e al medesimo tempo il vento saltò verso il sud-est. Era un serio contrattempo. Il signor Fogg, allo scopo di non allontanarsi dalla rotta che s’era prefissata, dovette rinserrare le vele e sfruttare maggiormente il vapore. Ciò nonostante, la marcia dell’imbarcazione venne rallentata, in considerazione anche dello stato del mare, le cui lunghe ondate andavano a frangersi sul tagliamare. Ciò causava dei movimenti molto violenti di beccheggio e quindi nuoceva alla velocità. La brezza Si tramutava a poco a poco in uragano e già bisognava prendere in considerazione il caso che l’«Henrietta» non riuscisse a mantenersi con la prua verso le ondate. Certo che se si fosse dovuto sfuggire ad un uragano, si sarebbe andati verso l’ignoto, con tutte le sue spaventose incertezze. Il volto di Passepartout si era rabbuiato al medesimo tempo del cielo e per due giorni il buon giovanotto provò delle pene mortali. Ma Phileas Fogg dava prova di essere un ardito marinaio che sapeva tenere testa al mare, e mantenne incessantemente la rotta, senza neppure fare diminuire la pressione del vapore. Quando l’«Henrietta» non poteva alzarsi sulle onde, vi passava in mezzo e allora il ponte era letteralmente spazzato da un capo all’altro, ma la marcia continuava. Qualche volta una montagna d’acqua sollevava la poppa fuori dei flutti: allora l’elica emergeva battendo a vuoto l’aria con le braccia affannate; ma l’imbarcazione andava sempre avanti. Il vento tuttavia non aumentò di intensità quanto si sarebbe potuto temere. Non era uno di quegli uragani che passano alla velocità di novanta miglia all’ora. Si mantenne in proporzioni accettabili, ma sfortunatamente continuò a soffiare ostinatamente in direzione sud-est e non consentì di fare ricorso alla velatura. E tuttavia, come avremo modo di osservare molto presto, sarebbe stato davvero utile venire in aiuto al vapore!
Il 16 dicembre era il settantacinquesimo giorno che trascorreva dalla partenza da Londra. L’«Henrietta» insomma non aveva ancora accumulato un ritardo considerevole. Ormai si era giunti alla metà della traversata e la zona più pericolosa era ormai rimasta alle spalle. Si fosse stati d’estate, ci si sarebbe già potuti rallegrare del successo. D’inverno, però, si era alla mercè della cattiva stagione. Passepartout continuava a mantenersi incerto. In fondo, però, aveva fiducia e si diceva che se il vento si faceva desiderare, almeno si poteva contare sul vapore.
Ebbene, proprio quella mattina il macchinista salì sul ponte a cercarvi il signor Fogg, e i due s’intrattennero a parlare a lungo e con vivacità.
Senza sapere perché ma certamente per un presentimento, Passepartout, quando li vide, si sentì colto da una strana inquietudine. Avrebbe dato una delle sue orecchie per udire con l’altra ciò che il suo padrone e il macchinista dicevano.
Poté appena cogliere alcune frasi.
Siete certo di ciò che asserite?
Certissimo, signore. E’ dalla partenza che stiamo scaldando con tutte le macchine accese. Il carbone poteva bastare per andare a piccolo vapore da New York a Bordeaux; ma non ne abbiamo abbastanza per andare a tutto vapore da New York a Liverpool...
Ci penserò - rispose il signor Fogg.
Passepartout aveva capito, e impallidì.
Il carbone stava per mancare! «Ah, se il mio padrone rimedia anche a questa faccenda, bisogna dire che egli è più che un uomo: è un semidio!» esclamò tra sé il francese. Ed essendosi in quel momento trovato fra i piedi Fix, non poté trattenersi dall’informarlo della situazione.
E voi siete tanto semplice da credere che andiamo proprio a Liverpool?! - rispose a denti stretti il “detective”.
Diamine!
Imbecille! - ribatté Fix, e se ne andò scrollando le spalle.
Passepartout, senza comprendere la vera cagione dell’epiteto affibbiatogli, fu lì lì per reagire. Un pensiero lo fermò: «Bisogna compatire costui. Deve avere in corpo una bella dose di malumore. Man mano che si accorge di avere così scioccamente seguito una falsa traccia intorno al globo!».
E per quel momento Passepartout perdonò a Fix.
Phileas Fogg stava intanto prendendo una formidabile decisione.
Alimentate i fuochi - ordinò al macchinista. - E avanti fin che c’è carbone in macchina!
Di lì a pochi minuti la ciminiera dell’«Henrietta» vomitava torrenti di fumo.
Il bastimento filò a tredici nodi all’ora per altri due giorni. Il 18 dicembre il macchinista annunciò al signor Fogg che il carbone sarebbe mancato in giornata.
Non lasciate spegnere le macchine - fu la risposta. - Al contrario, le valvole sotto pressione! Era l’ostinazione d’un pazzo?
Quel giorno verso mezzodì, dopo avere rilevato la posizione della nave, Phileas Fogg chiamò Passepartout e gli diede ordine di andare a liberare di prigione il capitano Speedy.
Fu come se avessero comandato al buon figliolo d’andare a liberare dalla catena una tigre. Egli scese nel cassero a passi incerti, borbottando fra i denti:
Il cielo ce la mandi buona! Qualche minuto dopo, infatti fra un diluvio d’urli e di bestemmie, una bomba giungeva sul ponte dell’«Henrietta».
Era il capitano Speedy.
Dove siamo?! - furono le prime parole intelligibili che egli pronunciò in mezzo alla soffocazione dell’ira.
Siamo a settecentosettanta miglia da Liverpool - rispose Phileas Fogg, perfettamente calmo.
Andrew Speedy, con gli occhi iniettati di sangue, parve presso a scoppiare.
Pirata!!! - urlò.
Vi ho fatto venire, signore...
Schiumatore di mare!
Vi ho fatto venire, signore - ripigliò il “gentleman”, - per pregarvi di vendermi la vostra nave.
No! per tutti i diavoli. No!!!
Eppure fra poco io sarò costretto a bruciarla.
Bruciare la mia nave?!...
Voglio dire: bruciare almeno le soprastrutture. Manchiamo di combustibile.
Bruciare la mia nave?! ... - ripeté Speedy che si sentiva soffocare dalla collera. - Siete pazzo?! Una nave che vale cinquantamila dollari!
Eccovene sessantamila - rispose Phileas Fogg, porgendo al capitano un fascio di banconote.
L’effetto di quelle carte su Andrew Speedy fu prodigioso. Quando si è Americani, la visione di sessantamila dollari vi causa di certo una notevole emozione. Ira, dispetto, risentimento per l’incarcerazione dei passati giorni, tutto sbollì in un attimo per lasciare luogo ad una certa emozione.
«La mia nave ha più di vent’anni di mare», pensava Speedy improvvisamente ammutolito. «Qui si tratta d’un affare d’oro!». La bomba non poteva più scoppiare: Phileas Fogg ne aveva strappata la miccia.
E lo scafo in ferro mi rimarrà? - chiese Speedy con un tono raddolcito.
Lo scafo e la macchina, s’intende.
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