Il nipote di Rameau

Denis Diderot

IL NIPOTE DI RAMEAU

Che faccia bello o brutto tempo, è mia abitudine andare, verso le cinque di sera, a passeggio nei giardini del Palazzo reale: sono colui che si vede sempre solo, pensoso, sulla panca d’Argenson. Mi intrattengo con me stesso di politica, di amore, di cose d’arte o di filosofia; abbandono lo spirito alle più libere divagazioni; lo lascio padrone di seguire la prima idea saggia o folle che si presenti, allo stesso modo che si vedono, nel viale di Foy, i nostri giovanotti dissoluti seguire i passi di una cortigiana dall’aria svagata, dal viso ridente, l’occhio vivace, il naso all’insù, lasciar questa per un’altra, attaccandole tutte senza impegnarsi con nessuna. I miei pensieri sono le mie donnine equivoche.

Se il tempo è troppo freddo o troppo piovoso, mi rifugio al caffè della Reggenza: là dentro mi diverto a veder giocare agli scacchi; è da Rey che si affrontano il profondo Légal, l’acuto Philidor, il solido Mayot; che si vedono le mosse più sorprendenti e si ascoltano i discorsi più assurdi; perché se si può essere un uomo d’ingegno e un grande giocatore di scacchi come Légal, si può anche essere un grande giocatore di scacchi e uno stupido come Foubert e Mayot.

Un pomeriggio mi trovavo là, tutto intento a guardare, parlando poco e ascoltando il meno possibile, quando mi si avvicinò uno dei personaggi più bizzarri di questo paese al quale Iddio non ne ha fatti mancare. E’ un insieme di nobiltà d’animo e di bassezza, di buon senso e di follia: le nozioni di ciò che è onesto e di ciò che è disonesto devono essere assai stranamente mescolate nella sua testa, perché egli mostra senza ostentazione quel tanto di buone qualità che la natura gli ha dato, e le cattive senza pudore. Inoltre, è dotato di una costituzione robusta, di un calore di immaginazione singolare, e di una forza di polmoni poco comune. Se vi capiterà di incontrarlo, vi metterete le dita nelle orecchie, o fuggirete, a meno che la sua originalità non vi trattenga. Dio, che terribili polmoni! Nulla è più dissimile da lui di lui stesso. Talvolta è magro e scavato come un malato all’ultimo stato di consunzione: gli si potrebbero contare i denti attraverso le guance, si direbbe che abbia passato molti giorni senza mangiare, o che esca dalla Trappa. Il mese dopo, è grasso e ben pasciuto come se non si fosse mai alzato dalla tavola di un finanziere, o fosse stato rinchiuso in un convento di Bernardini.

Oggi con la camicia sporca, i pantaloni strappati, tutto lacero, semiscalzo, se ne va a testa bassa, sfugge, e si sarebbe tentati di chiamarlo per dargli l’elemosina. Domani, incipriato, ben calzato, elegante, cammina a testa alta, si fa notare, e lo scambiereste quasi per un galantuomo. Vive alla giornata, triste o lieto secondo le circostanze. Il suo primo pensiero, quando si alza al mattino, è di sapere dove andrà a pranzare; dopo pranzo si domanda dove farà la cena. Anche la notte ha il suo problema: egli allora raggiunge a piedi una piccola soffitta dove abita, a meno che la padrona, 1

stanca di aspettare il fitto, non si sia fatta restituire la chiave; oppure si caccia in una taverna dei sobborghi e là aspetta il giorno davanti a un pezzo di pane e a un boccale di birra. Quando non ha nemmeno sei soldi in tasca, il che talvolta gli accade, ricorre a qualche vetturino suo amico, o al cocchiere di un gran signore, che gli dà un letto sulla paglia, accanto ai cavalli: al mattino ha ancora parte del suo materasso nei capelli. Se la stagione è mite, passeggia tutta la notte su e giù per il Corso o per i Campi Elisi. Ricompare col giorno in città, vestito dalla vigilia per l’indomani, e talora dall’indomani per il resto della settimana. Io non ho stima di siffatti originali; altri entrano con loro in rapporti di familiarità e perfino di amicizia; ma quanto a me, fermano la mia attenzione una volta all’anno, quando li incontro, perché il loro carattere si stacca da quello degli altri, ed essi rompono la noiosa uniformità che la nostra educazione, le nostre convenienze sociali, le nostre abitudini hanno introdotto. Se ne capita uno in qualche compagnia, è come un granello di lievito che fermenta e che restituisce a ciascuno una parte della sua individualità naturale. Scuote, agita, fa approvare o biasimare, fa uscire la verità, fa riconoscere le persone perbene, smaschera i furfanti: allora l’uomo di buon senso ascolta e giudica la gente.

Conoscevo costui da gran tempo. Frequentava una casa della quale il suo talento gli aveva aperto la porta. Vi era una figlia unica, e al padre e alla madre egli giurava che l’avrebbe sposata. Essi alzavano le spalle, gli ridevano sul naso, gli dicevano che era matto, eppure io vidi il giorno in cui la cosa avvenne davvero. Mi chiedeva in prestito qualche scudo, e io glielo davo. Si era introdotto, non so come, in alcune case di gente perbene, ove aveva il suo posto a tavola, a condizione che non parlasse senza prima averne il permesso. Taceva, dunque, e mangiava furiosamente; era magnifico a vedersi in questi frangenti. Se gli veniva desiderio di rompere il patto, e apriva la bocca, alla prima parola tutti gli invitati esclamavano: “Rameau!”.