Le lettere non si chiudevano mai senza qualche parola di ferma inimicizia contro la famiglia dei Seacombe e qualche rimprovero a me, che secondo lui vivevo alla mercé di quella famiglia. Quando ero ancora piccolo non capivo perché, dato che non avevo più i genitori, non mi affidassero agli zii Tynedale e Seacombe; ma crescendo venni pian piano a sapere della tenace ostilità, dell’odio profondo che avevano dimostrato a mio padre, di quanto aveva sofferto mia madre, in altre parole di tutti i torti fatti alla nostra famiglia, e a quel punto mi vergognai della dipendenza in cui vivevo e decisi che non avrei più accettato aiuti da quelle mani che avevano rifiutato di sollevare mia madre morente dalle sue necessità. Ero agitato da questi sentimenti nel momento in cui rifiutai la parrocchia di Seacombe e il matrimonio con una delle mie aristocratiche cugine.

A seguito di questa grave rottura con gli zii scrissi a Edward; gli raccontai cos’era accaduto e gli dissi che era mia intenzione seguire le sue orme e mettermi nel commercio. Gli chiesi anche un lavoro. La sua risposta non esprimeva approvazione per il mio comportamento, ma diceva che volendo potevo recarmi nello **shire e che «avrebbe visto cosa si poteva fare per trovarmi un impiego». Repressi tutto – inclusi i commenti mentali sulla sua lettera –, preparai il mio baule e il mio sacco da viaggio e partii verso nord.

Dopo due giorni (a quel tempo non esistevano i treni), in un umido pomeriggio di ottobre giunsi nella città di X. Avevo capito che Edward vivesse lì, ma, dopo aver chiesto informazioni, scoprii che nella fumosa atmosfera di Bigben Close c’erano solo lo stabilimento e il magazzino del signor Crimsworth; la sua residenza era a quattro miglia di distanza, in campagna.

Quando raggiunsi il cancello della casa che mi avevano indicato come quella di mio fratello era sera. Risalendo il viale ebbi modo di notare, pur tra le ombre del crepuscolo e la nebbia che le rendeva ancor più fonde, che la casa era grande e il terreno che aveva intorno ampio. Mi fermai un istante di fronte alla casa, con la schiena poggiata contro un albero che si levava alto in mezzo al prato, e guardai con attenzione la facciata della villa dei Crimsworth.

“Edward è ricco”, pensai. Che le cose gli andassero bene lo sapevo, ma non pensavo che avesse una dimora come quella. Senza indugiare troppo in stupore, speculazioni, congetture eccetera, raggiunsi la porta d’ingresso e suonai. Venne ad aprirmi un servitore: dissi il mio nome, lui mi prese il mantello bagnato e il sacco da viaggio e mi accompagnò in una stanza arredata come una biblioteca, con un bel fuoco e alcune candele accese sul tavolo; mi informò che il suo padrone non era ancora tornato dal mercato di X., ma che sarebbe sicuramente rientrato entro mezz’ora.

Rimasto solo, mi accomodai sulla poltrona imbottita e tappezzata di damasco rosso vicino al camino e, mentre gli occhi erano impegnati a guardare le fiamme che salivano rapide dai carboni ardenti e la cenere che ricadeva sul focolare, la mia mente era occupata a immaginare l’incontro che stava per avere luogo. Oltre alle varie questioni che restavano vaghe nella mia immaginazione, ce n’era invece una abbastanza sicura: non rischiavo di andare incontro a una delusione, da ciò mi proteggeva la misura delle mie attese. Non mi aspettavo un eccesso di tenerezze fraterne: le lettere di Edward erano sempre state tali da evitare che si generassero o nutrissero simili illusioni. Eppure, seduto lì in attesa del suo arrivo, mi sentivo ansioso – molto ansioso –, non so dirti perché. La mia mano, cui una stretta fraterna era tanto sconosciuta, si chiudeva a pugno per frenare il tremito con cui l’impazienza l’avrebbe altrimenti agitata.

Ripensai agli zii, e mentre ero occupato a chiedermi se la freddezza di Edward sarebbe stata pari al loro sprezzante distacco, sentii aprirsi i cancelli che davano sulla strada: ruote si appressavano alla casa. Il signor Crimsworth era arrivato e, dopo qualche minuto e un breve scambio nell’ingresso tra lui e il servitore, i suoi passi si avvicinarono alla porta della biblioteca. Bastavano quei passi ad annunciare che si trattava del padrone di casa.

Ricordo ancora com’era Edward dieci anni prima: un giovane alto, asciutto, rude; ora, mentre mi alzavo e mi voltavo verso la porta della biblioteca, vidi un bell’uomo, forte, di carnagione chiara, ben proporzionato e atletico; già dal primo sguardo notai un piglio svelto e acuto nei movimenti, nel portamento, nello sguardo e nei lineamenti. Mi salutò in modo asciutto e quando ci stringemmo la mano, mi squadrò dalla testa ai piedi; si accomodò sulla poltrona damascata e mi indicò un’altra seduta.

«Mi aspettavo che saresti venuto agli uffici nel Close», disse in un tono brusco, che con ogni probabilità era il suo solito; parlava con una modulazione della voce gutturale tipica del Nord, che strideva alle mie orecchie, abituate alla pronuncia argentina del Sud.

«Il padrone della locanda dove si è fermata la diligenza mi ha indirizzato qui», dissi. «Sulle prime ho dubitato di quell’informazione, non immaginavo che avessi una residenza come questa».

«Ma non ha importanza!», rispose. «Ho solo dovuto trattenermi mezz’ora in più per aspettarti, nient’altro. Pensavo saresti arrivato con la diligenza delle otto».

Gli dissi che mi dispiaceva che avesse dovuto aspettarmi; lui non rispose e ravvivò invece il fuoco, come per celare un moto d’impazienza; poi mi squadrò di nuovo.

Ero soddisfatto di non aver mostrato, al momento del primo incontro, né calore né entusiasmo; di averlo salutato con calma, controllata freddezza.

«Hai tagliato del tutto i ponti con Tynedale e Seacombe?», chiese precipitosamente.

«Non credo che avremo più contatti; penso che il mio rifiuto della loro proposta sarà di ostacolo a qualsiasi rapporto futuro».

«Ebbene», disse, «voglio che tu sappia fin dall’inizio che “nessun uomo può servire due padroni”. Essere in rapporto con Lord Tynedale è incompatibile col ricevere aiuto da me». Nei suoi occhi c’era una sorta di gratuita minaccia quando mi guardò sul finire della frase.

Non avendo intenzione di rispondere, mi limitai a ragionare tra me e me sulle differenze che esistono nella costituzione delle menti umane. Non so cosa abbia dedotto il signor Crimsworth dal mio silenzio, se lo credette un segno di ribellione o una prova che fossi intimidito dai suoi modi autoritari. Dopo avermi rivolto un’occhiata lunga e severa si alzò di scatto dalla poltrona.

«Domani», disse, «porterò alla tua attenzione altri aspetti; ma è ora di cena adesso e probabilmente mia moglie ci sta aspettando. Andiamo?».

Uscì dalla stanza a grandi passi e io lo seguii. Attraversando l’ingresso, mi chiesi che tipo fosse la signora Crimsworth. “Anche lei sarà tanto diversa da quel che piace a me, come anche Tynedale, Seacombe, le signorine Seacombe e il caloroso consanguineo che mi cammina davanti? O sarà migliore di loro? Mi sentirò libero di rivelare qualcosa della mia vera natura con lei, oppure...”. Ogni ulteriore congettura terminò col mio ingresso in sala da pranzo.

Una lampada accesa sotto un paralume di vetro smerigliato rivelava una bella stanza, con le pareti rivestite di pannelli di quercia; la cena era pronta in tavola.