“Come è possibile” si domanda l’astrofisico “che un filone di cavorite possa trovarsi sulla Terra? Non dovrebbe prendere il volo e sparire negli spazi cosmici?”. In questo “com’è possibile” di Sagan è racchiuso tutto il gioco concettuale che esige, per me, ogni opera di fantascienza, e che consiste nella verifica del suo coefficiente di verosimiglianza scientifica. Una chirurgia, in altre parole, che vogliamo applicare mettendo sul tavolo anatomico il romanzo di Doyle, non certo al fine di pervenire a un attestato di validità, o di non validità, letteraria, ma per accertare se contenga o no qualche palla di MDnchhausen o qualche frammento di cavorite.

Nel romanzo Il mondo perduto, Conan Doyle ci descrive un viaggio dalla storia alla preistoria, dalla zoologia alla paleontologia, dal consorzio civile all’impero dei fossili viventi. Un viaggio, e non ce ne stupiamo. Tutta la fantascienza, da Cyrano de Bergerac, o ancor prima, da Luciano di Samosata, ai giorni nostri, si alimenta della metafora, e dell’espediente narrativo del viaggio, e cresce nel mito incantatore degli altrove. Lo spazio romanzesco di Jules Verne è una guida fantasticata ai mille modi per viaggiare, e ai mille luoghi paralleli dove andare. Con lui si viaggia in sottomarino o in pallone aerostatico, su di un razzo a propulsione balistica o su una macchina a vapore, e si transita dal centro del globo ai limiti superiori dell’atmosfera, dalle Indie nere minerarie alle vette più eccelse delle montagne, quasi sempre all’insegna di quel possibile che la tecnologia del ventesimo secolo avallerà molte volte. Il viaggio fantascientifico culmina nel viaggio nel tempo di Wells, il più improbabile di tutti i viaggi, ma che alcuni sviluppi della teoria della relatività stanno trasferendo a far parte delle utopie più prossime a noi.

L’approccio di Conan Doyle è sincretico: descrive uno spostamento geografico che presuppone, solidalmente, un salto indietro cronologico. Al centro del Sudamerica, egli fabula, nel bel mezzo della immensa foresta brasiliana, si erge un colossale acrocoro, un cumulo di rocce spinte in alto dalle forze geologiche. Sull’altopiano, divenuto inaccessibile al resto del mondo, troviamo una sorta di cretaceo in miniatura, riccamente popolato di fossili viventi. Uno zoologo, il solito scienziato deus - ex - machina delle storie di fantascienza, è arrivato sino ai confini di questa isola discronica, o pancronica se preferite, ed è tornato in patria destando, con il suo racconto di animali superstiti, l’incredulità, e il sospetto di truffa, dei colleghi. L’avventura nasce dalla volontà dello scienziato di confutare le accuse e la peripezia nasconde un antico racconto mitico: l’attraversamento degl’Inferi vigilati, però, in questo caso, non da Cerbero, ma dai mostri della preistoria. I dinosauri, vivi e vegeti. “Com’è possibile”, domandiamo subito, adottando l’approccio che Carl Sagan ci ha suggerito. Questi pterodattili, o questi iguanodonti, potrebbero venir fuori, un bel giorno, da un macchione dell’Amazzonia, come il celacanto dal mare delle Comore? Conan Doyle, per suffragare la credibilità della sua invenzione, adotta il punto di vista scientifico di Darwin: chiama in causa l’isolamento e la stabilità delle condizioni ambientali. Si è, ci chiediamo subito, dimenticato dell’altra condizione posta dal naturalista: una debole selezione naturale? Dapprima sembra proprio di sì, perché ha immaginato, sul suo altopiano, dei dinosauri carnivori, non meglio classificati, ma certo tirannosauri et similia, che si pappano senza pietà i poveri iguanodonti erbivori. Ma non si decreti troppo in fretta. La contraddizione è notata dallo stesso Doyle, che per bocca del suo scienziato si chiede, con stupore, perché i predatori non abbiano dato fondo, col passare del tempo, alla loro dispensa vivente. In realtà, noi sappiamo bene, oggi, ma Doyle no, perché il suo strumento per capire l’ecologia delle popolazioni poteva essere per lui solo la feroce struggle for life di Darwin, che l’interazione preda/predatore è un fenomeno complesso, e che i buoni predatori non provocano che raramente l’estinzione delle loro vittime, perché si condannerebbero alla morte per fame. Gli equilibri delle popolazioni implicano meccanismi ben più sottili della selezione naturale, del tutto ignoti all’epoca di Doyle. Il tempo ha, così, lavorato per lui, rispondendo per bocca nostra, e quindi a posteriori, a uno dei tanti “com’è possibile” di cui è disseminato il libro. Tra l’altro, Doyle ci ha fornito altri elementi per avallare scientificamente la stabilità dell’ecosistema Mondo perduto.

Intanto, ha complicato la rete dei rapporti trofici. I suoi dinosauri sono oggetto di allevamento, e di caccia. Sull’altopiano, infatti, lo si viene a sapere ben presto, sono presenti, e in azione, degli uomini e dei para - uomini. Sugli uomini veri e propri c’è ben poco da dire: si tratta di una razza di pigmei, penetrata in tempi remoti nel nuovo ambiente. La loro cultura è descritta nei termini di un paleolitico superstite: i pigmei abitano in caverne, sulle cui volte praticano una sorta d’arte parietale e sono equipaggiati d’arco e di frecce avvelenate. Tutto sommato, mi sembrano un ibrido immaginario tra l’uomo di Cromagnon, nanificato, e un aborigeno australiano attuale, un distillato sincretico di archeologia e di etnologia.