- Non lo vedo mai sul ponte.
Oh, il mio padrone sta benissimo. Soltanto, egli non è curioso.
Sapete, signor Passepartout che cosa ho pensato? Che questo preteso viaggio in ottanta giorni potrebbe celare qualche missione segreta... una missione diplomatica, per esempio.
In fede mia, signor Fix, non ne so nulla, ve lo confesso. E, a dirvi la verità, non spenderei nemmeno mezza sterlina per saperlo. La conversazione per quel giorno terminò lì. Ma in seguito Passepartout e Fix tornarono ad incontrarsi sovente. Al “detective” premeva assai entrare in confidenza con il servo del signor Fogg: ciò avrebbe potuto giovargli per i suoi piani. Perciò Fix invitava frequentemente il giovane francese al bar del «Mongolia», dove gli offriva qualche bicchierino di whisky che il buon figliolo accettava senza cerimonie e del pari ricambiava per non restare obbligato, trovando che quel bravo signor Fix era proprio un compitissimo gentiluomo.
Il «Mongolia» filava a tutto vapore. Il 13 si fece la conoscenza di Moka, che apparve nella sua cintura di mura rovinate, al di sopra delle quali si profilavano degli alberi di dattero verdeggianti. In lontananza, tra le montagne, si distendevano vaste coltivazioni di piante di caffè.
Passepartout rimase rapito nella contemplazione di quella celebre città, e rifletté persino che con quelle sue mura circolari e con un forte smantellato che si disegnava come un’ansa, la città stessa assumeva l’aspetto di un’enorme tazzina.
Nella notte successiva, il «Mongolia» superò lo stretto di Bab-el-Mandeb, il cui nome arabo significa «la porta delle lacrime», e l’indomani, il 14, faceva scalo a Steamer-Point a nord-ovest della rada di Aden. Era lì che doveva riapprovvigionarsi di combustibile. Un problema gravoso e importante, questo dell’alimentazione delle caldaie dei piroscafi a tanta distanza dai centri di produzione. Soltanto la Compagnia Peninsulare, al tempo di questo racconto, spendeva annualmente a questo scopo 800 mila sterline. Era stato necessario, in realtà, stabilire dei depositi in diversi porti e in questi mari remoti, il carbone veniva a costare 80 franchi la tonnellata.
Il «Mongolia» aveva ancora 1650 miglia da percorrere prima di raggiungere Bombay, e doveva rimanere quattro ore a Steamer-Point per riempire i suoi depositi.
Ma questo ritardo non poteva nuocere in alcun modo al programma di Phileas Fogg. Era un ritardo previsto. D’altronde il «Mongolia», invece di arrivare ad Aden soltanto il 15 ottobre mattina, vi arrivò il 14 sera.
Aveva guadagnato 15 ore.
Mister Fogg e il suo domestico scesero a terra. Il “gentleman” intendeva farsi vistare il passaporto. Fix gli andò dietro senza farsi notare. Compiuta la formalità del visto, Phileas Fogg ritornò a bordo per riprendere la sua partita interrotta. Passepartout, invece, secondo il suo solito, prese a bighellonare nel mezzo di quella popolazione di parsì, di giudei, di arabi, di europei, che costituivano i 25 mila abitanti di Aden. Egli ammirò le fortificazioni che fanno di questa città la Gibilterra del Mar delle Indie e le magnifiche cisterne alle quali lavoravano ancora gli ingegneri inglesi, duemila anni dopo gli ingegneri del re Salomone. «Molto curioso, molto curioso!», si diceva Passepartout rientrando a bordo. «M’accorgo che non è inutile mettersi in viaggio, se si desidera vedere qualcosa di nuovo».
Alle sei della sera, il «Mongolia» faceva ruotare le pale della sua elica nelle acque della rada di Aden e correva ben presto sul Mare delle Indie. Aveva a disposizione 168 ore per compiere la traversata tra Aden e Bombay. D’altronde, questo mare indiano gli fu favorevole. Il vento proveniva dal nord-ovest; le vele vennero in appoggio alla spinta del vapore.
Il battello, meglio appoggiato, rullò di meno. Le passeggere ricomparvero sul ponte con le loro fresche toelette. Ricominciarono i canti e le danze.
Il viaggio si compiva dunque nelle migliori condizioni. Passepartout era incantato dell’amabile compagno che il caso gli aveva procurato nella persona di Fix.
La domenica 20 ottobre, verso mezzogiorno, si fece la conoscenza della costa indiana. Due ore più tardi, il pilota saliva a bordo del «Mongolia». All’orizzonte, si profilava armoniosamente sul fondo del cielo una quinta di colline. Ben presto, i filari di palmeti che coprono la città divennero più immediatamente evidenti. Il piroscafo penetrò nella rada costituita dalle isole Salcette, Colaba, Elephanta, Butcher, e alle quattro e mezzo si accostava alla banchina di Bombay. Phileas Fogg terminava giusto in quel momento la trentatreesima partita della giornata. Il suo compagno e lui, grazie ad una manovra audace, dopo aver fatto le tredici levate, terminarono quella bella traversata con un ammirevole chelem.
Il «Mongolia» doveva arrivare a Bombay il 22 ottobre. Invece vi arrivava il 20. Dalla sua partenza da Londra, era perciò un guadagno di due giorni che Phileas Fogg poteva meticolosamente inscrivere sul suo itinerario nella colonna degli avvantaggiamenti.
10.
PASSEPARTOUT E’ FIN TROPPO FELICE DI CAVARSELA PERDENDO UNA SCARPA.
Nessuno ignora che l’India - questo grando triangolo rovesciato la cui base è verso nord e la punta è verso sud - comprende una superficie di un milione e quattrocentomila miglia quadrate, sulla quale è sparsa in maniera disuguale una popolazione di 180 milioni di abitanti. Il governo britannico esercita un dominio reale su una certa parte di questo immenso paese. Ha un governatore generale a Calcutta, dei governatori a Madras, a Bombay, nel Bengala e un luogotenente-governatore ad Agra.
Ma l’India inglese propriamente detta ha una superficie soltanto di 700000 miglia quadrate e una popolazione tra i 100 e 110 milioni di abitanti. Il che sta a significare che una parte notevole del territorio sfugge ancora all’autorità della regina; e, in realtà, presso alcuni rajah dell’interno, violenti e terribili, l’indipendenza indù è ancora assoluta.
Dal 1756 - quando venne fondato il primo stabilimento inglese nella zona in cui sorge attualmente la città di Madras - fino all’anno in cui viene scritto questo racconto e in cui è scoppiata la grande insurrezione dei «cipayes», la Compagnia delle Indie è stata onnipotente. Essa si è impadronita a poco a poco di tutte le province, acquistandole dai rajah con la promessa di rendite che essa non ha pagato poi affatto o quasi; essa nominava il proprio governatore generale e tutti i suoi impiegati civili o militari; attualmente però essa non esiste più, e i possedimenti inglesi dipendono direttamente dalla Corona.
In questo modo l’aspetto, i costumi, le divisioni etnografiche della penisola tendono a modificarsi ogni giorno. In altri tempi vi si viaggiava con tutti gli antichi mezzi di trasporto: a piedi, a cavallo, su carretti, in carriola, in palanchino, a dorso d’uomo, in carrozza, eccetera. Al momento in cui viene scritto questo romanzo dei battelli a vapore percorrono a grande velocità l’Indo e il Gange, e una ferrovia, che attraversa l’India in tutta la sua larghezza ramificandosi lungo il suo percorso, pone Bombay a soli tre giorni di viaggio da Calcutta.
Il tracciato di questa ferrovia non segue la linea dritta attraverso l’India. La distanza a volo d’uccello è solo di 1000- 1100 miglia, e dei treni in grado di raggiungere una velocità media non impiegherebbero tre giorni per percorrerla; ma questa distanza è accresciuta di un terzo, come minimo, dall’arco che la ferrovia descrive innalzandosi fino ad Allahabad, nel nord della penisola. Ecco, nelle sue grandi linee, il tracciato della «Great Indian peninsular railway», la grande ferrovia della penisola indiana. Dopo avere lasciato l’isola di Bombay, attraversa la Salsette, salta sul continente di fronte a Tannah, supera la catena dei Ghâti occidentali, corre verso nord-est fino a Burhanpur, solca il territorio quasi indipendente del Bundelkhand, s’innalza fino ad Allahabad, piega verso est, incrocia il Gange a Benares, se ne distacca leggermente e, ridiscendendo a sud-est attraverso Burdwan e la città francese di Chandernagore, ha il suo capolinea a Calcutta. Alle quattro e mezzo del pomeriggio i passeggeri del «Mongolia» erano sbarcati a Bombay, e alle otto precise partì il treno per Calcutta. Mister Fogg si congedò perciò dai suoi compagni, lasciò il piroscafo, diede a Passepartout una noterella di alcune compere da fare, gli raccomandò espressamente di farsi trovare prima delle otto alla stazione e, con quel suo passo regolare che scandiva il secondo come il pendolo di un orologio astronomico, si diresse verso l’ufficio dei passaporti.
Non si preoccupava dunque affatto delle meraviglie di Bombay, non si dava premura di vedere nulla, né il palazzo comunale, né la magnifica biblioteca, né i forti, né le banchise, né il mercato del cotone, né i bazar, né le moschee, né le sinagoghe, né le chiese armene, né la splendida pagoda di Malabar-Hill, arricchita di due torri poligone. Non avrebbe contemplato né i capolavori di Elephanta, né i suoi misteriosi ipogei nascosti a sud-est della rada, né le grotte Kanherie dell’isola Salsette, ammirevoli resti dell’architettura buddista! Uscito dall’ufficio dei passaporti, Phileas Fogg se ne andò tranquillamente al ristorante della stazione, e là si fece servire la cena. Fra le altre pietanze, il trattore gli decantò una fricassea di coniglio: una vera specialità del paese. Phileas Fogg accettò la fricassea, l’assaggiò coscienziosamente e la trovò pessima. Chiamò il trattore.
Signore, - gli chiese, guardandolo fisso, - è coniglio questo?
Sì, mylord; coniglio della giungla!
E non ha miagolato quando è stato ucciso?
Miagolato! Oh, mylord, un coniglio non miagola. Vi giuro...
Signor trattore, - rispose calmissimo Phileas Fogg, - non giurate.
Ma piuttosto ricordatevi questo: una volta, in India, i gatti erano considerati animali sacri. Quelli erano bei tempi!
Per i gatti, mylord?
Ed anche per i forestieri.
E il signor Fogg continuò tranquillamente a cenare, mentre due occhi indagatori, da un altro angolo del ristorante, non lo perdevano di vista.
Erano gli occhi dell’ostinato “detective”. Fix era sbarcato egli pure dal «Mongolia» pochi minuti dopo il signor Fogg e si era precipitato negli uffici del Direttore della Polizia di Bombay.
Fatta riconoscere la propria qualità di “detective”, la missione affidatagli e la sua situazione del momento di fronte al presunto ladro di banconote, chiese se fosse giunto da Londra il mandato d’arresto a carico di Sir Phileas Fogg.
Il mandato non era giunto. Infatti, non poteva esservene stato il tempo.
Il “detective” rimase sconcertato. Avrebbe voluto ottenere dal Direttore di Polizia un ordine di arresto provvisorio contro il signor Fogg. Ma il direttore rifiutò.
Non commetterò simile arbitrio - disse categoricamente. - Voi sapete meglio di me che in materia di libertà personale le usanze inglesi comandano la più rigida osservanza della legalità. L’affare riguarda la polizia di Londra; ed essa solo può spiccare il mandato. Fix comprese che non era il caso d’insistere, e si rassegnò.
Frattanto, - risolse, - non perderò di vista il mio uomo. Ora egli si ferma senza dubbio a Bombay; e il mandato ha tutto il tempo di giungere.
Il “detective”, tornato sulle tracce di Phileas Fogg all’ufficio dei passaporti, si era rimesso perciò con prudenza a tallonare la sua preda. Se Fix si illudeva beatamente che il signor Fogg si sarebbe fermato a Bombay, simile illusione era invece ormai tramontata del tutto dal cuore di Passepartout.
Dopo gli ultimi ordini che gli aveva dati il padrone al momento di sbarcare dal «Mongolia», il bravo giovanotto aveva ben compreso, che a Bombay sarebbe accaduto come a Parigi e come a Suez; che il viaggio non sarebbe finito lì, che si sarebbe andati fino a Calcutta, e fors’anche più lontano. E cominciava a domandarsi se la scommessa del signor Fogg non fosse proprio vera, e se lui, Passepartout, che aveva sognato di vivere in tranquillo riposo, non si trovasse trascinato dalla fatalità a compiere davvero il giro del mondo in ottanta giorni! A buon conto, dopo aver fatto i dovuti acquisti di camicie e di calze, il servo del signor Fogg si mise a passeggiare per le vie di Bombay. C’era gran concorso di gente. Frammischiati a europei di ogni nazionalità, si vedevano persiani dalle berrette a pan di zucchero, sindi dai curiosi copricapo quadrati, bunhias con mastodontici turbanti, armeni avvolti in striscianti vesti, parsì in mitra nera. Era per l’appunto una festa celebrata dai parsì o ghebri, diretti discendenti dei seguaci di Zoroastro, i più industriosi, i più civili, i più intelligenti e i più austeri degli indù, la razza alla quale appartengono i più ricchi commercianti indigeni attuali. La folla era attratta da una festa, una specie di carnevale religioso con processioni e divertimenti, celebrato appunto da questi parsì che sono la stirpe più civile e più intelligente fra le numerose stirpi indù. Quel giorno gli spettacoli comprendevano una danza sacra di bajadere, le quali, avvolte in vaporosi veli rosei trapunti d’oro e d’argento, si muovevano armoniosamente e compostamente al suono dei tamburi e delle viole.
E’ superfluo precisare ora quanto Passepartout guardasse queste curiose cerimonie, i suoi occhi e i suoi orecchi si spalancassero a dismisura per vedere ed ascoltare, e il suo atteggiamento e il suo stato d’animo erano certo quelli più ingenui possibile. Sventuratamente per lui e per il suo padrone, di cui rischiò così di compromettere il viaggio, la sua curiosità lo portò più lontano di ciò che era conveniente.
In realtà, dopo avere ammirato a lungo quel carnevale parsì, Passepartout si decise ad avviarsi alla stazione. Senonché, passando davanti alla meravigliosa pagoda di Malabar-Hill, curiosità lo punse di entrare a visitarla.
Ma il giovanotto ignorava due cose: che l’accesso a talune pagode è rigorosamente vietato ai cristiani, e che gli stessi credenti non possono entrarvi senza avere lasciato alla porta i calzari. Violare simili formalità costituisce, oltre tutto, un reato contro la legge, giacché il Governo d’Inghilterra per ragioni di accorta politica rispetta e fa rispettare anche le più stravaganti usanze religiose del paese.
Passepartout, proprio candidamente e senza ombra di irriverenza entrò nella pagoda come un turista in visita a un bel monumento. Ma mentre se ne stava col naso in aria a contemplare le laminature d’oro e d’argento che sfavillavano ai capitelli delle colonne, all’improvviso si vide gettato sul sacro lastrico.
Tre sacerdoti bramini dallo sguardo furente gli si erano scagliati addosso: gli strapparono le scarpe e le calze, e urlando bestialmente cominciarono a caricarlo di busse.
Il francese, vigoroso e agile, si rialzò di scatto. Con un pugno e un calcio gettò a terra due degli avversari impacciatissimi nelle lunghe vesti; e slanciatosi fuori della pagoda, grazie alla celerità delle sue lunghe gambe riuscì ad interporre una considerevole distanza fra sé e il terzo bramino, il quale si era messo al suo inseguimento tirandosi dietro una folla schiamazzante. Alle otto meno cinque, soltanto pochi istanti prima della partenza del treno, Passepartout giungeva alla stazione, scalzo, senza cappello, dopo aver perduto nel parapiglia anche il pacco contente le compere fatte.
Sulla banchina, confuso tra la folla dei viaggiatori che affluivano al treno, c’era Fix. Egli aveva seguito fin là il signor Fogg; e avendo compreso ormai che questi stava per lasciare Bombay, aveva deciso senz’altro di stargli dietro fino a Calcutta e, se fosse occorso, anche più lontano.
Passepartout non vide Fix il quale si teneva opportunamente celato tra il movimento della gente. Ma Fix udì il racconto che il servo fece al suo padrone narrandogli in poche parole l’avventura della visita alla pagoda.
Io spero che una cosa simile non vi accadrà più - fu la flemmatica risposta di Phileas Fogg, mentre saliva a prendere posto in uno scompartimento.
L’infelice Passepartout a piedi nudi e pesto di ammaccature, seguì il padrone senza più fiatare.
Fix stava per salire in un altro dei vagoni, allorché un pensiero lo
trattenne; e il suo progetto di partenza fu istantaneamente
modificato. «No, io rimango!» si disse Fix mentalmente. «Una
infrazione alla legge commessa in territorio indiano... Tengo il mio uomo in pugno!».
Echeggiò in quel momento il fischio acuto della locomotiva. E il treno scomparve nella notte.
11.
PHILEAS FOGG ACQUISTA A UN PREZZO FANTASTICO UNA CAVALCATURA.
Il treno per Calcutta, partito puntualmente alle otto pomeridiane portava il consueto carico di ufficiali, funzionari civili, negozianti di oppio e di indaco che per ragioni del loro commercio raggiungevano la costa orientale dell’India.
Nello scompartimento occupato da Phileas Fogg, oltre al suo domestico aveva preso posto pure un terzo viaggiatore il quale sedeva nell’angolo di faccia al “gentleman” . Era il brigadiere generale Sir Francis Cromarty, uno dei compagni di gioco del signor Fogg durante il tragitto da Suez a Bombay. Egli andava a raggiungere il suo reggimento a Benares.
Sir Francis Cromarty poteva avere circa cinquant’anni; e fin da giovane aveva vissuto in India, facendo assai di rado ricomparsa in Inghilterra per qualche breve licenza. Alto, biondo, vigoroso, quell’energico ufficiale - il quale si era molto distinto durante la repressione dell’ultima rivolta dei «cipayes» - aveva acquistato ormai nei tratti fisici e nelle abitudini qualcosa che lo faceva meritamente qualificare un indigeno. Conosceva assai bene l’India; e avrebbe con piacere fornito tutte le notizie desiderabili sui costumi, la storia, il governo di quei paesi, solo che Phileas Fogg glielo avesse richiesto. Ma il signor Fogg non faceva alcuna domanda. A rigore, può dirsi che egli non viaggiava: descriveva soltanto un percorso circolare, come un grave che seguisse la propria orbita intorno alla terra secondo le leggi della meccanica.
In quel momento, compostamente seduto nel suo angolo dello scompartimento, Sir Phileas Fogg rifaceva mentalmente il calcolo delle ore impiegate in viaggio da quando era partito da Londra. E si sarebbe fregato le mani per la soddisfazione, se non fosse stato cosa fuori della sua indole il fare qualsiasi movimento inutile. Sir Francis Cromarty osservava Phileas Fogg e ne studiava la fisionomia, come già tante volte si era attardato a fare, con le carte in mano, tra una partita e l’altra di “whist”. Ormai Sir Francis non aveva più dubbi a giudicare quel compagno di viaggio un tipo originale, il più originale di quanti ne avesse mai incontrati in vita sua. Esitava invece ancora sopra una domanda che si era posta: Phileas Fogg possedeva, sotto quel freddo involucro, un cuore umano, un’anima sensibile alle bellezze della natura, alle nobili aspirazioni?
A Sir Cromarty il signor Fogg non aveva nascosto il suo progetto di viaggio intorno al mondo, né in quali circostanze lo avesse iniziato. Ora, l’ufficiale inglese non vedeva in quella scommessa altro che una eccentricità senza alcuno scopo utile.
A mio giudizio, - rifletteva egli giustamente, - le azioni di ogni uomo ragionevole dovrebbero essere guidate dal proposito di «passare, bene operando». E invece, con tutta la sua flemma, il bizzarro “gentleman” consumerà l’intera esistenza senza fare nulla di buono né per sé né per gli altri.
Un’ora dopo avere lasciato Bombay, il treno, superando i viadotti, aveva attraversato l’isola della Salsette e correva sul continente. Alla stazione di Kalyan, abbandonò sulla destra la diramazione che, passando per Ulhasnagar e per Poona, conduce verso il sud-est dell’India, e raggiunse la stazione di Pauwell. A questo punto il treno s’internò tra le montagne molto ramificate dei Ghati Occidentali, catene a base di trappi e di basalti, le cui più alte cime sono ammantate di foltissimi boschi. Di quando in quando Sir Francis Cromarty e Phileas Fogg scambiavano qualche rara parola; ed era sempre l’ufficiale il primo a riaccendere la conversazione che l’altro lasciava languire. Ad un certo punto, Sir Cromarty disse:
Molti anni fa, signor Fogg, in questa parte del viaggio avreste patito un ritardo che avrebbe certamente compromesso il vostro itinerario.
Perché, Sir Francis?
Poiché la ferrovia si interrompeva ai piedi dei Ghati; e bisognava attraversarli in palanchino a dorso di pony per raggiungere la stazione di Kandallah sul versante opposto.
Tale ritardo non avrebbe affatto sconcertato il mio programma - rispose Phileas Fogg. - Io ho previsto anche la eventualità di certi ostacoli.
Tuttavia, signor Fogg, non mi direte che avevate previsto, ad esempio, il brutto impiccio in cui ha rischiato di porvi l’avventura di codesto giovanotto!
Passepartout, con i piedi ravvolti nella sua coperta da viaggio, dormiva della grossa e non sognava davvero che si parlasse di lui.
Il Governo inglese - ripigliò Sir Francis, - è estremamente severo, e con ragione, verso questo genere di reati. Esige sopra ogni cosa che si rispettino le usanze religiose degli Indù. Perciò se il vostro servo fosse stato preso...
Sarebbe stato condannato, avrebbe scontato la sua pena, e poi avrebbe fatto tranquillamente ritorno in Europa - concluse Phileas Fogg senza scomporsi. - Io non vedo in qual modo la faccenda del servo avrebbe potuto far ritardare il viaggio del padrone. E su quella battuta il dialogo s’interruppe. Durante la notte, il treno valicò i Ghati, passò a Nasik e l’indomani, il 21 ottobre, si slanciò attraverso un paese relativamente pianeggiante, formato dal territorio del Khandeish. La campagna, ben coltivata, era disseminata di borghi al disopra dei quali il minareto della pagoda rimpiazzava il campanile delle chiese europee. Molti piccoli corsi d’acqua, la maggior parte dei quali affluenti o subaffluenti del Godavari, irrigavano questa fertile contrada.
Passepartout, risvegliatosi, ammirava il panorama e non riusciva a convincersi che stava attraversando l’India in un treno della «Great Indian peninsular railway». Gli sembrava incredibile. E tuttavia niente di più reale! La locomotiva, diretta dalla mano di un meccanico inglese e riscaldata dal carbon fossile inglese, lanciava i suoi sbuffi di fumo sulle piantagioni di cotone, di caffè, di noci moscate, di garofani, di pepe rosso. Il vapore stendeva le sue spirali sui gruppi di palmeti tra i quali occhieggiavano dei pittoreschi “bungalows”, alcuni vihari, una specie di monasteri abbandonati, e dei templi meravigliosi arricchiti dall’inesauribile ornamentazione dell’architettura indiana. Poi si stendevano a perdita di vista immensi spazi di terreno, giungle nelle quali non mancavano né le tigri né i serpenti che venivano intimoriti dal fischio del treno; succedevano quindi delle foreste, tagliate dal tracciato della strada e ancora popolate di elefanti e che guardavano passare con occhio pensoso il convoglio traballante.
Nel corso di quella mattina, superata la stazione di Malegaon, i viaggiatori attraversarono il funesto territorio che era stato così spesso insanguinato dai seguaci della dea Kalì. Non erano molto lontane di lì Ellora e le sue meravigliose pagode, né la celebre Aurangabad, la capitale del selvaggio Aureng-Zeb, attualmente semplice capoluogo d’una provincia staccata dal regno del Nizam. Era su questa contrada che esercitava il suo dominio Feringhea, il capo dei Thug, il re degli Strangolatori. Questi assassini, uniti in una imprendibile associazione, strangolavano in onore della Dea della Morte vittime di ogni età, senza mai versare una goccia di sangue, e ci fu un periodo in cui non si poteva scavare in alcun luogo di questa terra senza trovarvi celato un cadavere. Il Governo inglese è riuscito in seguito ad impedire in gran parte questi assassini, ma la spaventosa associazione esisteva e funzionava ancora al tempo di questo racconto. Alle 12,30, il treno si arrestò alla stazione di Burhanpur, e Passepartout poté procurarvisi a peso d’oro un paio di babbucce ornate di perle false, che s’infilò pieno di un’evidente vanità. I viaggiatori fecero un rapido pasto e ripartirono per la stazione di Assurghur, dopo avere costeggiato per un istante il corso del Tapti, un piccolo fiume che si va a gettare nel golfo di Cambay, presso Surat.
E’ opportuno che parliamo adesso dei pensieri che occupavano in quel frattempo l’animo di Passepartout. Fino al suo arrivo a Bombay, egli aveva creduto e potuto credere che le cose sarebbero terminate lì. Adesso però che si stava andando a tutto vapore attraverso l’India, s’era verificato nel suo spirito un repentino mutamento di idee. Stava tornando alla carica il suo temperamento. Ritrovava le idee piene di fantasia della sua giovinezza, prendeva sul serio i progetti del suo padrone, credeva alla possibilità della scommessa e di conseguenza a questo giro del mondo e al margine massimo di tempo che non bisognava superare. Anzi, cominciava a preoccuparsi dei possibili ritardi, degli incidenti che potevano sopravvenire durante la corsa. Si sentiva interessato alla scommessa e tremava al pensiero che solo il giorno prima avrebbe potuto compromettere la vincita con la sua imperdonabile sbadataggine. E così, molto meno flemmatico del signor Fogg, Passepartout contava e ricontava i giorni già impiegati in viaggio, malediceva le fermate del treno, lo definiva un treno-tartaruga, e biasimava in cuor suo il signor Fogg di non aver promesso un premio al macchinista. Quasi che fosse possibile anche su una ferrovia, come su un piroscafo, superare la velocità regolamentare! Verso sera il convoglio s’internò di nuovo fra le gole di monti; e fino all’alba corse ora lungo l’orlo di precipizi, ora su ponti arditi lanciati a cavalcioni di gole piene d’ombra. Il frastuono della corsa non impediva ai viaggiatori di dormire nei loro angoli, cullati dal rullio della vettura. Si destarono a mattino già chiaro. Sir Cromarty chiese a Passepartout di dirgli l’ora.
Sono appena le tre - rispose il francese, dopo aver consultato il proprio orologio.
Difatti quel famoso orologio, sempre regolato sull’ora del meridiano di Greenwich, che si trovava ormai a settantasette gradi a ovest, ritardava per forza di quattro ore.
Capisco come sta la cosa! Sono invece le sette - rettificò Sir Francis.
E ripetendo a Passepartout la medesima osservazione che questi aveva già ricevuta da Fix, tentò di spiegare:
Vedete, giovanotto: viaggiando, occorre regolare l’orologio sopra ogni nuovo meridiano. E precisamente: andando verso est, come andiamo noi, ossia incontro al sole, bisogna tener conto che i giorni si accorciano, di quattro minuti per ogni grado che si percorre. E quindi ogni quindici gradi l’orologio deve esser fatto avanzare di sessanta minuti, vale a dire di un’ora. Il contrario dovrebbe avvenire se si viaggiasse verso ponente: allora bisognerebbe far ritardare l’orologio di un’ora per ogni quindici gradi.
Fu fiato buttato al vento. Avesse o no compresa la spiegazione dell’ufficiale, il testardo Passepartout non volle saperne nemmeno per sogno di far fare un balzo avanti alle lancette del suo orologio, il quale restò pertanto regolato invariabilmente sull’ora di Londra. «Innocente mania da cui del resto non può derivar danno a nessuno!», pensò Sir Francis sorridendo; e non ne parlò più. Alle otto del mattino e quindici miglia prima della stazione di Rothal, il treno si fermò in una radura in mezzo a una foresta di tamarindi. Vi sorgeva un piccolo borgo composto di eleganti “bungalows” e di alcune capanne d’operai.
Il conducente scese, e passando lungo la fila dei vagoni annunziò:
Signori, si scende qui!
Phileas Fogg e Sir Francis Cromarty si guardarono sorpresi. Passepartout, che si era subito slanciato fuori e aveva percorso di carriera un buon tratto di strada avanti al treno, tornò di lì a poco gridando:
Non c’è più ferrovia!
Cosa intendete dire? - chiese l’ufficiale.
Intendo dire che il treno non può continuare!
Sir Cromarty si decise anch’egli a metter piede a terra. Phileas Fogg lo seguì senza darsi fretta.
Ma si può sapere dove siamo? - domandò nervosissimo l’ufficiale al conducente.
In una frazione di Kholby - rispose quest’ultimo.
E perché ci fermiamo qui?
La ferrovia non è ultimata.
Come? Non è ultimata?
No. Resta da realizzare il tronco d’una cinquantina di miglia da qui ad Allahabad dove ricomincia l’altro tronco.
Ma i giornali hanno annunciato che la linea era in completa efficienza.
Che volete, signor ufficiale, i giornali si sono sbagliati.
Però voi date i biglietti da Bombay a Calcutta! - ripigliò Sir Cromarty, cominciando a scaldarsi.
Senza dubbio - replicò calmo il conducente. - I viaggiatori conoscono del resto, per la maggior parte, questa interruzione della linea, e sanno di doversi far trasportare con qualche altro mezzo da Kholby ad Allahabad.
Sir Francis era furibondo; Passepartout avrebbe volentieri accoppato il povero conducente, il quale non ci aveva colpa; non osava mirare in volto il suo padrone.
Imperturbabile, invece Phileas Fogg disse con naturalezza:
Se vi aggrada, signor Cromarty, pensiamo a provvederci di un mezzo che ci porti ad Allahabad.
Ma, signor Fogg, non si tratta per voi di un ritardo assolutamente pregiudizievole ai vostri interessi?
No; era previsto.
Come?! Sapevate che la ferrovia...
Niente affatto. Ma sapevo che un ostacolo qualsivoglia avrebbe ben potuto sorgere o prima o poi sulla mia strada. Niente è compromesso: ho due giorni di anticipo, che posso ora sfruttare. C’è un piroscafo in partenza da Calcutta per Hong Kong il 25 a mezzodì. Oggi è il 22: giungeremo in tempo.
Non c’era nulla da eccepire ad una risposta data con sì matematica sicurezza.
Purtroppo era proprio vero che i lavori della ferrovia si arrestavano a quel punto.
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