Questo ibrido “poteva lanciarsi fino a duecento chilometri all’ora, cioè quasi cinquanta metri al secondo”, cosa che, paragonata al “France”, che poteva raggiungere, come ci ricorda l’autore, “sei metri e mezzo (al secondo -I.H.), in media”, costituiva un risultato incredibile. E non solo per il 1886, se si pensa che nel 1903 il primo volo dei fratelli Wright fece registrare una velocità di 18 metri al secondo. (I 200 chilometri all’ora furono raggiunti da un “autogiro” nel 1935!).

Acclamato, ancora in vita, come un visionario, o come un vero profeta della scienza, Jules Verne si è scagliato più volte contro questa arbitraria interpretazione. In un’intervista apparsa nel numero del 13 luglio 1902 della “Pittsburgh Gazette” l’autore dichiarava: Non sono particolarmente fiero di aver descritto automobili, sottomarini e navi aeree, prima che fossero realtà già acquisite dalla scienza. Quando descrivevo questi apparecchi come reali, erano già realizzati a metà. Lo scrittore tiene dunque a precisare, dopo averci presentato dettagliatamente il suo meraviglioso “Albatros”: “Insomma, questo apparecchio si ispira ai sistemi proposti da Cossus, de la Landelle e Ponton d’Amécourt… Ignorando questa dichiarazione, Sam Moskowitz crede di poter affermare chethe idea of the multivaned helicopter was taken by Verne from Luis Senarens (…) Before the date of Robur the Conqueror, Lu Senarens had written no less than three Frank Reade Jr. stories centered around skyborne ships carried aloft by the helicopter principle (…) These may very well have been the earliest works of fiction built around the theory of the helicopter and almost certainly the first to propose that an air vessel be driven by electric engines powered by Storage batteries. It was no coincidence that Jules Verne ‘s “Albatros” in Robur the Conqueror was lifted by the helicopter principle, powered by an electric engine from Storage batteries and accumulators of advanced design”. Possiamo comprendere il desiderio di arricchire la lista dei primati americani nel campo così mutevole delle invenzioni fittizie che hanno preceduto le vittorie della scienza e della tecnica. Ma Jules Verne non aveva bisogno di saccheggiare Lu Senarens, né per quanto riguarda l’applicazione del principio dell’elicottero alla navigazione aerea, né per la propulsione basata sull’elettricità immagazzinata in batterie e accumulatori. Abbiamo visto come, fin dal 1863, lo scrittore considerasse l’elicottero il mezzo ideale per conquistare lo spazio. L’articolo del “Musée des familles” presenta il sistema scelto da Ponton d’Amécourt per impedire il movimento di rotazione, due eliche sovrapposte che ruotano in direzioni opposte, e aggiunge: Con una terza elica, verticale, guida il suo apparecchio come vuole. Così, per mezzo delle prime due eliche si sostiene in aria e per mezzo della terza si muove, come se fosse in acqua. Ritroviamo queste idee nella descrizione del sistema di sospensione e di propulsione dell’“Albatros”, in cui “a due a due, ogni asse gira in senso inverso, disposizione necessaria perché l’apparecchio non sia preso da un movimento rotativo” e in cui “A prora e a poppa, montate sopra assi orizzontali, due eliche propulsive (…) comunicano il movimento di propulsione”. D’altra parte, sin dal 1881, Gaston Tissandier aveva utilizzato l’elettricità fornita da due piccoli accumulatori per la propulsione di un modello ridotto di dirigibile. Ecco perché Jules Verne parla della sua nave aerea come di una cosa “scoperta a metà”. E per questo ha ragione Peter Costello quando dice: “La pretesa di Sam Moskowitz che Verne abbia copiato da Senarens non ha fondamento; tutti e due hanno utilizzato le stesse fonti, e tratto l’ispirazione dall’elicottero gigante di de la Landelle”.

Le settantaquattro eliche sostentatrici sono “altrettante eresie aerodinamiche”, ma il fine dell’autore non era di offrire ai costruttori i piani di un apparecchio pronto a decollare dopo l’assemblaggio. (Non è un caso che il IV capitolo abbia per titolo l’avvertimento: “Che gli ingegneri, i tecnici e altri dotti faranno forse bene a sorvolare”). Coi mezzi propri della sua arte, Verne voleva solamente esprimere la propria convinzione che un giorno più o meno lontano l’uomo avrebbe conquistato lo spazio, e che questa vittoria contro la forza di gravità sarebbe stata ottenuta grazie all’applicazione del principio del “più pesante dell’aria”, che aveva sostenuto ardentemente.

Come d’abitudine, la redazione del romanzo ha dato luogo a uno scambio di vedute tra l’autore e l’editore. Dopo aver letto la prima versione, Hetzel si mostrò malcontento: Il libro è fatto, ma è composto dai grani di una collana, attraverso i quali bisogna ancora far passare come un filo, un interesse da creare quasi per intero. La risposta di Jules Verne è costruttiva: Ho rifatto un lavoro enorme su Robur. Non ho mai reso un manoscritto in questo stato. Il risultato di questo lavoro non è soddisfacente in maniera totale. Dopo un’introduzione promettente (il confronto fra Robur e i partigiani dei palloni), l’azione del romanzo si impantana nella massa delle descrizioni geografiche. D’altronde, l’autore ha attinto troppo dalle sue opere precedenti, e il periplo stesso dell’“Albatros” si rifà in qualche modo a quello del “Nautilus”, pur cambiando “elemento”. Quanto ai dettagli, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta. Per non ammassare gli esempi possibili, ricordiamo solo che la discussione sulla natura dei fenomeni atmosferici sconosciuti è una trasposizione di quella sui fenomeni marini ( Ventimila leghe sotto i mari), che il Weldon-Institute è ricalcato dal Gun Club (Dalla Terra alla Luna), che la scena della liberazione dei prigionieri riprende, su scala maggiore, quella della liberazione del missionario (Cinque settimane in pallone).

Come ci si può spiegare questa povertà d’inventiva da un autore conosciuto proprio per l’originalità delle trame e dei colpi di scena? Sembra che Jules Verne attraversasse momenti difficili, come risulta da una lettera indirizzata a Hetzel il 3 dicembre 1883: “Capite la mia situazione di fronte al nostro pubblico, non ho più soggetti incentrati sullo straordinario, palloni, Capitan Nemo… Dunque devo cercare di far nascere l’interesse per mezzo di espedienti.” Ma l’interesse del soggetto di Robur, il conquistatore risiede proprio nello straordinario, come nel caso di Cinque settimane in pallone o di Ventimila leghe sotto i mari. Ciò che sembra far difetto a Jules Verne in questo periodo tribolato della sua vita, sembra piuttosto la capacità di immaginare nuove situazioni. Come rimedio, l’autore sceglie di riesplorare fatti e immagini che hanno assicurato il successo ai suoi grandi romanzi, con risultati fatalmente più modesti.

Sembra, d’altra parte, che gli sforzi di Verne si siano orientati soprattutto verso la creazione di un memorabile eroe da romanzo. Lo scrittore ha voluto espressamente allontanarsi dai modelli che gli erano offerti dagli stessi suoi “Viaggi straordinari”. Scriveva a Hetzel che Robur è convinto, ma non un apostolo, non un Nemo, non un Hatteras. Nella stessa lettera afferma che Robur sarà dotato di fantasia, ma anche un uomo audace e dal sangue freddo di fronte alle situazioni difficili. Infine si scusa per aver “marcato la nota di brutalità”, promettendo di ricondurla “a toni convenienti”. Robur resta tuttavia una figura poco rassicurante, a cominciare dal suo aspetto: “Di taglia media, con spalle geometriche, come un trapezio regolare, di cui il più lungo dei lati paralleli era formato dalla linea delle spalle. Su questa linea, saldata mediante un collo robusto, un’enorme testa sferica. A quale testa di animale avrebbe potuto assomigliare per dar ragione alle teorie delle analogie passionali? A quella di un toro, ma di un toro dalla faccia intelligente. Degli occhi che la minima contrarietà doveva portare all’incandescenza e, sopra, una contrazione continua del muscolo sopraccigliare, segno di estrema energia. Capelli corti, un po’ crespi, dai riflessi metallici, come se si fosse trattato di una parrucca in paglia di ferro. Largo petto che si sollevava e si abbassava coi movimenti di un mantice da fucina.” Dobbiamo riconoscere che questa descrizione, che riunisce tratti provenienti dai più diversi campi senza dare mai la sensazione dell’ibrido, non è banale. E, come dice Robur stesso, il morale non è inferiore al fisico. È proprio qui che cominciano gli interrogativi sul personaggio, che dichiara: “Quando ho un’idea, voglio che gli altri la condividano e non sopporto le contraddizioni. Non sono semplici parole, come dimostra quel che succede nel salone del Weldon-Institute e, più tardi, a bordo dell’“Albatros”. Di fronte all’ostinazione e all’ostilità di Uncle Prudent e Phil Evans, Robur perde frequentemente la pazienza e si abbandona a accessi di collera. Dopo la distruzione del suo apparecchio volante da parte dei due viaggiatori in pallone, “non ebbe che un’idea fissa, un’ossessione: vendicarsi”. E Jules Verne intendeva questa vendetta come un duello fra l’“Albatros” e il “Go a Head”, cosa che sarebbe stata più conforme al personaggio.

Ma Hetzel vigilava affinché i lettori della sua rivista “Magasin d’Education et de Récréation” non fossero scioccati da un epilogo troppo brutale. E lo scrittore si piegò a questa esigenza: Al posto del combattimento aereo, metterò un salvataggio, e Robur rivolgerà alla folla entusiasta le parole che gli mettete in bocca. Questo darà nuova luce al nostro Robur, un salvataggio vale dieci volte un attacco, lo riconosco volentieri. Per nostra fortuna, Verne seppe resistere alla suggestione di trasformare il capitolo successivo in un perfetto “happy end”: “nessuna banalità; nessuna aeronave in azione” (probabilmente si trattava di un’impresa simile alla Società di comunicazioni interstellari di cui si parlava nelle ultime battute di Intorno alla Luna). E in un’altra lettera, Verne spiega le ragioni di questo rifiuto: Robur è troppo avanti per il suo secolo. Abbiamo già visto quanto fosse avanzato il maestoso “Albatros”.

L’apparecchio volante di Robur non è il primo a portare questo nome nella letteratura di anticipazione. Nel 1882, Albert Robida aveva battezzato nello stesso modo l’aereo-yacht del banchiere Raphael Ponto, personaggio del suo romanzo satirico Le vingtième siècle, la cui azione era ambientata nel 1952. È “un delizioso piccolo bastimento aereo, vera e propria bomboniera, arredato con il meglio dell’eleganza e del conforto, e disposto per accogliere una decina di persone, oltre ai tre uomini dell’equipaggio”.