Era inevitabile che avvenisse l'urto per il predominio. Buck ne
sentiva l'esigenza perché lo richiedeva la sua natura stessa,
perché era stato preso dall'orgoglio ineffabile e senza nome della
pista: quell'orgoglio che tiene i cani legati al loro lavoro fino
all'ultimo respiro, che li induce a morire felici sotto la
bardatura, e spezza loro il cuore se ne sono distolti.
Era questo l'orgoglio di Dave come cane di ruota, l'orgoglio di
Sol-leks quando tirava con tutte le sue forze; l'orgoglio che li
afferrava quando si toglieva il campo trasformandoli da bruti
sordi e ostinati in creature ardenti, franche, ambiziose;
I'orgoglio che li spronava tutto il giorno, e li lasciava quando,
a sera, si piantava il campo, facendoli ricadere in uno scontento
e irrequieto buio. Era l'orgoglio che animava Spitz e lo
costringeva a punire i cani della slitta che sbagliavano o
cercavano di non lavorare lungo la pista, o al mattino si
nascondevano quando dovevano essere attaccati. Ugualmente era
questo orgoglio che gli faceva temere in Buck un possibile cane
guida. Ed era appunto questo l'orgoglio di Buck. Egli minacciava
apertamente il dominio dell'altro. Cominciò ad intromettersi fra
lui e i cani che doveva punire, e lo fece deliberatamente. Una
notte vi fu una grande nevicata, e al mattino quel malizioso di
Pike non si fece vedere. Se ne stava al sicuro, ben nascosto nella
sua tana sotto un piede di neve. François lo chiamò e lo cercò
invano. Spitz era furente di rabbia. Andava tutto incollerito per
il campo fiutando e scavando dappertutto, ringhiando così
terribilmente, che Pike, udendolo, rabbrividì nel suo
nascondiglio.
Quando alla fine fu scovato e Spitz si slanciò su di lui per
punirlo, Buck saltò fra i due con eguale furore. Giunse così
inatteso e si comportò così accortamente, che Spitz fu respinto e
rovesciato. Pike, che tremava come un vigliacco, si rianimò a
questa aperta ribellione e si gettò sul capo abbattuto. Buck, per
cui la lealtà cavalleresca era una legge ormai dimenticata, si
gettò a sua volta su Spitz, ma François, ridacchiando
dell'incidente e tuttavia inflessibile nell'amministrare la
giustizia, fece cadere a tutta forza la frusta sulla schiena di
Buck. Questo non valse ad allontanare Buck dal suo rivale
prostrato e si dovette ricorrere al manico della frusta; stordito
dal colpo, Buck indietreggiò e la frusta cadde più volte su di lui
mentre Spitz puniva rudemente il più volte colpevole Pike.
Nei giorni che seguirono, mentre Dawson si avvicinava sempre più,
Buck continuò a intervenire tra Spitz e i colpevoli; ma lo fece
accortamente, quando François non era nelle vicinanze. Con questa
chiotta ribellione di Buck, sorse e andò crescendo una
insubordinazione generale. Solo Dave e Sol-leks ne rimasero
immuni, ma tutto il resto dell'attacco andò di male in peggio. Le
cose non procedevano più regolarmente, vi erano continue zuffe,
continui disordini, e alla base vi era sempre Buck. François
cominciava a preoccuparsi, perché il bravo conducente temeva da un
momento all'altro la lotta mortale tra i due cani, sapendo che
prima o poi sarebbe avvenuta; e più di una notte i rumori delle
zuffe fra gli altri cani lo costrinsero a uscire nel suo
abbigliamento notturno temendo che Buck e Spitz si stessero
azzuffando.
Ma non se ne presentò l'occasione, e giunsero a Dawson in un buio
pomeriggio senza che la grande lotta fosse ancora avvenuta. Vi
erano là molti uomini e innumerevoli cani; Buck li trovò tutti al
lavoro. Sembrava che nelI'ordine stabilito delle cose i cani
dovessero lavorare. Per tutto il giorno andavano in sù e in giù
lungo la via principale in lunghi tiri, e di notte si sentivano
ancora tintinnare i loro campanelli. Trasportavano travi da
costruzione e legna da ardere fino alle miniere, e facevano tutti
quei lavori che nella vallata di Santa Clara erano compiuti dai
cavalli. Qua e là Buck incontrò dei cani del Sud ma per la maggior
parte erano eschimesi della razza dei lupi selvaggi. Ogni notte,
regolarmente, alle nove, alle dodici ed alle tre, essi alzavano il
loro canto notturno, un canto misterioso e strano a cui Buck si
univa con gioia. Quando l'aurora boreale s'illuminava fredda
nell'alto, o le stelle saltavano nella danza del gelo, e la terra
era intorbidita e assiderata sotto il suo manto di neve, il canto
degli eschimesi avrebbe potuto essere la sfida della vita, solo
che era modulato in tono minore con lunghi lamenti e singhiozzi, e
sembrava quasi la supplica della vita, la voce della fatica di
esistere. Era un antico canto, antico quanto la stessa razza, uno
dei primi canti del giovane mondo, in un periodo in cui le canzoni
erano tristi. Avvolto nel dolore di generazioni senza numero, era
un lamento che commuoveva Buck nel profondo. Quando egli si
lamentava e singhiozzava, vi era in lui la pena del vivere che era
stata l'antica pena dei suoi padri selvaggi, e insieme la paura e
il mistero del freddo e del buio che erano stati la loro paura e
il loro mistero. E il fatto che egli ne fosse così commosso
indicava l'intensità con cui ascoltava, attraverso la lontananza
dei secoli dei primi fuochi e dei primi tetti, i rudi inizi della
vita nell'età dei ruggiti.
Sette giorni dopo il loro ingresso in Dawson, essi discendevano la
costa scoscesa che, passando vicino alle Baracche volge alla Pista
dell'Yukon, e si dirigevano verso Dyea e Acqua Salata.
Perrault portava dispacci ancora più urgenti di quelli con cui era
venuto; inoltre si era impadronito di lui l'orgoglio del viaggio,
ed egli si proponeva di battere il record dell'anno. Varie
circostanze lo favorivano. La settimana di riposo aveva
ristabilito i cani restituendogli tutte le energie. La pista che
avevano tracciato durante l'andata era stata battuta e indurita da
altri viaggiatori. Inoltre il governo aveva disposto in due o tre
punti depositi di viveri per i cani e per gli uomini, e si poteva
dunque viaggiare più leggeri.
Il primo giorno raggiunsero Sessanta Miglia percorrendo
cinquantacinque miglia; il secondo giorno li vide andare a tutta
velocità verso lo Yukon, un bel pezzo avanti sulla strada di
Pelly. Una corsa così bella non fu condotta a termine senza grandi
crucci e arrabbiature da parte di François, perché l'insidiosa
rivolta di Buck aveva distrutto la solidarietà del tiro. Non
sembrava più che un unico cane corresse lungo la pista: l'appoggio
di Buck induceva i ribelli a piccole trasgressioni di ogni genere.
E Spitz non era più un capo molto temuto: scomparve l'antico
timore, e tutti sfidarono la sua autorità. Pike una notte gli rubò
mezzo pesce e se lo divorò sotto la protezione di Buck. Un'altra
notte Dub e Joe si avventarono contro Spitz costringendolo a
rinunziare a castigarli come si erano meritati. E anche quel
bonaccione di Billee era diventato meno bonaccione e non mugolava
più pacatamente come nei primi tempi. Buck non si avvicinava mai a
Spitz senza ringhiare e arruffare il pelo minacciosamente. In
realtà si comportava come un vero provocatore e si diede a far lo
spavaldo camminando in su e in giù sotto il naso di Spitz.
Quel rilassamento della disciplina influiva egualmente sui
reciproci rapporti dei cani fra di loro. Essi si azzuffavano assai
più di prima, finché a volte il campo si trasformava in un
manicomio urlante. Dave e Sol-leks erano gli unici che non fossero
cambiati, ma erano divenuti più irritabili per quelle continue
liti. François lanciava strane bestemmie nel suo barbaro
linguaggio, e pestava i piedi sulla neve per sfogare la sua
inutile rabbia, e si strappava i capelli. La sua frusta fischiava
continuamente sui cani, ma serviva a poco. Appena voltava le
spalle, essi ricominciavano. Cercava di aiutare Spitz con la
frusta, ma Buck capeggiava il resto della muta. François sapeva
che dietro tutto quel disordine c'era Buck; e Buck sapeva che lui
lo sapeva; ma era troppo intelligente per farsi cogliere
nuovamente sul fatto. Quando era attaccato alla slitta lavorava
fedelmente perché il lavoro era divenuto per lui una gioia; ma
molto maggior diletto era il fare insorgere una zuffa tra i
compagni e imbrogliare le tirelle.
Alla foce del Tahkeena, una notte, dopo il pasto, Dub scoprì un
coniglio da neve, gli saltò addosso e se lo fece sfuggire. In un
attimo tutta la muta balzò sù urlando. Ad un centinaio di passi vi
era un accampamento della polizia del Nord-Ovest con una
cinquantina di cani, tutti eschimesi, che si unirono alla caccia.
Il coniglio correva lungo il fiume e voltò in un piccolo affluente
correndo sulla sua superficie gelata. Filava leggermente sulla
neve mentre i cani vi passavano attraverso con violenza. Buck
guidava il branco, composto di una sessantina di animali, per
tutte le anse del fiumiciattolo, ma non riusciva a raggiungere la
preda. Correva ventre terra, uggiolando di eccitazione, gettando
avanti a balzi il suo splendido corpo nella fioca e bianca luce
lunare. E il coniglio da neve, come un pallido spettro di
ghiaccio, fuggiva via a balzi.
Tutto quel sommuoversi di antichi istinti che in certi periodi
trae gli uomini fuori delle città sonanti per spingerli nella
foresta o nella pianura a uccidere esseri animati con pallottole
di piombo lanciate da mezzi chimici, l'avidità di sangue, la gioia
di uccidere, tutto ciò era in Buck, ma infinitamente più profondo.
Correva alla testa del branco dietro quell'essere selvaggio, quel
cibo vivente, per uccidere coi suoi denti e immergere fino agli
occhi il muso nel sangue caldo.
Vi è un'estasi che segna la sommità della vita e oltre la quale la
vita non può levarsi. E il paradosso dell'esistenza è tale, che
quest'estasi viene quando più si è vivi, e si presenta come un
completo oblio di vivere. Questa estasi, questa felice
dimenticanza, aggredisce l'artista, lo trae fuori di sé avvolto di
fiamma; aggredisce il soldato spingendolo folle nella lotta senza
quartiere. Ed ecco che aggredì Buck mentre guidava il branco e
lanciava l'antico grido del lupo correndo dietro al cibo ancor
vivo che fuggiva dinanzi a lui nel plenilunio. Sprofondava negli
abissi della sua natura, di quella parte della sua natura che più
era profonda, tornando indietro nel grembo del tempo. Era dominato
dal violento insorgere della vita, dalla marea dell'essere, dalla
completa gioia di ogni singolo muscolo, di ogni giuntura, di ogni
nervo in quanto essi erano tutto ciò che non è morte, tutto ciò
che arde e che aggredisce esprimendosi nel movimento, volando
esultante sotto le stelle e sulla superficie della materia morta e
immobile.
1 comment