Ogni mattina, a una certa ora, arrivavano i cucinieri,
si accendevano i fuochi e si faceva colazione. Poi, mentre alcuni
levavano il campo, altri attaccavano i cani; ed erano già in
viaggio circa un'ora prima che si diradassero le tenebre dinanzi
alle primi luci del giorno. Al calare della notte si piantava il
campo. Alcuni rizzavano le tende, altri tagliavano legna da ardere
e rami di pino per farne giacigli, altri ancora portavano acqua o
ghiaccio per i cucinieri. Anche i cani erano nutriti, ed era
questo, per loro, l'unico avvenimento della giornata, sebbene
fosse piacevole, dopo aver mangiato il pesce, andare attorno
bighellonando per un'oretta insieme agli altri cani, un centinaio
o più. Fra di loro vi erano dei forti lottatori, ma tre battaglie
con i più fieri diedero a Buck il primato, cosicché quando
arruffava il pelo e mostrava i denti, gli altri si facevano da
parte.
Più di tutto, forse, gli piaceva stare accanto al fuoco
accovacciato sulle zampe posteriori e con quelle anteriori stese
avanti, la testa alta e lo sguardo assorto sulle fiamme. A volte
pensava alla grande casa del giudice Miller nella vallata di Santa
Chiara baciata dal sole, e alla grande vasca di cemento, e a
Ysabel, la messicana senza pelo, e a Toots, il cagnolino
giapponese; ma più spesso ricordava l'uomo dalla maglia rossa, la
morte di Curly, la gran lotta con Spitz e le buone cose che aveva
mangiato o desiderava mangiare.
Non soffriva di nostalgia. La Terra del Sole svaniva nella
lontananza, e quei ricordi non avevano più potere su di lui. Molto
più potenti erano i ricordi ereditari che gli facevano apparire
familiari cose che non aveva mai viste. Gli istinti (che erano
solo reminiscenze dei suoi antenati, divenute abitudini)
indeboliti negli ultimi tempi, si risvegliavano in lui e
divenivano nuovamente vivi.
A volte, quando se ne stava così accovacciato con lo sguardo
assorto nelle fiamme, gli sembrava che esse appartenessero a un
altro fuoco, e accanto a questo fuoco vedeva un uomo assai diverso
dal cuciniere mezzo-sangue che gli stava davanti. Era uomo corto
di gambe e dalle braccia lunghe, con muscoli fibrosi e nocchiuti
piuttosto che tondeggianti. I suoi capelli erano lunghi e
arruffati, e la fronte sfuggiva sotto di essi. Pronunciava strani
suoni e sembrava temere le tenebre entro le quali stava
continuamente spiando, mentre la sua mano che pendeva fino a metà
gamba tra il ginocchio e il piede, stringeva un bastone alla cui
estremità era legata una pesante pietra. Era quasi completamente
nudo; una pelle lacera e bruciacchiata gli scendeva giù dalle
reni, e il suo corpo era villoso: in alcuni punti, anzi, sul petto
e sulle spalle e sulla parte esteriore delle braccia e delle
cosce, coperto da una vera pelliccia. Non si teneva eretto, ma con
il tronco inclinato in avanti dai fianchi in sù; e le ginocchia
erano un po' piegate. Vi era nel suo corpo una particolare
agilità, una elasticità quasi felina e la vigile attenzione di un
essere abituato a vivere nel continuo timore di cose visibili e
invisibili. Altre volte quell'uomo villoso si rannicchiava accanto
al fuoco con la testa fra le gambe e dormiva. Allora i suoi gomiti
poggiavano sulle ginocchia, e le mani si univano sul capo come per
proteggerlo dalla pioggia con le braccia pelose. E al di là di
quel fuoco, nell'oscurità tutt'attorno, Buck vedeva tanti carboni
ardenti, riuniti a due a due, sempre a due a due, e sapeva che
erano gli occhi di grandi bestie da preda. E poteva udire il
rumore dei loro corpi fra i cespugli e le loro grida nella notte.
Sognando così sulle rive dell'Yukon, con i pigri occhi assorti sul
fuoco, quei suoni e quei sospiri di un altro mondo gli facevano
ergere il pelo sulla schiena, sulle spalle e sul collo, finché
dava un gemito basso e soffocato o un fioco mugolio, e il cuoco
mezzo-sangue gli gridava: - Ehi, Buck, svegliati! - Ed ecco che
l'altro mondo svaniva, e gli tornava negli occhi il mondo reale;
allora si alzava, sbadigliava e si stirava come se avesse dormito.
Era un viaggio duro, con la slitta postale dietro di sé; e il rude
lavoro logorava i cani. Quando arrivarono a Dawson erano in
cattive condizioni di salute e avrebbero avuto bisogno di almeno
dieci giorni di riposo. Ma dopo due giorni scescero ancora lungo
le rive del Yukon giù dalle Baracche, carichi di lettere per il
mondo lontano. I cani erano stanchi, i conducenti di cattivo
umore, e per colmo di misura ogni giorno nevicava. Questo
significava strada molle, maggiore attrito dei pattini e maggiore
fatica per i cani; i conducenti tuttavia furono molto umani
durante il viaggio e fecero per gli animali il meglio che
poterono.
Ogni notte per prima cosa si occupavano dei cani, che mangiavano
prima dei conducenti. Nessun uomo avrebbe mai pensato a ficcarsi
nel suo sacco di pelo prima di avere esaminato attentamente le
zampe dei suoi cani. Ma le loro forze venivano meno. Dall'inizio
dell'inverno avevano percorso milleottocento miglia trascinando
slitte per tutta questa distanza; e milleottocento miglia pesano
anche sul cane più resistente. Buck resisteva, incitando i
compagni al lavoro e mantenendo la disciplina sebbene fosse anche
lui molto stanco. Billee piangeva e mugolava regolarmente ogni
notte, dormendo. Joe era più immusonito che mai e Sol-leks era
inavvicinabile sia dalla parte dell'occhio cieco sia dall'altra.
Ma più di tutti soffriva Dave. Qualcosa in lui andava male.
Divenne cupo e irritabile. Si scavava subito la sua buca non
appena veniva piantato il campo, e il conducente andava là a
portargli il cibo. Appena liberato dal finimento e buttatosi giù,
non si alzava fino al mattino. A volte, lungo la pista, se era
scosso da una fermata improvvisa o dallo strappo di una partenza,
guaiva di dolore. Il conducente lo esaminò, ma non trovò nulla.
Tutti i conducenti s'interessarono di lui: ne parlavano durante i
pasti e fino alla loro ultima pipata prima di andare a letto; e
una notte tennero consulto. Fu tirato fuori dalla sua tana,
portato vicino al fuoco e premuto e palpato tanto che gridò più
volte. C'era dentro qualche cosa che non andava. Ma non trovarono
nessun osso rotto né altro male.
Prima che giungessero a Cassiar Bar, era diventato così debole che
più volte cadde sotto le tirelle. Lo scozzese mezzo-sangue fece
fermare e lo staccò dalla muta mettendo al suo posto Sol-leks, che
veniva dopo di lui. Voleva far riposare Dave lasciandolo correre
liberamente dietro la slitta. Ammalato com'era, Dave si addolorò
di essere messo fuori e mugolò di scontento mentre gli toglievano
i finimenti, piagnucolando poi disperato quando vide Sol-leks al
posto che aveva occupato per tanto tempo. Perché era in lui
l'orgoglio del tiro e della pista e, malato a morte, non poteva
sopportare che un altro cane facesse il suo lavoro.
Quando la slitta si mosse, egli corse sulla neve soffice a fianco
del tiro, attaccando Sol-leks a morsi, gettandoglisi addosso e
cercando di rovesciarlo nella neve dall'altra parte e di mettersi
egli stesso nei tiranti tra lui e la slitta. Nel frattempo
mugliava e guaiva di dolore e di angoscia. Il mezzo-sangue cercò
di allontanarlo a frustate; ma egli non badava ai colpi di frusta
e l'uomo non si sentiva il cuore di colpire più forte. Dave si
rifiutò di correre tranquillamente sulla pista dietro la slitta
dove la strada era più agevole, ma continuò a trascinarsi di
fianco ad essa sulla neve soffice, dove era più difficile correre,
finché fu esausto. Allora cadde e giacque là dov'era caduto,
ululando lugubremente mentre la lunga fila delle slitte gli
passava accanto.
Con l'ultimo residuo delle sue forze poté trascinarsi dietro di
esse fino alla prima fermata, e allora superò tutte le file delle
slitte fino a raggiungere la propria, fermandosi vicino a Sol-
leks. Il conducente si fermò un momento per farsi accendere la
pipa dall'uomo che veniva dietro. Poi si volse e mise in moto i
cani. Essi si spinsero avanti senza dover esercitare alcuna
fatica, poi volsero la testa perplessi e si fermarono pieni di
meraviglia. Anche il conducente era sorpreso: la slitta non si era
mossa. Chiamò i compagni a vedere quello che era successo. Dave
aveva tagliato coi denti tutti e due i tiranti di Solleks e stava
proprio davanti alla slitta al suo posto.
Supplicava con gli occhi che lo lasciassero lì. Il conducente era
perplesso. I suoi compagni raccontavano come un cane possa morire
di crepacuore se tolto da un lavoro che tuttavia lo uccide, e
ricordavano casi a loro noti, in cui i cani, troppo vecchi per
lavorare o feriti, erano morti per essere stati tolti dalle
tirelle. Consideravano dunque un atto di pietà, poiché Dave doveva
morire ad ogni modo, lasciarlo morire tra le tirelle, a cuor
leggero e contento. Così fu nuovamente attaccato ed egli tirò
baldamente come un tempo, sebbene più di una volta urlasse
involontariamente per il dolore della sua ferita interna.
Parecchie volte cadde e fu trascinato dalle tirelle e una volta la
slitta gli andò addosso, cosi che in seguito zoppicò da una delle
gambe posteriori.
Tuttavia tenne duro finché si giunse al campo; e il conducente gli
fece una cuccia accanto al fuoco. Al mattino era troppo debole per
viaggiare. Al momento di attaccare cercò di trascinarsi dietro il
conducente. Con sforzi convulsi, riuscì a mettersi in piedi,
barcollò e cadde. Allora si trascinò lentamente, come un verme,
verso il luogo dove si stavano bardando i suoi compagni. Metteva
avanti le zampe anteriori e trascinava il corpo procedendo a
balzi, poi spingeva ancora avanti le zampe e faceva un nuovo balzo
di pochi pollici. Infine le forze lo abbandonarono, e i compagni
lo videro anelante nella neve, sforzandosi tuttavia di
raggiungerli. Lo poterono sentire ululare di angoscia finché
scomparvero dietro una fila d'alberi sulla riva del fiume.
Qui il traino si fermò. Lo scozzese mezzo sangue rifece lentamente
i propri passi fino al campo che avevano lasciato. Gli uomini
cessarono di parlare. Risuonò un colpo di rivoltella.
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