I para - uomini, ovvero degli scimmioni evoluti, meritano un indugio esplicativo più lungo. Apprendiamo, anche se con altre parole, che sono il risultato di una evoluzione a cul - de - sac subita da una scimmia antropomorfa giunta molte ere prima sull’altopiano. Dietro questa idea dell’uomo/scimmia intravedo, e non so se sbaglio, il fantasma di un’antica credenza - perfino von Humboldt l’ha presa in considerazione - e cioè che, in Sudamerica, accanto alle scimmie “inferiori”, sia vissuta, o viva, in incognito per la scienza, una scimmia antropomorfa. Non è vero, forse, che nel museo di Merida ci sono due statue dell’epoca Maya che raffigurano un essere somigliante a un gorilla? Deformazione surrealista dello scultore, o sua testimonianza di una creatura sconosciuta intravista nella foresta? Ma c’è, anche, un’altra possibilità.

Doyle, a un certo punto, cita le opere di Henry Walter Bates, il grande viaggiatore amazzonico amico di Darwin. Siamo legittimati a presumere, allora, che abbia letto il brano in cui il naturalista esploratore narra il suo incontro, nella giungla brasiliana, con una curiosa scimmia dalla coda corta, l’uakari. Con un certo umorismo, Bates descrive il ceffo della bestia, i suoi tratti umanoidi, il suo colore paonazzo da vecchio beone, e la sua fronte alta, da filosofo della foresta. Non sarà stato l’uakari, allora, e non lo yeti sudamericano delle leggende, a trasformarsi, passando attraverso gli alambicchi della immaginazione letteraria, nell’uomo/scimmia dell’altopiano? Purtroppo, a questo punto, Doyle cerca di contrabbandare della cavorite, o qualcosa di analogo. Infatti, dichiara bellamente che i suoi pitecoidi antropomorfi impiegano, per comunicare tra loro, un linguaggio verbale vero e proprio. La cosa è poco verosimile, se pensiamo che l’avvento della loquela è un fenomeno tardivo della evoluzione umana; si dubita perfino che uomini molto prossimi a noi, come quelli di Neanderthal, fossero davvero capaci di parlare. Ma Doyle, sia detto a sua lode, incorre in questo infortunio non per difetto, ma per eccesso, di informazione. Venti anni prima della pubblicazione del suo romanzo, uno scienziato inglese, certo Garner, aveva dato alle stampe un’opera molto documentata in cui sosteneva che le scimmie sono provviste di un linguaggio verbale complesso, in tutto e per tutto simile al nostro. Il fatto venne poi confutato rudemente, e si dimostrò che Garner era caduto preda di un miraggio scientifico, ma, all’epoca di Doyle, la sua teoria godeva ancora di un certo credito e non possiamo condannare senza appello il romanziere se ha pensato di poter traslare legittimamente in una chiave fantascientifica le vedute dello studioso di

“linguistica animale”, attribuendo così agli antropoidi evoluti del suo mondo “a parte” il dono della favella.

Ma prendiamo, ora, in esame la qualità dell’animazione dei fossili viventi che egli ha posto nel suo favoloso “altrove”. Serva, come campione, lo pterodattilo, che attraversa così spesso, visione terrificante, i cieli immaginari di questa preistoria ritrovata. Cominciamo col fare a Doyle un piccolo rimprovero tassonomico. E’ deplorevole che egli usi questo vocabolo, pterodattilo, improprio come termine generale fin dai tempi di Newton, e che serve a indicare, tra l’altro, rettili alati di piccole dimensioni, ben diversi dai grandi pterosauri - ecco la parola adeguata! - che egli chiama in causa nel romanzo. Tutto prova, comunque, che Doyle era affascinato da queste chimere volanti, e non possiamo dargli torto. Il primo fossile di questi esseri straordinari era stato rinvenuto nel calcare bavarese da un italiano, il Collini. Era il 1784 e aveva inizio con quel ritrovamento una lunga querelle scientifica. Cuvier attribuì il fossile ai rettili e lo battezzò pterodattilo (dal dito alato), rivelando al mondo, lui fissista, uno dei grandi anelli di transizione. In principio tutti pensarono che le ali fossero, in realtà, delle membrane natatorie e i mari primordiali si popolarono di pterodattili

“al bagno”. Con il passar del tempo, l’ipotesi equorea si dissolse progressivamente e il fossile venne, per dir così, assunto in cielo dai paleontologi, e cominciò, salvato dalle acque, a planare sui mari del terziario. Owen, grande avversario di Darwin, lo collocò, in una ricostruzione d’epoca, su di una rupe druidica, con le ali spiegate, in procinto di spiccare il volo. Perché, al contrario degli altri dinosauri, che Doyle descrive decisamente stolidi, lo pterodattilo gode fama di rettile intelligente appo lui? Ecco, penso che la circostanza sia dovuta alla lettura del libro di Seely, che comparve agli inizi del secolo. Il suddetto scienziato confermava la supposizione, già da tempo nell’aria, che ci fosse stata una grande somiglianza tra il cervello degli pterosauri e quello degli uccelli, fatto che depone certo a favore della intelligenza dei “draghi volanti”. Inoltre, il bacino stretto della “signora pterosauro” aveva autorizzato Seely a pensare che la prole fosse, alla nascita, piccola, e inerme, e che quindi, i nostri orchi alati - il loro cervello evoluto ci consente di non escluderlo - praticassero delle cure parentali. Per finire, l’ossario rinvenuto in un giacimento di Cambridge, formato dai resti di numerosi esemplari, ha fin da allora alimentato il sospetto che questi rettili chimerici avessero inventato, all’alba del mondo, l’esistenza gregaria. Doyle aveva sicuramente ben presenti tutti questi interrogativi quando descrive il nido collettivo dei suoi pterodattili, nel cratere del vulcano, e quando pone a guardia di questa prima società animale degli pterodattili/sentinella, appollaiati, tra l’altro, sui rami degli alberi, e non appesi - e chi avrà ragione? - a testa in giù, a guisa di pipistrelli, come pensano alcuni paleontologi. Se Doyle assegna loro istinti sociali, non sembra però esser troppo d’accordo sulle cure parentali.