Era chiaro che la visita a quel tristo asilo aveva lasciato in lui una traccia profondissima. Rjuchin cercò di capire che cosa lo tormentasse. Il corridoio con le lampadine azzurre che non gli usciva di mente? O forse il pensiero che non esiste al mondo disgrazia peggiore che perdere la ragione? Sí, sí, naturalmente, c'entrava anche questo. Ma era pur sempre un pensiero troppo generico. C'era dell'altro. Che cosa? L'offesa, ecco che cos'era. Sí, sí, le parole offensive lanciategli in faccia da Bezdomnyj. Il guaio non era che fossero offensive, ma che in esse vi fosse una parte di verità.
Ora il poeta non si guardava piú intorno ma, fissando il fondo sporco del cassone sconquassato, cominciò a borbottare, a lagnarsi, a rodersi.
Sí, le poesie... Aveva trentadue anni! Davvero, che futuro aveva? Anche in futuro avrebbe scritto qualche poesia all’anno. Fino alla vecchiaia? - Sí, fino alla vecchiaia. Che gli avrebbero fruttato quelle poesie? La gloria? «Che assurdità! Non ingannare almeno te stesso! La gloria non verrà mai a chi scrive brutte poesie. Perché sono brutte? Ha proprio detto la verità! - si diceva spietato Rjuchin, non credo in nulla di quello che scrivo!...»
Avvelenato da un attacco di nevrastenia, il poeta fu sbalzato in avanti: il cassone sotto di lui non vibrava piú. Rjuchin alzò la testa e vide che da tempo era già a Mosca, anzi che a Mosca era spuntata l'alba, che una nuvola aveva riflessi dorati, che il suo camion era fermo, bloccato in una colonna di automezzi alla svolta nel viale, che a due passi da lui su un piedistallo c'era un uomo metallico 6, che, con la testa leggermente reclinata, guardava indifferente il viale.
Strani pensieri si riversarono nella testa dolente del poeta. «Ecco un esempio di vera fortuna... - Rjuchin si alzò in piedi nel cassone del camion e alzò il braccio, prendendosela, chi sa perché, con quell'uomo di bronzo che non infastidiva nessuno, - qualsiasi azione facesse in vita qualsiasi cosa gli succedesse, tutto volgeva a suo vantaggio, tutto contribuiva alla sua gloria! Ma che cos'ha fatto? Non me ne rendo ragione... C'è forse qualcosa di speciale nelle parole: "La bufera copre con la bruma.", 7 non capisco!... Fortuna aveva, fortuna! - concluse a un tratto, invelenito, Rjuchin, e sentí che il camion si era rimesso in moto. - Quel reazionario 8 gli ha sparato addosso, gli ha rotto un femore e gli ha assicurato l'immortalità...»
La colonna si mosse. Veramente ammalato e addirittura invecchiato, il poeta entrò due minuti dopo nella veranda del Griboedov, ormai spopolata. In un angolo, un gruppo finiva di bere, e al centro si dimenava un noto presentatore con una papalina orientale in testa e una coppa di spumante in mano.
Rjuchin, carico di asciugamani fu accolto con affabilità da Arèibal'd Arèibal'dovic, e subito liberato dai maledetti stracci. Se non si fosse cosí tormentato nella clinica e sul camion, avrebbe certamente provato piacere a raccontare tutto quello che era avvenuto all'ospedale, infiorando la narrazione di dettagli inventati. Ma adesso aveva ben altro in testa, e, per quanto fosse poco osservatore, ora, dopo la tortura del camion, per la prima volta fissò attentamente il pirata e comprese che quello, pur chiedendo di Bezdomnyj ed esclamando perfino «ahi-ahi-ahi», in realtà provava una totale indifferenza per il destino del poeta e non sentiva per lui la minima compassione. «Bravo! Ha ragione!», pensò Rjuchin con una cinica rabbia autodistruttrice, e, interrompendo il racconto sulla schizofrenia, chiese:
- Arèibal'd Arèibal'dovic, mi ci vorrebbe un po' di vodka...
Il pirata atteggiò il volto a comprensione, sussurrò:
- Capisco... subito... - e fece segno a un cameriere.
Un quarto d'ora dopo Rjuchin se ne stava solo solo, rattrappito sopra un piatto di pesce, e beveva un bicchierino dopo l'altro, comprendendo e riconoscendo che nella sua vita ormai non si poteva correggere nulla, e altro non restava che dimenticare.
Mentre gli altri facevano baldoria, il poeta aveva sprecato la sua notte, e adesso capiva che recuperarla era impossibile. Bastava alzare la testa dalla lampadina e guardare il cielo per capire che la notte era irrevocabilmente perduta. Con gesti veloci, i camerieri strappavano le tovaglie dai tavoli. I gatti, che scorrazzavano presso la veranda, avevano un'aria mattutina. Sul poeta cadeva irrefrenabilmente il giorno.
CAPITOLO SETTIMO
Un appartamento poco simpatico
Se, al mattino dopo, avessero detto a Stepa Lichodeev:
«Stepa! Sarai fucilato se non ti alzi subito!», Stepa avrebbe risposto con voce fievole e languida: «Fucilatemi, fate di me quel che volete, ma non mi alzo!»
Altro che alzarsi! Gli sembrava di non poter neppure aprire gli occhi: se lo avesse fatto, un fulmine sarebbe esploso e gli avrebbe mandato in pezzi la testa. In essa rimbombava una pesante campana, tra i globi oculari e le palpebre chiuse fluttuavano macchie brune orlate di un verde fiammeggiante, e per di piú sentiva una nausea che sembrava collegata ai suoni di un ossessivo grammofono.
Stepa tentava di ricordare qualcosa, ma ricordava soltanto che, forse ieri e non sapeva dove, se ne stava in piedi con un tovagliolo in mano e cercava di baciare una signora, e le prometteva che sarebbe andato a trovarla l'indomani a mezzogiorno in punto.
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