Anzi, il vento le faceva vibrare ricavandone un’armonia lamentosa di un’intensità davvero particolare.

Queste corde danno la quinta e l’ottava - disse Mister Fogg.

E queste furono le uniche parole che egli pronunciò  in  tutta  quella traversata. La signora Auda, accuratamente impacchettata in pellicce e coperte da viaggio,  era preservata per quanto possibile dagli assalti del freddo.

Quanto a Passepartout,  anch’egli,  con la faccia rossa come il  disco del  sole  al  tramonto,  si  sentiva  invaso da pensieri ottimistici.  Ripigliava le  speranze:  forse  c’era  probabilità  che  le  cose  si mettessero  in  modo da giungere ad acciuffare a New York il piroscafo per Liverpool.

In tanta buona disposizione d’animo,  il francese fu ad un  tratto  lì per lì per stringere la mano al “detective”.  «E’  lui  che  ha procurato la slitta»,  pensava.  «Senza questo mezzo provvidenziale sarebbe stato davvero impossibile arrivare in  giornata ad Omaha. Bisogna essere riconoscenti a Fix!».  Tuttavia,  chi  sa per quale presentimento,  Passepartout si trattenne dal seguire l’impulso che gli dettava un gesto tanto espansivo.  Ben tosto un’onda di altri commoventi pensieri venne  ad  assalire  il servo del signor Fogg. Egli ripensava al sacrificio che il “gentleman” aveva fatto senza esitare per strapparlo dalle mani dei Sioux.  «Per   me  il  mio  padrone  ha  rischiato  patrimonio  e  vita!   Oh!

Passepartout non lo dimenticherà mai!...».  E intanto la slitta volava sulla prateria bianca.  Si passava  qualche affluente  del  Platte  River,  ma  nessuno se ne accorgeva: terreno e corsi d’acqua sparivano sotto uno strato di ghiaccio uniforme.  Quel tratto della prateria,  compreso fra due tronchi  della  Ferrovia del Pacifico, era come una vasta isola deserta. Non si incontravano né villaggi    stazioni né forti.  Di tanto in tanto fuggiva alla vista come un esile spettro qualche  albero  scheletrito  e  bianco  che  si torceva  al  vento.  Passavano stormi d’uccelli selvatici che volavano lontano verso il sud.

Più d’una volta,  branchi ululanti si  misero  all’inseguimento  della slitta.  Erano lupi della prateria,  magri,  resi terribili dalla fame che li sospingeva dietro alla fuggente preda.  Passepartout,  con la pistola in pugno,  si teneva pronto a far  fuoco sui  più vicini.  Qualche sparo si mescolava all’urlio della torma: si vedeva qualche lupo volteggiare in aria e cadere rigando di sangue  la neve.

In breve il branco assalitore diradava e rimaneva indietro,  mentre la slitta volava sicura verso la meta.

A mezzodì,  Mudge riconobbe da certi indizi che si stava  passando  il corso  gelato del Platte River.  Non disse nulla;  ma ormai era sicuro che non rimanevano da percorrere  più  d’una  ventina  di  miglia  per giungere ad Omaha.

E  difatti  non  era  ancora  trascorsa  un’ora  che l’abile guidatore abbandonando la barra si precipitava alla dritta ad ammainare le vele, mentre la slitta,  trascinata dallo slancio,  percorreva ancora  mezzo miglio e poi si fermava. Mudge, additando un ammasso di tetti bianchi, annunciò:

Siamo arrivati.

Arrivati!

Erano  arrivati  infatti  a  quell’importante stazione che ogni giorno numerosi treni collegano con l’est degli Stati Uniti.  Passepartout e Fix saltarono a  terra  e  si  sgranchirono  le  membra intirizzite,  aiutarono  quindi  Phileas  Fogg  e  la  signora  Auda a scendere anch’essi.  Phileas Fogg regolò generosamente  il  conto  con Mudge a cui Passepartout strinse la mano come ad un vecchio amico. Poi la piccola comitiva si affrettò verso la stazione di Omaha.  Era in questa importante città del Nebraska che si fermava la ferrovia del Pacifico propriamente detta,  che mette in comunicazione il bacino del Mississippi con il grande oceano.  Per andare da Omaha a  Chicago, la  ferrovia,  che porta il nome di «Chicago-Rock-Island-road»,  corre direttamente verso est collegando cinquanta stazioni.  C’era un treno diretto  pronto  a  partire.  Phileas  Fogg  e  i  suoi compagni  ebbero  giusto  il  tempo di precipitarsi in un vagone.  Non avevano visto proprio niente di Omaha,  ma Passepartout confessò a  se stesso  che non era il caso di rimpiangerlo,  perché non era questione di fare i turisti.

Con una rapidità davvero notevole,  il treno passò per lo Stato  dello Iowa,  per Council-Bluffs,  Des Moines,  Iowa City.  L’indomani, dieci dicembre,  alle quattro del pomeriggio,  giungeva a Chicago che  s’era già ripresa dalle sue rovine e stava assisa più fieramente che mai sui bordi del suo bel lago Michigan.

Da Chicago a New York ci sono novecento miglia.  I treni non mancavano affatto  a  Chicago  e  Mister  Fogg  passò  immediatamente   dall’uno all’altro. La scalpitante locomotiva del «Pittsburg-Fort Wayne-Chicago rail  road»  partì  a  tutta  velocità,  come  se  avesse compreso che quell’onorevole “gentleman” non aveva  tempo  da  perdere.  Attraversò come  un  lampo  l’Indiana,  l’Ohio,  la Pennsylvania,  il New Jersey, passando per delle città dai nomi arcaici,  alcune delle quali avevano già  delle  strade e delle rotaie per i tram,  ma ancora nessuna casa.  Infine fece la sua comparsa lo Hudson e l’11 dicembre,  alle undici  e un  quarto  di  sera,  il  treno si fermava alla stazione,  sulla riva destra del fiume proprio  davanti  al  «pier»  (il  frangiflutti)  dei piroscafi  della  linea  Cunard detta pure «British and North American royal mail steam packet Co.».

Il «China», con destinazione Liverpool,  era partito da quarantacinque minuti!

 

32.

PHILEAS FOGG INGAGGIA UNA LOTTA DIRETTA CONTRO LA CATTIVA SORTE.

Partendo,  il  «China»  aveva  portato via con sé l’ultima speranza di Phileas Fogg.

Infatti nessun altro piroscafo diretto tra l’America e l’Europa poteva soddisfare  alle  esigenze  della  situazione:    i   transatlantici francesi,    le navi del «White-Star-line»,  né gli “steamers” della Compagnia Imman, né quelli della linea Amburghese, né qualsiasi altro.  In realtà,  il «Pereire»,  della Compagnia transatlantica francese-  i cui  meravigliosi  bastimenti  uguagliano  in  velocità  e superano in conforto tutti quelli delle altre linee,  senza eccezione - ,  sarebbe partito  solo  due  giorni  dopo,  il 14 dicembre.  E d’altronde esso, analogamente  a  quelli  della  Compagnia   Amburghese,   non   andava direttamente  a Liverpool o a Londra,  ma a Le Havre,  e la traversata supplementare da Le Havre a  Southampton,  facendo  ritardare  Phileas Fogg, avrebbe reso vani i suoi ultimi sforzi.  Quanto ai piroscafi Imman,  uno dei quali, il «City of Paris», partiva l’indomani,  non bisognava neppure pensarci.  Questo tipo  di  navigli sono particolarmente impiegati nel trasporto degli emigranti,  le loro macchine sono deboli,  navigano tanto a vela che a vapore  e  la  loro velocità  è  mediocre.   Per  attraversare  l’Atlantico  da  New  York all’Inghilterra ci mettevano ben più  tempo  di  quanto  ne  avesse  a disposizione Mister Fogg per vincere la sua scommessa.  Il “gentleman” si rese perfettamente conto di tutto questo consultando il suo “Bradshaw”, che gli consentiva di conoscere, giorno per giorno, i movimenti della navigazione trans-oceanica.  Passepartout era annientato.  Il fatto di avere perso il piroscafo per soli quarantacinque minuti gli bloccava il  respiro.  Era  colpa  sua, proprio  sua,  e lui invece di aiutare il suo padrone non aveva smesso di seminare ostacoli sul  suo  cammino!  Quando  ripercorreva  con  la memoria  tutti  gli  incidenti  di  quel  lunghissimo viaggio,  quando calcolava le somme spese in pura perdita e  nel  suo  solo  interesse, quando  pensava  che quell’enorme scommessa,  se vi si aggiungevano le spese considerevoli  di  quell’inutile  viaggio,  rovinava  del  tutto Mister Fogg, si sarebbe riempito la faccia di schiaffi.  Mister Fogg, tuttavia, non gli fece alcun rimprovero e, allontanandosi dai piroscafi transatlantici, disse soltanto queste parole:

Domani provvederemo. Venite.

Mister  Fogg,  la  signora Auda,  Fix e Passepartout attraversarono lo Hudson nel «Jersey City Ferry-boat» e salirono poi su di una  carrozza che li condusse all’albergo Saint-Nicolas, a Broadway.  La  notte  fu  riposante  per  Phileas  Fogg il quale dormì d’un sonno perfetto;  ma fu tormentosa per la signora Auda e per i suoi compagni, a cui la preoccupazione non permise di chiudere occhio.  Il domani era il 12 dicembre.

Il  “gentleman”,  desto  di buon mattino,  ricapitolò un momento nella memoria il suo bilancio orario.

Dalle ore 7 di stamane, 12 dicembre,  alle 8,45 di sera del 21 dello stesso mese ci sono esattamente 9 giorni,  5 ore e 45 minuti. Se fossi partito ieri col «China»,  uno dei migliori  camminatori  della  linea transatlantica  inglese,  è  certo che sarei giunto a Liverpool,  e da Liverpool a Londra,  nel tempo voluto!...  Ma qualcosa forse rimane da tentare.

Phileas  Fogg lasciò l’albergo,  solo,  dopo avere raccomandato al suo servo d’aspettarlo e d’avvertire la signora Auda affinché  si  tenesse pronta a partire in qualunque momento.

Una  carrozza condusse il “gentleman” in riva all’Hudson dove una fila di navi erano ormeggiate al molo o ancorate sul fiume.  Da quel grandioso e magnifico porto di New York non c’era giorno,  già ai tempi di questo racconto,  che centinaia di navi non salpassero per tutti i punti del mondo.  Si trattava peraltro  in  maggior  parte  di navigli  a  vela,  ed  essi  non  erano  ciò  che  serviva a Fogg.  Il “gentleman” ebbe lì per lì  l’impressione  di  dover  fallire  il  suo ultimo tentativo,  quando scorse,  ancorato davanti alla Batteria,  un modesto vaporetto da carico,  di forme smilze e  dalla  cui  ciminiera uscivano sbuffi di fumo: segno che la nave era in partenza.  Phileas  Fogg  saltò  in una lancia e noleggiò il traghetto.  In pochi colpi di remo il barcaiolo lo condusse sottobordo al modesto vapore da carico: l’«Henrietta», uno “steamer” dallo scafo di ferro ma che aveva le soprastrutture in legno.  Fu chiesto di calare la biscaglina,  e un istante  dopo  Phileas  Fogg  metteva  piede sul ponte e domandava del capitano. Questi venne subito. Era un uomo di cinquant’anni, non molto simpatico,  corpulento,  coi capelli rossicci e la pelle color  bronzo ossidato. Il “gentleman” s’informò:

Il capitano?

Sono io.

Sir Phileas Fogg, di Londra.

E io Andrew Speedy, inglese di Cardiff.

State per partire?

Fra un’ora.

E andate?

A Bordeaux.

Il vostro carico?

Ciottoli nella stiva. Parto sopra zavorra.

Avete passeggeri?

Nemmeno  per  sogno!  Mai passeggeri sulla mia nave.  Mercanzia che ragiona e che perciò da fastidio.

La vostra nave fila bene?

Caspita,  l’«Henrietta»,  conosciuta da tutti!  Tra gli undici  e  i dodici nodi all’ora.

Mi volete trasportare a Liverpool, me e tre persone?

A Liverpool? E perché non in Cina?

Ho detto Liverpool.

No!

No?

No. Io sono in partenza per Bordeaux, e vado a Bordeaux.

A qualunque costo?

A qualunque costo.

Il capitano aveva parlato con un tono che non ammetteva repliche.

Ma gli armatori dell’«Henrietta»... - riprese Phileas Fogg.

Gli armatori sono io - rispose il capitano. - La nave è mia.

Ve la noleggio.

No.

Ve la compro.

No.

Phileas  Fogg  non  batté  ciglio.  Eppure la situazione si presentava grave. Il capitano della «Henrietta» non era,  ahimè,  come il padrone della  «Tankadère»!  Fino  qui  il denaro del “gentleman” aveva sempre abbattuto gli ostacoli: stavolta nemmeno il denaro otteneva risultato.  Per qualche istante il signor Fogg  stette  soprappensiero.  Bisognava assolutamente   trovare   il  mezzo  di  attraversare  l’Atlantico  in battello...  a meno di non attraversarlo in pallone,  cosa che sarebbe stata molto avventurosa e del resto non realizzabile.  Si  sarebbe detto ad un tratto che il “gentleman” avesse concretato un disegno, poiché disse al capitano:

Ebbene, volete portarmi a Bordeaux?

Nemmeno se mi offriste duecento dollari.

Ve ne offro duemila.

A testa?

A testa.

E siete quattro?

Quattro.

Il capitano Speedy cominciò a grattarsi la fronte. Ottomila dollari da guadagnare senza modificare per nulla la  rotta  prefissa,  non  erano cosa da disprezzarsi.  Valeva la pena, per una volta tanto, mettere da parte l’irriducibile antipatia per ogni sorta di passeggeri: a duemila dollari l’uno non si trattava più di passeggeri,  si trattava di merce preziosa!

Parto alle nove - disse semplicemente il capitano Speedy. - E se voi e i vostri vi fate trovare pronti...

Alle nove saremo a bordo - rispose altrettanto semplicemente Mister Fogg.  Erano in quel momento le otto e mezzo.

Sbarcare  dall’«Henrietta»,   saltare  su   una   carrozza,   giungere l’albergo,  portare via la signora Auda, Passepartout e l’inseparabile Fix,  al quale veniva cortesemente offerto un nuovo passaggio  gratis, furono  cose  compiute  dal  “gentleman”  con  una rapidità e al tempo stesso con una calma da sbalordire.

Tutti erano a bordo al momento in cui l’«Henrietta» levava l’ancora.  Quando Passepartout seppe la cifra del nolo pattuito dal suo  padrone, cacciò  uno  di  quegli  «oh»  che si distendono su tutta la scala dei vocalizzi ascendenti e discendenti.

Fix, per conto proprio, pensava che decisamente la Banca d’Inghilterra se la sarebbe cavata assai magra da quell’affare. Infatti, ammesso che si giungesse sani e salvi a Liverpool,  e ammesso che il  signor  Fogg non  gettasse  imprevedibilmente qualche altra manciata d’oro in mare, dal sacco delle banconote sarebbero mancate intanto già la bellezza di sette mila sterline!

 

 

 

 

33.

PHILEAS FOGG SI MOSTRA ALL’ALTEZZA DELLE CIRCOSTANZE.

Un’ora più tardi,  lo “steamer” «Henrietta» sorpassava  il  Light-boat che  segna l’ingresso dello Hudson,  aggirava la punta di Sandy Hook e si dirigeva in mare aperto.  Nel corso delLa giornata,  costeggiò Long Island,  al  largo  del faro di Fire Island,  e si diresse decisamente verso est.

L’indomani, il 13 dicembre,  a mezzogiorno,  con un magnifico sole che rideva  nel  più puro cobalto del cielo,  un uomo saliva sulla plancia dell’«Henrietta» per rilevare il «punto astronomico».  Ma chi crederebbe che quell’uomo sulla  plancia  dell’«Henrietta»  non era il capitano Speedy?... Era Phileas Fogg.  Speedy  a  quell’ora  si  trovava nientemeno che chiuso a chiave nella propria cabina, e cacciava urli che denotavano una collera spinta fino al parossismo: una collera, del resto, ben perdonabile.  Che cos’era accaduto?  Semplicissimo.  Basterà ricordare  che  Phileas Fogg  voleva  andare  a Liverpool,  e che il capitano Speedy non aveva accondisceso a portarvelo.  Allora il “gentleman” aveva  accettato  di prendere  un  passaggio  per Bordeaux.  Ma,  dopo trenta ore che era a bordo,  aveva così ben manovrato  a  colpi  di  banconote,  che  ormai l’intero  equipaggio - gente un po’ avventuriera,  la quale con Speedy non se la intendeva troppo stava in pugno al nuovo comandante.  Già: Phileas Fogg aveva preso il posto  e  le  funzioni  del  capitano Speedy ed ecco perché il capitano era stato rinchiuso nella sua cabina ed   ecco   infine  perché  l’«Henrietta»  si  stava  dirigendo  verso Liverpool.

E a vederlo manovrare non c’era da mettere in dubbio che  si  trovasse davanti ad un provetto marinaio.

Le  macchine  dell’«Henrietta»  erano state messe sotto pressione e le valvole di sussidio erano state aperte.  «Tra gli undici  e  i  dodici nodi  all’ora»  aveva detto Speedy: ebbene,  Phileas Fogg aveva saputo finora far mantenere alla nave quel massimo di velocità.  E si  poteva sperare di arrivare a Liverpool il 21 dicembre.  E’ vero che c’erano tuttavia ancora molti «se» in aria: se il mare non diventava  agitato,   se  il  vento  non  balzava  nell’est,   se  non sopraggiungeva qualche guasto di macchina...  A Liverpool,  in ultimo, l’affare  del  cambio  di  rotta  dell’«Henrietta»,   annodandosi  con l’affare della Banca,  avrebbe  anche  potuto  causare  indesiderabili complicazioni per il “gentleman”, e portarlo un pochino più lontano di dove voleva arrivare.

Durante   i  primi  giorni,   la  navigazione  avvenne  in  condizioni eccellenti.  Il mare non era troppo «duro»;  il vento sembrava fissato al nord-est;  furono perciò distese le vele e con tutte le sue golette l’«Henrietta» marciò come un vero transatlantico.  Passepartout era incantato. Il risoluto gesto del suo padrone,  di cui si  sforzava di non vedere le conseguenze,  lo riempiva di entusiasmo.

    Mai  l’equipaggio  aveva  visto  un  giovanotto   più   gaio   e   più

    intraprendente.   Faceva   amicizia   con   i  singoli  marinai  e  li

meravigliava con tutte le sue manovre. Attribuiva loro i nomi migliori e  distribuiva  le  bevande  più  gustose.   Per  lui,   quei  marinai manovravano  come  dei  “gentleman”  e  i fuochisti poi erano dei veri «eroi». Il suo buon umore, molto comunicativo, si trasmetteva a tutti.  Aveva già scordato il passato, i fastidi,  i pericoli.  Aveva fissa la mente alla meta, e talvolta ribolliva d’impazienza quasi venisse anche lui  riscaldato dalla caldaia dell’«Henrietta».  Spesso,  inoltre,  il giovanotto girava attorno a Fix,  lo guardava in  un  certo  modo  che voleva significare: «Eh, noi la sappiamo lunga!», ma non gli rivolgeva la parola, perché non v’era più alcuna familiarità tra i due ex-amici.  Fix   invece  non  ci  capiva  proprio  nulla.   Quel  colpo  di  mano sull’«Henrietta», la compera dell’equipaggio,  quel Fogg che manovrava come un lupo di mare,  per lui erano cose semplicemente da sbalordire.  E  ci  ragionava  su,  giungendo  a  conclusioni  impressionanti:  «Un “gentleman”  che comincia col rubare 55 mila sterline,  può ben finire col rubare un bastimento! E vuoi vedere che costui non va per niente a Liverpool, ma in qualche parte del mondo dove potrà starsene al sicuro e mettersi impunemente  a  fare  il  pirata?!».  A  questo  punto  del ragionamento,  il  povero  “detective”  cominciava a sudare freddo e a pentirsi amaramente di essersi imbarcato in una simile avventura.  Il capitano Speedy intanto seguitava ad urlare  chiuso  in  cabina.  E Passepartout, incaricato di portare il vitto al prigioniero, assolveva il compito prendendo le sue brave precauzioni.  Per robusto che fosse, non si sentiva troppo sicuro. Il signor Fogg, invece non aveva neanche l’aria di sognarsi che ci fosse un capitano a bordo.  Si giunse ai paraggi insidiosi del banco di Terranova  dove  d’inverno regnano le nebbie e dove i colpi di vento sono formidabili.  Già  la  sera  prima  il  barometro,  abbassatosi bruscamente,  faceva prevedere un prossimo cambiamento nell’atmosfera.  In realtà,  durante la  notte,  la  temperatura  si era modificata,  il freddo divenne più intenso e al medesimo tempo il vento saltò verso il sud-est.  Era  un  serio  contrattempo.  Il  signor  Fogg,  allo  scopo  di  non allontanarsi  dalla rotta che s’era prefissata,  dovette rinserrare le vele e sfruttare maggiormente il vapore.  Ciò  nonostante,  la  marcia dell’imbarcazione  venne  rallentata,  in  considerazione  anche dello stato del  mare,  le  cui  lunghe  ondate  andavano  a  frangersi  sul tagliamare.  Ciò  causava dei movimenti molto violenti di beccheggio e quindi nuoceva alla velocità.  La brezza Si tramutava a poco a poco in uragano  e  già  bisognava  prendere  in  considerazione  il  caso che l’«Henrietta» non riuscisse a mantenersi con la prua verso le  ondate.  Certo che se si fosse dovuto sfuggire ad un uragano, si sarebbe andati verso l’ignoto, con tutte le sue spaventose incertezze.  Il  volto di Passepartout si era rabbuiato al medesimo tempo del cielo e per due giorni il buon  giovanotto  provò  delle  pene  mortali.  Ma Phileas Fogg dava prova di essere un ardito marinaio che sapeva tenere testa al mare, e mantenne incessantemente la rotta, senza neppure fare diminuire  la  pressione  del vapore.  Quando l’«Henrietta» non poteva alzarsi sulle onde,  vi  passava  in  mezzo  e  allora  il  ponte  era letteralmente spazzato da un capo all’altro,  ma la marcia continuava.  Qualche volta una  montagna  d’acqua  sollevava  la  poppa  fuori  dei flutti: allora l’elica emergeva battendo a vuoto l’aria con le braccia affannate; ma l’imbarcazione andava sempre avanti.  Il  vento  tuttavia  non aumentò di intensità quanto si sarebbe potuto temere.  Non era uno di quegli uragani che passano  alla  velocità  di novanta  miglia  all’ora.  Si mantenne in proporzioni accettabili,  ma sfortunatamente continuò a soffiare ostinatamente in direzione sud-est e non consentì di fare ricorso alla velatura. E tuttavia,  come avremo modo di osservare molto presto,  sarebbe stato davvero utile venire in aiuto al vapore!

Il 16 dicembre era il settantacinquesimo giorno che trascorreva  dalla partenza da Londra.  L’«Henrietta» insomma non aveva ancora accumulato un  ritardo  considerevole.  Ormai  si  era  giunti  alla  metà  della traversata e la zona più pericolosa era ormai rimasta alle spalle.  Si fosse  stati  d’estate,  ci  si  sarebbe  già  potuti  rallegrare  del successo.  D’inverno,  però, si era alla mercè della cattiva stagione.  Passepartout continuava a mantenersi incerto.  In fondo,  però,  aveva fiducia  e  si diceva che se il vento si faceva desiderare,  almeno si poteva contare sul vapore.

Ebbene,  proprio quella  mattina  il  macchinista  salì  sul  ponte  a cercarvi  il signor Fogg,  e i due s’intrattennero a parlare a lungo e con vivacità.

Senza sapere perché ma certamente per un presentimento,  Passepartout, quando  li  vide,  si sentì colto da una strana inquietudine.  Avrebbe dato una delle sue orecchie per udire  con  l’altra  ciò  che  il  suo padrone e il macchinista dicevano.

Poté appena cogliere alcune frasi.

Siete certo di ciò che asserite?

Certissimo,  signore.  E’  dalla  partenza che stiamo scaldando con tutte le macchine accese.  Il carbone  poteva  bastare  per  andare  a piccolo  vapore  da New York a Bordeaux;  ma non ne abbiamo abbastanza per andare a tutto vapore da New York a Liverpool...

Ci penserò - rispose il signor Fogg.

Passepartout aveva capito, e impallidì.

Il carbone stava per mancare!  «Ah,  se il mio padrone rimedia anche a questa  faccenda,  bisogna  dire  che  egli  è  più  che un uomo: è un semidio!» esclamò tra sé il francese.  Ed essendosi  in  quel  momento trovato  fra  i piedi Fix,  non poté trattenersi dall’informarlo della situazione.

E voi  siete  tanto  semplice  da  credere  che  andiamo  proprio  a Liverpool?! - rispose a denti stretti il “detective”.

Diamine!

Imbecille! - ribatté Fix, e se ne andò scrollando le spalle.

Passepartout,   senza   comprendere   la   vera  cagione  dell’epiteto affibbiatogli,  fu lì lì per reagire.  Un pensiero lo fermò:  «Bisogna compatire costui.  Deve avere in corpo una bella dose di malumore. Man mano che si accorge di  avere  così  scioccamente  seguito  una  falsa traccia intorno al globo!».

E per quel momento Passepartout perdonò a Fix.

Phileas Fogg stava intanto prendendo una formidabile decisione.

Alimentate i fuochi - ordinò al macchinista.  - E avanti fin che c’è carbone in macchina!

Di lì a pochi minuti la ciminiera dell’«Henrietta»  vomitava  torrenti di fumo.

Il bastimento filò a tredici nodi all’ora per altri due giorni.  Il 18 dicembre il macchinista annunciò al signor Fogg che il carbone sarebbe mancato in giornata.

Non lasciate spegnere le macchine - fu la risposta.  - Al contrario, le valvole sotto pressione!  Era l’ostinazione d’un pazzo?

Quel  giorno  verso  mezzodì,  dopo  avere rilevato la posizione della nave,  Phileas Fogg chiamò Passepartout e gli diede ordine di andare a liberare di prigione il capitano Speedy.

Fu  come  se  avessero  comandato al buon figliolo d’andare a liberare dalla catena una tigre.  Egli  scese  nel  cassero  a  passi  incerti, borbottando fra i denti:

Il  cielo  ce la mandi buona!  Qualche minuto dopo,  infatti fra un diluvio  d’urli  e  di  bestemmie,   una  bomba  giungeva  sul   ponte dell’«Henrietta».

Era il capitano Speedy.

Dove  siamo?!  -  furono  le  prime  parole  intelligibili che egli pronunciò in mezzo alla soffocazione dell’ira.

Siamo a settecentosettanta miglia da  Liverpool  -  rispose  Phileas Fogg, perfettamente calmo.

Andrew  Speedy,  con  gli  occhi  iniettati di sangue,  parve presso a scoppiare.

Pirata!!! - urlò.

Vi ho fatto venire, signore...

Schiumatore di mare!

Vi ho fatto  venire,  signore  -  ripigliò  il  “gentleman”,  -  per pregarvi di vendermi la vostra nave.

No! per tutti i diavoli. No!!!

Eppure fra poco io sarò costretto a bruciarla.

Bruciare la mia nave?!...

Voglio  dire:  bruciare  almeno  le  soprastrutture.  Manchiamo  di combustibile.

Bruciare la mia nave?! ...  - ripeté Speedy che si sentiva soffocare dalla  collera.  -  Siete  pazzo?!  Una  nave  che  vale cinquantamila dollari!

Eccovene sessantamila - rispose Phileas Fogg,  porgendo al  capitano un fascio di banconote.

L’effetto di quelle carte su Andrew Speedy fu prodigioso.  Quando si è Americani,  la visione di sessantamila dollari vi causa di  certo  una notevole emozione.  Ira,  dispetto,  risentimento per l’incarcerazione dei passati giorni,  tutto sbollì in un attimo per lasciare  luogo  ad una certa emozione.

«La   mia   nave  ha  più  di  vent’anni  di  mare»,   pensava  Speedy improvvisamente ammutolito. «Qui si tratta d’un affare d’oro!».  La bomba non poteva più scoppiare: Phileas Fogg ne aveva strappata  la miccia.

E  lo  scafo  in  ferro  mi  rimarrà?  -  chiese Speedy con un tono raddolcito.

Lo scafo e la macchina, s’intende.