- Non lo vedo mai sul ponte.

Oh, il mio padrone sta benissimo. Soltanto, egli non è curioso.

Sapete, signor Passepartout che cosa ho pensato?  Che questo preteso viaggio  in ottanta giorni potrebbe celare qualche missione segreta...  una missione diplomatica, per esempio.

In fede mia, signor Fix, non ne so nulla, ve lo confesso. E, a dirvi la verità, non spenderei nemmeno mezza sterlina per saperlo.  La  conversazione  per  quel  giorno  terminò  lì.   Ma   in   seguito Passepartout  e  Fix tornarono ad incontrarsi sovente.  Al “detective” premeva assai entrare in confidenza con il servo del signor Fogg:  ciò avrebbe  potuto  giovargli  per  i  suoi  piani.  Perciò  Fix invitava frequentemente il giovane francese al bar  del  «Mongolia»,  dove  gli offriva  qualche  bicchierino di whisky che il buon figliolo accettava senza cerimonie e del  pari  ricambiava  per  non  restare  obbligato, trovando  che  quel  bravo  signor  Fix  era  proprio  un compitissimo gentiluomo.

Il «Mongolia» filava a tutto vapore.  Il 13 si fece la  conoscenza  di Moka,  che  apparve  nella  sua cintura di mura rovinate,  al di sopra delle quali si profilavano degli alberi di  dattero  verdeggianti.  In lontananza,  tra  le  montagne,  si distendevano vaste coltivazioni di piante di caffè.

Passepartout rimase rapito  nella  contemplazione  di  quella  celebre città,  e  rifletté persino che con quelle sue mura circolari e con un forte smantellato che si  disegnava  come  un’ansa,  la  città  stessa assumeva l’aspetto di un’enorme tazzina.

Nella  notte  successiva,  il  «Mongolia» superò lo stretto di Bab-el-Mandeb,  il cui nome arabo  significa  «la  porta  delle  lacrime»,  e l’indomani,  il  14,  faceva  scalo a Steamer-Point a nord-ovest della rada di Aden. Era lì che doveva riapprovvigionarsi di combustibile.  Un problema gravoso  e  importante,  questo  dell’alimentazione  delle caldaie  dei  piroscafi  a  tanta  distanza  dai centri di produzione.  Soltanto la  Compagnia  Peninsulare,  al  tempo  di  questo  racconto, spendeva  annualmente  a  questo  scopo  800 mila sterline.  Era stato necessario,  in realtà,  stabilire dei depositi in diversi porti e  in questi  mari  remoti,  il  carbone  veniva  a  costare  80  franchi la tonnellata.

Il  «Mongolia»  aveva  ancora  1650  miglia  da  percorrere  prima  di raggiungere Bombay,  e doveva rimanere quattro ore a Steamer-Point per riempire i suoi depositi.

Ma questo ritardo non poteva nuocere in alcun  modo  al  programma  di Phileas  Fogg.  Era  un  ritardo  previsto.  D’altronde il «Mongolia», invece di arrivare ad Aden soltanto il 15 ottobre mattina,  vi  arrivò il 14 sera.

Aveva guadagnato 15 ore.

Mister  Fogg  e  il  suo  domestico  scesero  a terra.  Il “gentleman” intendeva farsi vistare il passaporto. Fix gli andò dietro senza farsi notare. Compiuta la formalità del visto,  Phileas Fogg ritornò a bordo per riprendere la sua partita interrotta.  Passepartout,  invece, secondo il suo solito, prese a bighellonare nel mezzo di quella popolazione di parsì, di giudei, di arabi, di europei, che  costituivano  i  25  mila  abitanti  di  Aden.   Egli  ammirò  le fortificazioni  che  fanno di questa città la Gibilterra del Mar delle Indie e le  magnifiche  cisterne  alle  quali  lavoravano  ancora  gli ingegneri inglesi, duemila anni dopo gli ingegneri del re Salomone.  «Molto curioso,  molto curioso!»,  si diceva Passepartout rientrando a bordo.  «M’accorgo che non  è  inutile  mettersi  in  viaggio,  se  si desidera vedere qualcosa di nuovo».

Alle  sei  della sera,  il «Mongolia» faceva ruotare le pale della sua elica nelle acque della rada di Aden e correva  ben  presto  sul  Mare delle  Indie.  Aveva a disposizione 168 ore per compiere la traversata tra Aden e Bombay. D’altronde,  questo mare indiano gli fu favorevole.  Il  vento  proveniva dal nord-ovest;  le vele vennero in appoggio alla spinta del vapore.

Il  battello,  meglio  appoggiato,   rullò  di  meno.   Le  passeggere ricomparvero sul ponte con le loro fresche toelette.  Ricominciarono i canti e le danze.

Il viaggio si compiva dunque nelle migliori  condizioni.  Passepartout era  incantato  dell’amabile  compagno che il caso gli aveva procurato nella persona di Fix.

La domenica 20 ottobre, verso mezzogiorno, si fece la conoscenza della costa indiana.  Due ore più  tardi,  il  pilota  saliva  a  bordo  del «Mongolia».  All’orizzonte,  si profilava armoniosamente sul fondo del cielo una quinta di colline.  Ben presto,  i  filari  di  palmeti  che coprono  la città divennero più immediatamente evidenti.  Il piroscafo penetrò nella rada costituita dalle isole Salcette, Colaba, Elephanta, Butcher, e alle quattro e mezzo si accostava alla banchina di Bombay.  Phileas Fogg  terminava  giusto  in  quel  momento  la  trentatreesima partita della giornata.  Il suo compagno e lui,  grazie ad una manovra audace,  dopo aver fatto le tredici levate,  terminarono quella  bella traversata con un ammirevole chelem.

Il  «Mongolia»  doveva  arrivare  a  Bombay  il 22 ottobre.  Invece vi arrivava il 20.  Dalla sua partenza da Londra,  era perciò un guadagno di  due  giorni che Phileas Fogg poteva meticolosamente inscrivere sul suo itinerario nella colonna degli avvantaggiamenti.

 

 

 

 

 

10.

PASSEPARTOUT E’ FIN TROPPO FELICE DI CAVARSELA PERDENDO UNA SCARPA.

Nessuno ignora che l’India - questo grando triangolo rovesciato la cui base è verso nord e la punta è verso sud - comprende una superficie di un milione e quattrocentomila miglia quadrate, sulla quale è sparsa in maniera disuguale una popolazione  di  180  milioni  di  abitanti.  Il governo  britannico  esercita  un  dominio reale su una certa parte di questo immenso paese.  Ha un  governatore  generale  a  Calcutta,  dei governatori  a  Madras,  a  Bombay,  nel  Bengala  e  un luogotenente-governatore ad Agra.

Ma l’India inglese propriamente detta ha una  superficie  soltanto  di 700000  miglia  quadrate  e una popolazione tra i 100 e 110 milioni di abitanti.  Il che  sta  a  significare  che  una  parte  notevole  del territorio  sfugge  ancora  all’autorità della regina;  e,  in realtà, presso alcuni rajah dell’interno, violenti e terribili, l’indipendenza indù è ancora assoluta.

Dal 1756 - quando venne fondato il primo  stabilimento  inglese  nella zona  in  cui  sorge attualmente la città di Madras - fino all’anno in cui viene scritto questo racconto e  in  cui  è  scoppiata  la  grande insurrezione   dei  «cipayes»,   la  Compagnia  delle  Indie  è  stata onnipotente. Essa si è impadronita a poco a poco di tutte le province, acquistandole dai rajah con la promessa di rendite  che  essa  non  ha pagato  poi  affatto  o  quasi;  essa  nominava il proprio governatore generale e tutti i suoi impiegati civili o militari;  attualmente però essa  non esiste più,  e i possedimenti inglesi dipendono direttamente dalla Corona.

In questo modo l’aspetto,  i costumi,  le divisioni etnografiche della penisola  tendono  a  modificarsi  ogni  giorno.  In altri tempi vi si viaggiava con tutti  gli  antichi  mezzi  di  trasporto:  a  piedi,  a cavallo,  su carretti,  in carriola, in palanchino, a dorso d’uomo, in carrozza, eccetera. Al momento in cui viene scritto questo romanzo dei battelli a vapore percorrono a grande velocità l’Indo e  il  Gange,  e una  ferrovia,  che  attraversa  l’India  in  tutta  la  sua larghezza ramificandosi lungo il suo percorso,  pone Bombay a soli tre giorni di viaggio da Calcutta.

Il  tracciato  di questa ferrovia non segue la linea dritta attraverso l’India.  La distanza a volo d’uccello è solo di 1000- 1100 miglia,  e dei   treni   in   grado   di   raggiungere  una  velocità  media  non impiegherebbero tre giorni  per  percorrerla;  ma  questa  distanza  è accresciuta  di  un  terzo,  come  minimo,  dall’arco  che la ferrovia descrive innalzandosi fino ad Allahabad, nel nord della penisola.  Ecco,  nelle sue  grandi  linee,  il  tracciato  della  «Great  Indian peninsular railway»,  la grande ferrovia della penisola indiana.  Dopo avere lasciato l’isola di Bombay,  attraversa la Salsette,  salta  sul continente di fronte a Tannah, supera la catena dei Ghâti occidentali, corre  verso  nord-est  fino  a  Burhanpur,  solca il territorio quasi indipendente del Bundelkhand, s’innalza fino ad Allahabad, piega verso est,  incrocia il Gange a  Benares,  se  ne  distacca  leggermente  e, ridiscendendo  a  sud-est  attraverso  Burdwan  e la città francese di Chandernagore, ha il suo capolinea a Calcutta.  Alle quattro e mezzo del pomeriggio i passeggeri del «Mongolia»  erano sbarcati a Bombay, e alle otto precise partì il treno per Calcutta.  Mister Fogg si congedò perciò dai suoi compagni,  lasciò il piroscafo, diede a Passepartout una noterella di  alcune  compere  da  fare,  gli raccomandò  espressamente  di  farsi  trovare  prima  delle  otto alla stazione e,  con quel suo passo regolare che scandiva il secondo  come il pendolo di un orologio astronomico,  si diresse verso l’ufficio dei passaporti.

Non si preoccupava dunque affatto delle meraviglie di Bombay,  non  si dava premura di vedere nulla,  né il palazzo comunale, né la magnifica biblioteca, né i forti, né le banchise, né il mercato del cotone, né i bazar,  né le moschee,  né le sinagoghe,  né le chiese armene,    la splendida  pagoda  di Malabar-Hill,  arricchita di due torri poligone.  Non avrebbe contemplato né  i  capolavori  di  Elephanta,    i  suoi misteriosi ipogei nascosti a sud-est della rada, né le grotte Kanherie dell’isola Salsette, ammirevoli resti dell’architettura buddista!  Uscito   dall’ufficio   dei  passaporti,   Phileas  Fogg  se  ne  andò tranquillamente al ristorante della stazione,  e là si fece servire la cena.  Fra le altre pietanze, il trattore gli decantò una fricassea di coniglio: una vera specialità  del  paese.  Phileas  Fogg  accettò  la fricassea,  l’assaggiò coscienziosamente e la trovò pessima. Chiamò il trattore.

Signore, - gli chiese, guardandolo fisso, - è coniglio questo?

Sì, mylord; coniglio della giungla!

E non ha miagolato quando è stato ucciso?

Miagolato! Oh, mylord, un coniglio non miagola. Vi giuro...

Signor trattore,  - rispose calmissimo Phileas Fogg,  - non giurate.

Ma  piuttosto ricordatevi questo: una volta,  in India,  i gatti erano considerati animali sacri. Quelli erano bei tempi!

Per i gatti, mylord?

Ed anche per i forestieri.

E il signor Fogg continuò tranquillamente a cenare,  mentre due  occhi indagatori,  da  un  altro angolo del ristorante,  non lo perdevano di vista.

Erano gli occhi dell’ostinato “detective”.  Fix era sbarcato egli pure dal «Mongolia» pochi minuti dopo il  signor Fogg  e si era precipitato negli uffici del Direttore della Polizia di Bombay.

Fatta riconoscere la  propria  qualità  di  “detective”,  la  missione affidatagli  e  la  sua  situazione  del momento di fronte al presunto ladro di banconote,  chiese se  fosse  giunto  da  Londra  il  mandato d’arresto a carico di Sir Phileas Fogg.

Il  mandato  non  era giunto.  Infatti,  non poteva esservene stato il tempo.

Il  “detective”  rimase  sconcertato.   Avrebbe  voluto  ottenere  dal Direttore di Polizia un ordine di arresto provvisorio contro il signor Fogg. Ma il direttore rifiutò.

Non commetterò simile arbitrio - disse categoricamente. - Voi sapete meglio  di  me  che  in materia di libertà personale le usanze inglesi comandano la più rigida osservanza della legalità.  L’affare  riguarda la polizia di Londra; ed essa solo può spiccare il mandato.  Fix comprese che non era il caso d’insistere, e si rassegnò.

Frattanto,  - risolse,  - non perderò di vista il mio uomo. Ora egli si ferma senza dubbio a Bombay;  e il mandato ha  tutto  il  tempo  di giungere.

Il  “detective”,  tornato sulle tracce di Phileas Fogg all’ufficio dei passaporti,  si era rimesso perciò con prudenza  a  tallonare  la  sua preda.  Se  Fix  si  illudeva beatamente che il signor Fogg si sarebbe fermato a Bombay,  simile illusione era invece  ormai  tramontata  del tutto dal cuore di Passepartout.

Dopo  gli  ultimi  ordini  che gli aveva dati il padrone al momento di sbarcare dal «Mongolia», il bravo giovanotto aveva ben compreso, che a Bombay sarebbe accaduto come a Parigi e come a Suez;  che  il  viaggio non  sarebbe  finito  lì,  che  si  sarebbe andati fino a Calcutta,  e fors’anche più lontano.  E cominciava a domandarsi se la scommessa del signor Fogg non fosse proprio vera,  e se lui, Passepartout, che aveva sognato di vivere in tranquillo riposo,  non  si  trovasse  trascinato dalla fatalità a compiere davvero il giro del mondo in ottanta giorni!  A buon conto, dopo aver fatto i dovuti acquisti di camicie e di calze, il  servo  del signor Fogg si mise a passeggiare per le vie di Bombay.  C’era  gran  concorso  di  gente.  Frammischiati  a  europei  di  ogni nazionalità,  si  vedevano  persiani dalle berrette a pan di zucchero, sindi  dai  curiosi  copricapo  quadrati,   bunhias  con  mastodontici turbanti,  armeni  avvolti in striscianti vesti,  parsì in mitra nera.  Era per l’appunto una festa celebrata  dai  parsì  o  ghebri,  diretti discendenti dei seguaci di Zoroastro, i più industriosi, i più civili, i  più  intelligenti  e i più austeri degli indù,  la razza alla quale appartengono i più ricchi commercianti indigeni attuali.  La folla era attratta  da  una  festa,   una  specie  di  carnevale  religioso  con processioni e divertimenti, celebrato appunto da questi parsì che sono la stirpe più civile e più intelligente fra le numerose stirpi indù.  Quel giorno gli spettacoli comprendevano una danza sacra di  bajadere, le  quali,  avvolte in vaporosi veli rosei trapunti d’oro e d’argento, si muovevano armoniosamente e compostamente al  suono  dei  tamburi  e delle viole.

E’  superfluo  precisare  ora  quanto  Passepartout  guardasse  queste curiose cerimonie,  i suoi occhi e i suoi orecchi si  spalancassero  a dismisura  per  vedere  ed ascoltare,  e il suo atteggiamento e il suo stato d’animo erano certo quelli più ingenui possibile.  Sventuratamente per lui e per il suo padrone,  di cui rischiò così  di compromettere il viaggio, la sua curiosità lo portò più lontano di ciò che era conveniente.

In  realtà,   dopo  avere  ammirato  a  lungo  quel  carnevale  parsì, Passepartout si decise ad avviarsi alla stazione.  Senonché,  passando davanti  alla meravigliosa pagoda di Malabar-Hill,  curiosità lo punse di entrare a visitarla.

Ma il giovanotto ignorava due cose: che l’accesso a  talune  pagode  è rigorosamente  vietato  ai  cristiani,  e  che gli stessi credenti non possono entrarvi senza avere lasciato alla porta  i  calzari.  Violare simili formalità costituisce,  oltre tutto,  un reato contro la legge, giacché il Governo  d’Inghilterra  per  ragioni  di  accorta  politica rispetta e fa rispettare anche le più stravaganti usanze religiose del paese.

Passepartout,  proprio candidamente e senza ombra di irriverenza entrò nella pagoda come un turista in visita a un bel monumento.  Ma  mentre se  ne  stava  col  naso  in  aria a contemplare le laminature d’oro e d’argento che sfavillavano ai capitelli delle colonne,  all’improvviso si vide gettato sul sacro lastrico.

Tre  sacerdoti  bramini  dallo  sguardo furente gli si erano scagliati addosso: gli strapparono le scarpe e le calze,  e urlando bestialmente cominciarono a caricarlo di busse.

Il francese,  vigoroso e agile, si rialzò di scatto. Con un pugno e un calcio gettò a terra due degli avversari impacciatissimi nelle  lunghe vesti;  e  slanciatosi fuori della pagoda,  grazie alla celerità delle sue lunghe gambe riuscì ad interporre una considerevole  distanza  fra sé  e  il  terzo  bramino,  il  quale si era messo al suo inseguimento tirandosi dietro una folla schiamazzante.  Alle otto meno cinque, soltanto pochi istanti prima della partenza del treno,  Passepartout giungeva alla stazione,  scalzo,  senza cappello, dopo  aver  perduto  nel parapiglia anche il pacco contente le compere fatte.

Sulla banchina, confuso tra la folla dei viaggiatori che affluivano al treno, c’era Fix.  Egli aveva seguito fin là il signor Fogg;  e avendo compreso  ormai  che  questi  stava per lasciare Bombay,  aveva deciso senz’altro di stargli dietro fino a  Calcutta  e,  se  fosse  occorso, anche più lontano.

Passepartout non vide Fix il quale si teneva opportunamente celato tra il movimento della gente.  Ma Fix udì il racconto che il servo fece al suo padrone narrandogli in poche parole l’avventura della visita  alla pagoda.

Io  spero che una cosa simile non vi accadrà più - fu la flemmatica risposta di Phileas Fogg,  mentre  saliva  a  prendere  posto  in  uno scompartimento.

L’infelice Passepartout a piedi nudi e pesto di ammaccature,  seguì il padrone senza più fiatare.

Fix stava per salire in un altro dei vagoni,  allorché un pensiero  lo

    trattenne;   e   il   suo  progetto  di  partenza  fu  istantaneamente

    modificato.  «No,   io  rimango!»  si  disse  Fix  mentalmente.   «Una

infrazione  alla legge commessa in territorio indiano...  Tengo il mio uomo in pugno!».

Echeggiò in quel momento il fischio acuto della locomotiva. E il treno scomparve nella notte.

 

 

 

 

11.

PHILEAS FOGG ACQUISTA A UN PREZZO FANTASTICO UNA CAVALCATURA.

Il treno per Calcutta,  partito  puntualmente  alle  otto  pomeridiane portava il consueto carico di ufficiali, funzionari civili, negozianti di  oppio e di indaco che per ragioni del loro commercio raggiungevano la costa orientale dell’India.

Nello scompartimento occupato da Phileas Fogg,  oltre al suo domestico aveva   preso   posto  pure  un  terzo  viaggiatore  il  quale  sedeva nell’angolo di faccia al “gentleman” .  Era il brigadiere generale Sir Francis Cromarty, uno dei compagni di gioco del signor Fogg durante il tragitto da Suez a Bombay. Egli andava a raggiungere il suo reggimento a Benares.

Sir  Francis  Cromarty  poteva  avere  circa  cinquant’anni;  e fin da giovane aveva vissuto in India,  facendo assai di rado  ricomparsa  in Inghilterra  per  qualche  breve  licenza.   Alto,  biondo,  vigoroso, quell’energico ufficiale - il quale si era molto distinto  durante  la repressione dell’ultima rivolta dei «cipayes» - aveva acquistato ormai nei tratti fisici e nelle abitudini qualcosa che lo faceva meritamente qualificare un indigeno.  Conosceva assai bene l’India;  e avrebbe con piacere fornito tutte le notizie desiderabili sui costumi,  la storia, il  governo  di  quei  paesi,  solo  che  Phileas  Fogg  glielo avesse richiesto. Ma il signor Fogg non faceva alcuna domanda. A rigore,  può dirsi   che  egli  non  viaggiava:  descriveva  soltanto  un  percorso circolare,  come un grave che seguisse la propria orbita intorno  alla terra secondo le leggi della meccanica.

In   quel   momento,   compostamente   seduto  nel  suo  angolo  dello scompartimento, Sir Phileas Fogg rifaceva mentalmente il calcolo delle ore impiegate in viaggio da quando era partito da Londra. E si sarebbe fregato le mani per la soddisfazione,  se non fosse stato  cosa  fuori della sua indole il fare qualsiasi movimento inutile.  Sir   Francis  Cromarty  osservava  Phileas  Fogg  e  ne  studiava  la fisionomia, come già tante volte si era attardato a fare, con le carte in mano, tra una partita e l’altra di “whist”.  Ormai Sir Francis non aveva più dubbi a  giudicare  quel  compagno  di viaggio  un  tipo originale,  il più originale di quanti ne avesse mai incontrati in vita sua. Esitava invece ancora sopra una domanda che si era posta: Phileas Fogg possedeva,  sotto quel  freddo  involucro,  un cuore  umano,  un’anima  sensibile  alle  bellezze della natura,  alle nobili aspirazioni?

A Sir Cromarty il signor Fogg non aveva nascosto il  suo  progetto  di viaggio intorno al mondo,  né in quali circostanze lo avesse iniziato.  Ora,  l’ufficiale inglese non vedeva in quella scommessa altro che una eccentricità senza alcuno scopo utile.

A mio giudizio,  - rifletteva egli giustamente,  - le azioni di ogni uomo ragionevole dovrebbero essere guidate dal proposito di  «passare, bene  operando».  E  invece,  con  tutta  la  sua flemma,  il bizzarro “gentleman” consumerà l’intera esistenza senza fare nulla di buono  né per sé né per gli altri.

Un’ora  dopo  avere lasciato Bombay,  il treno,  superando i viadotti, aveva attraversato l’isola della Salsette e  correva  sul  continente.  Alla  stazione  di Kalyan,  abbandonò sulla destra la diramazione che, passando  per  Ulhasnagar  e  per  Poona,  conduce  verso  il  sud-est dell’India, e raggiunse la stazione di Pauwell.  A questo punto il treno s’internò tra le montagne molto ramificate dei Ghati  Occidentali,  catene a base di trappi e di basalti,  le cui più alte cime sono ammantate di foltissimi boschi.  Di quando in quando Sir Francis Cromarty e  Phileas  Fogg  scambiavano qualche rara parola;  ed era sempre l’ufficiale il primo a riaccendere la conversazione che l’altro lasciava languire. Ad un certo punto, Sir Cromarty disse:

Molti anni fa,  signor Fogg,  in questa parte  del  viaggio  avreste patito  un  ritardo  che  avrebbe  certamente  compromesso  il  vostro itinerario.

Perché, Sir Francis?

Poiché la ferrovia si interrompeva ai piedi dei Ghati;  e  bisognava attraversarli  in  palanchino  a  dorso  di  pony  per  raggiungere la stazione di Kandallah sul versante opposto.

Tale ritardo non avrebbe affatto  sconcertato  il  mio  programma  - rispose  Phileas Fogg.  - Io ho previsto anche la eventualità di certi ostacoli.

Tuttavia,  signor Fogg,  non mi  direte  che  avevate  previsto,  ad esempio,  il  brutto impiccio in cui ha rischiato di porvi l’avventura di codesto giovanotto!

Passepartout,  con i piedi ravvolti  nella  sua  coperta  da  viaggio, dormiva della grossa e non sognava davvero che si parlasse di lui.

Il Governo inglese - ripigliò Sir Francis,  - è estremamente severo, e con ragione, verso questo genere di reati. Esige sopra ogni cosa che si rispettino le usanze religiose degli  Indù.  Perciò  se  il  vostro servo fosse stato preso...

Sarebbe  stato  condannato,  avrebbe  scontato  la sua pena,  e poi avrebbe fatto tranquillamente ritorno in  Europa  -  concluse  Phileas Fogg senza scomporsi. - Io non vedo in qual modo la faccenda del servo avrebbe potuto far ritardare il viaggio del padrone.  E  su  quella  battuta il dialogo s’interruppe.  Durante la notte,  il treno valicò i Ghati,  passò a Nasik e l’indomani,  il 21 ottobre,  si slanciò  attraverso  un paese relativamente pianeggiante,  formato dal territorio del Khandeish. La campagna, ben coltivata,  era disseminata di borghi al disopra dei quali il minareto della pagoda rimpiazzava il campanile  delle  chiese  europee.  Molti  piccoli  corsi d’acqua,  la maggior  parte  dei  quali  affluenti  o  subaffluenti  del  Godavari, irrigavano questa fertile contrada.

Passepartout,  risvegliatosi,  ammirava  il  panorama e non riusciva a convincersi che stava attraversando l’India in un treno  della  «Great Indian  peninsular  railway».  Gli  sembrava  incredibile.  E tuttavia niente di più reale! La locomotiva, diretta dalla mano di un meccanico inglese e riscaldata dal  carbon  fossile  inglese,  lanciava  i  suoi sbuffi di fumo sulle piantagioni di cotone, di caffè, di noci moscate, di  garofani,  di  pepe  rosso.  Il vapore stendeva le sue spirali sui gruppi  di  palmeti  tra  i  quali  occhieggiavano   dei   pittoreschi “bungalows”, alcuni vihari, una specie di monasteri abbandonati, e dei templi   meravigliosi   arricchiti   dall’inesauribile  ornamentazione dell’architettura indiana.  Poi  si  stendevano  a  perdita  di  vista immensi  spazi  di  terreno,  giungle  nelle quali non mancavano né le tigri né i serpenti che venivano intimoriti  dal  fischio  del  treno; succedevano quindi delle foreste,  tagliate dal tracciato della strada e ancora popolate di elefanti e  che  guardavano  passare  con  occhio pensoso il convoglio traballante.

Nel  corso  di  quella  mattina,  superata la stazione di Malegaon,  i viaggiatori attraversarono il funesto territorio che  era  stato  così spesso  insanguinato  dai  seguaci  della  dea  Kalì.  Non erano molto lontane di lì Ellora e le  sue  meravigliose  pagode,    la  celebre Aurangabad, la capitale del selvaggio Aureng-Zeb, attualmente semplice capoluogo d’una provincia staccata dal regno del Nizam.  Era su questa contrada che esercitava il suo dominio Feringhea, il capo dei Thug, il re degli Strangolatori.  Questi assassini,  uniti in una  imprendibile associazione,  strangolavano in onore della Dea della Morte vittime di ogni età,  senza mai versare una goccia di sangue,  e ci fu un periodo in  cui  non  si  poteva  scavare in alcun luogo di questa terra senza trovarvi celato un cadavere.  Il Governo inglese è riuscito in seguito ad  impedire  in  gran  parte  questi  assassini,   ma  la  spaventosa associazione esisteva e funzionava ancora al tempo di questo racconto.  Alle 12,30,  il  treno  si  arrestò  alla  stazione  di  Burhanpur,  e Passepartout poté procurarvisi a peso d’oro un paio di babbucce ornate di perle false, che s’infilò pieno di un’evidente vanità.  I  viaggiatori fecero un rapido pasto e ripartirono per la stazione di Assurghur,  dopo avere costeggiato per un istante il corso del  Tapti, un  piccolo  fiume  che  si  va a gettare nel golfo di Cambay,  presso Surat.

E’ opportuno che parliamo adesso dei pensieri che occupavano  in  quel frattempo l’animo di Passepartout.  Fino al suo arrivo a Bombay,  egli aveva creduto e potuto credere che le  cose  sarebbero  terminate  lì.  Adesso  però  che  si stava andando a tutto vapore attraverso l’India, s’era verificato nel suo spirito un repentino mutamento di idee. Stava tornando alla carica il suo temperamento.  Ritrovava le idee piene  di fantasia  della sua giovinezza,  prendeva sul serio i progetti del suo padrone,  credeva alla possibilità della scommessa e di conseguenza  a questo  giro del mondo e al margine massimo di tempo che non bisognava superare. Anzi, cominciava a preoccuparsi dei possibili ritardi, degli incidenti che potevano  sopravvenire  durante  la  corsa.  Si  sentiva interessato  alla  scommessa  e tremava al pensiero che solo il giorno prima avrebbe potuto compromettere la vincita con la sua imperdonabile sbadataggine.   E  così,   molto  meno  flemmatico  del  signor  Fogg, Passepartout  contava  e  ricontava i giorni già impiegati in viaggio, malediceva le fermate del treno,  lo definiva  un  treno-tartaruga,  e biasimava in cuor suo il signor Fogg di non aver promesso un premio al macchinista.  Quasi che fosse possibile anche su una ferrovia, come su un piroscafo, superare la velocità regolamentare!  Verso sera il convoglio s’internò di nuovo fra le  gole  di  monti;  e fino all’alba corse ora lungo l’orlo di precipizi, ora su ponti arditi lanciati a cavalcioni di gole piene d’ombra.  Il  frastuono  della  corsa non impediva ai viaggiatori di dormire nei loro angoli, cullati dal rullio della vettura.  Si destarono a mattino già chiaro.  Sir Cromarty chiese a Passepartout di dirgli l’ora.

Sono  appena le tre - rispose il francese,  dopo aver consultato il proprio orologio.

Difatti quel famoso orologio,  sempre regolato sull’ora del  meridiano di  Greenwich,  che  si  trovava  ormai a settantasette gradi a ovest, ritardava per forza di quattro ore.

Capisco come sta la cosa!  Sono invece  le  sette  -  rettificò  Sir Francis.

E  ripetendo  a Passepartout la medesima osservazione che questi aveva già ricevuta da Fix, tentò di spiegare:

Vedete,  giovanotto: viaggiando,  occorre regolare l’orologio  sopra ogni nuovo meridiano.  E precisamente: andando verso est, come andiamo noi,  ossia incontro al sole,  bisogna tener conto  che  i  giorni  si accorciano, di quattro minuti per ogni grado che si percorre. E quindi ogni  quindici  gradi l’orologio deve esser fatto avanzare di sessanta minuti,  vale a dire di un’ora.  Il contrario dovrebbe avvenire se  si viaggiasse verso ponente: allora bisognerebbe far ritardare l’orologio di un’ora per ogni quindici gradi.

Fu  fiato  buttato  al  vento.  Avesse  o  no  compresa la spiegazione dell’ufficiale, il testardo Passepartout non volle saperne nemmeno per sogno di far fare un balzo avanti alle lancette del suo  orologio,  il quale restò pertanto regolato invariabilmente sull’ora di Londra.  «Innocente  mania  da cui del resto non può derivar danno a nessuno!», pensò Sir Francis sorridendo; e non ne parlò più.  Alle otto del mattino  e  quindici  miglia  prima  della  stazione  di Rothal,  il  treno  si  fermò  in una radura in mezzo a una foresta di tamarindi.   Vi  sorgeva  un  piccolo  borgo  composto   di   eleganti “bungalows” e di alcune capanne d’operai.

Il conducente scese, e passando lungo la fila dei vagoni annunziò:

Signori, si scende qui!

Phileas   Fogg   e   Sir  Francis  Cromarty  si  guardarono  sorpresi.  Passepartout,  che si era subito slanciato fuori e aveva  percorso  di carriera un buon tratto di strada avanti al treno,  tornò di lì a poco gridando:

Non c’è più ferrovia!

Cosa intendete dire? - chiese l’ufficiale.

Intendo dire che il treno non può continuare!

Sir Cromarty si decise anch’egli a metter piede a terra.  Phileas Fogg lo seguì senza darsi fretta.

Ma si può sapere dove siamo?  - domandò nervosissimo l’ufficiale al conducente.

In una frazione di Kholby - rispose quest’ultimo.

E perché ci fermiamo qui?

La ferrovia non è ultimata.

Come? Non è ultimata?

No. Resta da realizzare il tronco d’una cinquantina di miglia da qui ad Allahabad dove ricomincia l’altro tronco.

Ma i  giornali  hanno  annunciato  che  la  linea  era  in  completa efficienza.

Che volete, signor ufficiale, i giornali si sono sbagliati.

Però  voi  date  i  biglietti da Bombay a Calcutta!  - ripigliò Sir Cromarty, cominciando a scaldarsi.

Senza  dubbio  -  replicò  calmo  il  conducente.  -  I  viaggiatori conoscono del resto,  per la maggior parte,  questa interruzione della linea,  e sanno di doversi far trasportare con qualche altro mezzo  da Kholby ad Allahabad.

Sir  Francis era furibondo;  Passepartout avrebbe volentieri accoppato il povero conducente, il quale non ci aveva colpa; non osava mirare in volto il suo padrone.

Imperturbabile, invece Phileas Fogg disse con naturalezza:

Se vi aggrada,  signor Cromarty,  pensiamo a provvederci di un mezzo che ci porti ad Allahabad.

Ma,  signor Fogg,  non si tratta per voi di un ritardo assolutamente pregiudizievole ai vostri interessi?

No; era previsto.

Come?! Sapevate che la ferrovia...

Niente affatto.  Ma sapevo che un ostacolo qualsivoglia avrebbe  ben potuto  sorgere o prima o poi sulla mia strada.  Niente è compromesso: ho due giorni di anticipo,  che posso ora sfruttare.  C’è un piroscafo in  partenza da Calcutta per Hong Kong il 25 a mezzodì.  Oggi è il 22: giungeremo in tempo.

Non c’era nulla da eccepire ad una risposta  data  con    matematica sicurezza.

Purtroppo  era proprio vero che i lavori della ferrovia si arrestavano a quel punto.