I giornali sono come certi orologi che hanno la mania di essere  in  anticipo,   ed  avevano   annunciato   prematuramente   il completamento  della  linea.  La maggior parte dei viaggiatori erano a conoscenza di questa interruzione della strada e, scendendo dal treno, si erano impadroniti dei veicoli di  ogni  sorta  reperibili  in  quel borgo:  palkighari  a  quattro ruote,  carrette trainate da zebù,  una specie di buoi con la gobba,  carri da viaggio  somiglianti  a  pagode ambulanti,  palanchini,  cavallucci, eccetera. E così il signor Fogg e Sir Francis Cromarty,  dopo avere ispezionato tutto il  borgo,  fecero ritorno senza avere trovato nulla.

Andrò a piedi - dichiarò Phileas Fogg.

Passepartout fece una smorfia eloquentissima, dandosi un’occhiata alle magnifiche ma inadatte pantofole. Per fortuna anch’egli si era messo a cercare in giro: e dopo un attimo di esitazione s’azzardò a dire:

Signore, credo di aver trovato io un mezzo di trasporto.

Quale?

Un elefante. Appartiene a un indiano che abita a cento passi da qui.

Andiamo a vedere l’elefante.

Il  signor Fogg,  Sir Francis e Passepartout trovarono l’indiano nella sua capanna attigua ad un recinto chiuso da alte palizzate.  Nel recinto  c’era  un  elefante.  Dietro  richiesta  dei  visitatori, l’indiano li introdusse a vedere l’animale.  Si   trovarono  alla  presenza  di  un  magnifico  pachiderma,   mezzo addomesticato.

Lo allevo per farne una bestia da combattimento - disse l’indiano; e spiegò come avesse  cominciato  a  modificare  il  carattere  del  suo elefante,  nutrendolo per tre mesi di solo zucchero e burro al fine di condurlo a quel parossismo di furore che  in  lingua  indù  si  chiama «mutsh».

Simile  alimentazione - soggiunse l’indigeno,  - può parere la meno adatta a dare questo risultato;  eppure si usa  con  successo  da  noi allevatori.

Per buona ventura del signor Fogg,  l’elefante, che rispondeva al nome di Kiunì, era stato messo da poco al regime di zucchero e burro;  e il «mutsh» non si era ancora manifestato.

In  mancanza  d’altre cavalcature,  sapendo del resto che i pachidermi possono fornire  per  lungo  tempo  un’andatura  notevolmente  rapida, Phileas Fogg risolse di servirsi di quel mastodontico bestione. Ma gli elefanti  in  India  cominciano  a  farsi  rari,  e  son  tenuti assai preziosi.  I  maschi  particolarmente,  che  sono  i  soli  adatti  al combattimento nei circhi,  vengono molto ricercati.  D’altra parte, in cattività non si riproducono;  e quindi per procurarsene non c’e altro mezzo che la caccia nella foresta.

Niente   di  strano  quindi  se  alla  proposta  del  signor  Fogg  di noleggiargli l’elefante, l’indiano rifiutò.  Fogg insistette offrendo un prezzo magnifico: dieci sterline  all’ora.  Non ottenne nulla.  Aumentò fino a quaranta sterline; ma l’indiano non si lasciava tentare.

Phileas  Fogg  fece  allora  la  proposta  di  comperare   addirittura l’elefante.

Vi pago mille sterline, una sull’altra - disse all’allevatore.

Non  intendo  vendere  - rispose astuto l’indiano,  che ormai aveva fiutato il magnifico affare.

L’ufficiale a questo punto credé opportuno trarre in disparte  il  suo compagno di viaggio, e gli disse sottovoce:

Signor  Fogg,  vi  esorto  a  riflettere  prima di aumentare ancora un’offerta così spettacolare!

Non preoccupatevi - rispose gentilmente Phileas Fogg.  - Io  non  ho l’abitudine di agire senza aver prima riflettuto. Si tratta in fin dei conti,  per  me,  di  vincere  una scommessa di ventimila sterline;  e quest’elefante mi è necessario.  Perciò,  dovessi anche pagarlo  venti volte il suo giusto valore, lo avrò.

Ciò detto, il signor Fogg ritornò dall’indiano, i cui occhietti accesi dalla  cupidigia  lasciavano  chiaramente capire che ormai per lui era solo questione di prezzo. E il “gentleman” offrì via via milleduecento sterline, millecinquecento, milleottocento.  Passepartout per solito così rosso, era pallido dall’emozione.

Duemila sterline!  - disse infine Phileas  Fogg.  -  Ed  è  l’ultimo prezzo. Vendete?

Prendetevi l’elefante - concluse l’indiano.

Passepartout non si contenne.

Per le mie pantofole! - esclamò. - Questo si chiama far rincarare la carne di pachiderma! Il mio padrone può ben dire d’aver acquistato una cavalcatura da rajah!

Si  trattava  ora  di  trovare  un  «mahut»,  ossia  un  conducente di elefanti.

La faccenda non  fu  difficile.  Un  giovane  parsì  dalla  fisionomia intelligente e calma offerse i propri servizi. Il signor Fogg accettò, promettendo  una  vistosa  paga che non poteva far a meno di duplicare l’intelligenza del «mahut».

L’elefante fu tratto fuori del recinto.  Il  parsì,  che  conosceva  a perfezione  il  mestiere,  coprì il dorso dell’animale con una pesante gualdrappa e dispose ai suoi fianchi due specie di  sedie  a  barella, alquanto incomode.

Phileas Fogg pagò l’allevatore in fiammanti banconote che furono tolte dal prezioso sacco. A Passepartout parve che gli cavassero le viscere!

Poi il signor Fogg disse compitamente a Sir Cromarty:

Vi  offro  un  passaggio  sul  mio  elefante  fino alla stazione di Allahabad.  Accettate?  Un viaggiatore in più non può stancare  un  sì gigantesco animale.

L’ufficiale  accettò  con  entusiasmo,  e  prese  posto in una sedia a barella. Phileas Fogg si accomodò nell’altra.  Sistemate nel sacco da viaggio le provviste  di  viveri  acquistate  a Kholby,  Passepartout andò a mettersi, a cavalcioni sulla larga groppa di Kiunì,  fra il suo padrone e l’ufficiale.  Il parsì s’appollaiò sul collo  dell’elefante.  E  questo,  stimolato  dal fischio del «mahut», staccando un buon trotto si internò per un  sentiero  solitario  nella folta foresta di Latàni.

 

 

 

12.

PHILEAS   FOGG   E  I  SUOI  COMPAGNI  SI  AVVENTURANO  NELLE  FORESTE DELL’INDIA, ED ECCO CI CHE NE CONSEGUE.

Il «mahut», espertissimo dei luoghi,  affermava che seguendo la strada attraverso  la  foresta si sarebbe accorciato di una ventina di miglia il cammino; e i viaggiatori lasciarono fare a lui.  Si andava attraverso  le  selve  quasi  impenetrabili  che  vestono  i fianchi  dei monti Vindhya.  Il trotto rigido dell’elefante comunicava discrete scosse a Phileas Fogg e a Sir Francis,  ficcati sino al collo nelle loro sedie a barella;  ma essi subivano la situazione con flemma britannica,  scambiando anche qualche  parola  pur  senza  vedersi  in faccia.

Passepartout,  sistemato  sul  dorso  del  pachiderma  e  direttamente soggetto ai colpi e ai contraccolpi, doveva invece badar bene a tenere la lingua incollata contro il  palato,  giacché  fra  i  denti  se  la sarebbe mozzata di netto.  Ora lanciato contro il collo dell’elefante, ora rigettato sulla groppa,  il  bravo  giovane  volteggiava  come  un acrobata al trapezio. Ma in mezzo a quei salti da salmone, scherzava e rideva;  e  di  quando  in quando cavava dal sacco qualche zolletta di zucchero,  che l’intelligente Kiunì afferrava  con  l’estremità  della proboscide senza interrompere per un istante il trotto.  Dopo  due ore di cammino il parsì fece fermare l’elefante per un lungo riposo.

I viaggiatori scesero. Kiunì divorò un fascio di bambù e di arbusti, e si dissetò ad una pozza.

La sosta fu assai gradita a Sir Cromarty il quale si sentiva  le  ossa rotte.  Phileas  Fogg  invece  appariva  fresco come se uscisse allora allora dal più comodo dei letti.

Ma è di ferro costui? - disse l’ufficiale a Passepartout,  guardando il “gentleman” con ammirazione e con invidia.

Di ferro,  e fuso tutto d’un pezzo!  - rispose il servo,  che si era dato intanto da fare ad allestire un po’ di colazione.  A mezzogiorno la comitiva si rimise in viaggio.  Il paese andava assumendo un aspetto più desolato.  Alla fitta foresta erano  succeduti  boschi  di tamarindi e di palmizi nani,  e poi vaste pianure irte di magri arbusti e sparse  di  massi.  Si  era  nell’alto Bundelkund,  paese  poco  frequentato  da viaggiatori e abitato da una popolazione fanatica,  ostinata  nelle  più  superstiziose  e  crudeli pratiche  della  religione indù.  Colà il dominio degli inglesi non ha potuto stabilirsi mai interamente; e,  negli inaccessibili covi tra le gole  dei  Vindhya,  rajah  indipendenti hanno conservato i loro regni primitivi.  Parecchie volte Phileas Fogg e i compagni  scorsero  bande d’indù  dall’aspetto  selvaggio  i  quali  facevano  gesti  d’ostilità vedendo passare in lontananza il veloce pachiderma.  Il parsì  evitava quant’era possibile quegli incontri ritenendoli pericolosi.  Frotte  schiamazzanti  di scimmie fuggivano da ogni parte,  con enorme spasso di Passepartout.

Questi,  in mezzo a tanti altri pensieri,  ne aveva  ora  uno  che  lo occupava  intensamente.  Che  mai  ne  avrebbe  fatto dell’elefante il signor Fogg, giunti che si fosse ad Allahabad?  Se lo sarebbe condotto dietro?  Impossibile!  Il  prezzo del trasporto sarebbe stato rovinoso più ancora del prezzo d’acquisto. E allora Kiunì sarebbe stato venduto o rimesso in libertà?

«Certo»,  pensava il servo semplicione,  «una bestia di  tanto  valore merita  dei  riguardi.  E se per caso il signor Fogg ne facesse regalo proprio a me? Mi troverei imbarazzatissimo...».  Verso le otto di sera,  avevano oltrepassato la catena principale  dei Vindhya   e   i   viaggiatori   sostarono   ai   piedi   del  versante settentrionale, in un “bungalow” abbandonato.

Abbiamo percorso circa venticinque miglia - disse il «mahut».  -  Ce ne rimangono altrettante per giungere ad Allahabad;  e rimettendoci in cammino domattina all’alba, arriveremo prima di sera.  La notte era fredda.  All’esterno del “bungalow” il  parsì  accese  un fuoco  di  sarmenti,  il  cui  calore  confortò tutti.  Si cenò con le provviste comperate a Kholby e con banane raccolte nella foresta.  I viaggiatori erano stanchi;  e la conversazione,  cominciata a  frasi spezzate,  terminò  in  breve in un russare sonoro.  Solo l’indù restò sveglio presso Kiunì che si era addormentato in  piedi  appoggiato  al tronco d’un albero.

Qualche  ruggito  di  ghepardo  e  di pantera,  accompagnato da risate stridule di scimmie, turbava ogni tanto il silenzio della notte.  Ma i carnivori  si  contentarono  di far udire le loro voci,  e non osarono avvicinarsi al  “bungalow”  davanti  a  cui  il  parsì  conservò  fino all’alba  un bel fuoco acceso.  Sir Francis Cromarty dormì di un sonno profondo,  da militare coraggioso e rotto alle  fatiche.  Passepartout dormì di un sonno agitato, ricominciando in sogno le capriole fatte da sveglio.  Quanto  al  signor Fogg,  riposò comodamente proprio come se fosse stato nella sua tranquilla casa di Saville Row.  Alle sei del mattino ci si  rimise  in  cammino.  La  guida  aveva  la speranza di giungere alla stazione di Allahabad quella sera stessa. In questo modo,  il signor Fogg avrebbe perso solo una parte delle 48 ore risparmiate dall’inizio del viaggio.

Si discesero le ultime rampe dei Vindhya.  Kiunì aveva ripreso la  sua rapida  andatura.  Verso  mezzogiorno,  la  guida aggirò la borgata di Kallenger, situata sul Ken, uno dei sub-affluenti del Gange.  La guida evitava sempre i luoghi abitati,  sentendosi più sicura nelle campagne deserte che caratterizzano le prime depressioni del bacino del  grande fiume.  La  stazione  di Allahabad era a meno di dodici miglia a nord-est.

Fecero una sosta in un boschetto di banani, i cui frutti,  «succulenti quanto  la  crema»,  come  dicono  i  viaggiatori,  furono  apprezzati moltissimo.

Alle due, la guida entrò sotto il riparo di una spessa foresta, che si sarebbe protratta per diverse  miglia.  Egli  preferiva  viaggiare  in questo modo riparato dagli alberi.  In ogni caso, non aveva fatto fino allora alcun incontro spiacevole,  e sembrava che il  viaggio  potesse concludersi senza incidenti, quando l’elefante, dando qualche segno di inquietudine, si arrestò all’improvviso.

Erano circa le quattro.

Che c’è?  - chiese Sir Francis Cromarty, alzando la testa al disopra della sua portantina.

Non lo so, signor ufficiale - rispose il parsì,  con l’orecchio teso ad un confuso mormorio che proveniva dal folto della macchia.  In  capo  a pochi minuti,  il rumore si fece più distinto: un misto di voci umane e di note di strumenti, ancora in lontananza.  Passepartout era tutt’occhi e  tutt’orecchi.  Il  signor  Fogg  invece attendeva pazientemente, senza pronunciare una parola.  Saltato agilmente a terra, il parsì legò l’elefante ad un albero e con mosse guardinghe si cacciò tra la macchia a spiare.  Pochi minuti dopo ritornò dicendo:

Una processione di bramini si sta dirigendo da questa  parte.  Se  è possibile, evitiamo di farci scorgere.

Il  «mahut» slegò l’elefante e lo guidò in un recesso foltissimo della foresta, raccomandando ai viaggiatori di non scendere.  Egli stesso si tenne pronto ad inforcare la sua cavalcatura se la fuga fosse divenuta necessaria.

In questo nascondiglio,- disse l’indù,  - è quasi impossibile che ci scoprano.

Il fogliame infatti componeva uno schermo assai fitto.  Passò qualche  minuto  d’attesa.  Via  via  s’avvicinava  lo  strepito discordante   delle   voci   e  degli  strumenti:  canti  monotoni  si confondevano al suono di tamburi e di cimbali.  Poco dopo,  la testa della processione apparve sotto  la  volta  degli alberi, a una cinquantina di passi dal piccolo gruppo appiattato.  Phileas  Fogg e i compagni attraverso gli interstizi dei rami poterono osservare abbastanza bene la lenta sfilata.  In prima fila avanzavano sacerdoti indù con alte mitre nere  e  lunghe vesti  gallonate.  Erano  circondati  d’una  turba di uomini,  donne e fanciulli che cantavano una salmodia funebre sul ritmo dei «tam-tam» e dei  cimbali.   Dietro  veniva  un  mastodontico  carro  dalle   ruote raffiguranti  serpi attorcigliate,  e tirato da due coppie di zebù con ricchissime gualdrappe.

Sul carro troneggiava una statua orribile. Era una figura di donna con quattro  braccia,  il  corpo  tinto  in  rosso  sanguigno,  gli  occhi stralunati,  i  capelli  scomposti,  la  bocca ghignante.  Al collo le pendeva una collana di teschi,  ai fianchi una cintura di mani  mozze.  Poggiava  i  piedi  sopra la figura di un gigante abbattuto e col capo reciso.

Sir Cromarty riconobbe quella statua.

La Dea Kalì!... - mormorò. - La Dea dell’amore e della morte.

Della morte,  sì,  sono d’accordo,  ma dell’amore  certamente  no  - dichiarò Passepartout. - Che brutta donna!  Il parsì gli fece cenno di tacere.

Intorno  alla  statua  si  agitavano,  in mille contorcimenti,  vecchi fakiri che avevano il corpo rigato di strisce color ocra e coperto  di minuti tatuaggi.

Lenti,  maestosi  nello sfarzo del loro costume orientale,  avanzavano dietro ai fakiri alcuni bramini trascinando una donna che si reggeva a stento.

Quella donna era giovane e bellissima; aveva la carnagione bianca come un’europea. Il suo capo, il collo, le orecchie,  le braccia,  le mani, persino  i  pollici  dei piccoli piedi delicati erano sovraccarichi di gioielli.  Una tunica a laminette d’oro fissate su mussola vaporosa le fasciava il busto.

Con un contrasto violento che faceva agghiacciare il sangue,  dietro a quella delicata creatura avanzavano in gruppo molte guardie armate  di sciabole  e  di  pistole che pendevano alla loro cintola.  Portavano a braccia, sopra un palanchino, il cadavere di un uomo.  Era il corpo di un vecchio rajah,  adorno,  come in vita, di tutti i superbi segni del potere regale: il turbante trapunto di perle, la veste tessuta di seta e d’oro, la cintura di cascemiro e di diamanti,  le magnifiche armi di principe indiano.

I  musicanti seguivano il feretro e chiudevano il corteo levando grida di lamentazione e facendo uno strepito più assordante  del  rullo  dei «tam-tam».

Sir Francis Cromarty stava ad osservare tutta quella pompa con un’aria straordinariamente  rattristata.   Poi,  volgendosi  verso  il  parsì, sussurrò:

Un “sutty”!

L’indù fece un cenno affermativo,  e si pose di nuovo  l’indice  sulle labbra.

La  lunga  processione  andava  snodandosi  ormai in distanza sotto la volta  dei  rami,  lungo  il  sentiero;  finché  le  sue  ultime  file scomparvero nella profondità della foresta.  A poco a poco l’eco delle salmodie si spense.  Si sentì ancora qualche scoppio di grida lontane.

Poi tutto morì nel silenzio.

Phileas  Fogg  aveva  udito  le  parole  pronunciate  da  Sir  Francis Cromarty. Appena la processione fu scomparsa, chiese:

Che cos’è un “sutty”?

Un  sacrificio umano,  ma un sacrificio volontario.  Quella giovane donna che avete veduta sorretta dai  bramini  sarà  arsa  viva  domani all’alba.

Ah,  manigoldi!!!  -  gridò  Passepartout,  incapace  di frenare la propria indignazione.

E il cadavere portato dalle guardie? - domandò ancora Phileas Fogg.

E’ del principe suo marito - rispose l’indù. - Si tratta di un rajah indipendente del Bundelkund.

Phileas Fogg tacque un poco;  poi,  senza che la sua voce tradisse  la minima emozione, soggiunse:

Usi  così  barbari vigono ancora in India,  e gli inglesi non hanno potuto sradicarli?

Veramente nella massima  parte  dell’India  -  rispose  Sir  Francis Cromarty,  - simili crudeli sacrifici non si compiono più. Soltanto il territorio del  Bundelkund,  sul  versante  settentrionale  dei  monti Vindhya,  è  rimasto  fuori  dell’influenza  inglese;  e vi sussistono usanze fanatiche e selvagge,  come questa di ardere viva sul  rogo  la vedova accanto al cadavere del marito.

Che sventurata! - mormorò Passepartout. - Bruciata viva!

  -  riprese  l’ufficiale.  -  Verrà  bruciata,  e voi non potete immaginare a quale miserabile condizione verrebbe  ridotta,  dai  suoi stessi congiunti,  la donna che riuscisse a sottrarsi al supplizio. Le raderebbero i capelli,  la nutrirebbero appena con qualche manciata di riso,  la  scaccerebbero  come  una  creatura  immonda,  come  un cane scabbioso.  La prospettiva di un’esistenza così orribile spinge perciò sovente quelle meschine a eleggere la fine sul rogo, molto più che non lo  possa l’amore o il fanatismo religioso.  Qualche volta tuttavia il sacrificio è realmente volontario,  e ci vuole  l’intervento  energico del  Governo  per  impedirlo.  Qualche  anno fa io risiedevo a Bombay, quando  una  giovane  vedova  è  venuta  dal  Governatore  a  chiedere l’autorizzazione a farsi bruciare con il corpo del marito. Come potete immaginare,  il Governatore rifiutò. Allora la vedova lasciò la città, si rifugiò presso un rajah indipendente e così poté consumare  il  suo sacrificio.

Durante il racconto dell’ufficiale il parsì scuoteva la testa e quando il racconto finì, esclamò:

Il  sacrificio  che  avrà  luogo  domani sul far del giorno,  non è volontario di certo!

Come lo sapete? - chiese Sir Cromarty.

E’ una storia che tutti nel Bundelkund conoscono.

Del resto, dev’essere ormai rassegnata. A me è parso che la poverina non opponesse alcuna resistenza - fece osservare Sir Cromarty.

Ah,  signore,  ciò dipende soltanto dal fatto che l’hanno  ubriacata con il fumo dell’oppio e della canapa!

Ma dove la portano? - chiese ancora Sir Cromarty.

Alla pagoda di Pillaji,  a due miglia da qui.  Ivi dovrà trascorrere la notte, aspettando l’ora del sacrificio.

E il sacrificio quando avrà luogo?

Domani allo spuntar del giorno.

Data questa risposta,  il «mahut» fece  uscire  l’elefante  dal  folto della macchia, e si arrampicò sul collo dell’animale. Ma al momento in cui  stava  per  incitare  la  cavalcatura,  il signor Fogg lo fermò e rivolgendosi all’ufficiale:

Se salvassimo quella donna? - disse con naturalezza.

Salvare quella donna?! Signor Fogg, che dite mai? - Ho ancora dodici ore di vantaggio.