Puoi scrivere a tua sorella che saremo a Subiaco l’altra settimana.»

«Non decidere così! Pensaci!»

«Ho deciso. Voglio sapere. Se è lui, non lo impedirò nel suo cammino. Ma voglio vederlo.»

«Ne riparleremo domani, Jeanne. Non decidere ancora.»

«Ho pensato e ho deciso.»

Mezzanotte suonò al torrione delle Halles; suonò nelle nuvole, a lungo, il solenne canto malinconico delle innumerevoli campane. Noemi, che prima voleva insistere, tacque, piena il cuore di sgomento; come se quelle malinconiche voci del cielo notturno parlassero a lei di un destino dell’amica sua, di un destino di amore e di dolore, che si dovesse compiere.

 

CAPITOLO SECONDO.

 

Don Clemente.

 

La luce veniva meno, nello studio di Giovanni Selva, sul tavolino ingombro di libri e di carte. Giovanni si alzò, aperse la finestra di ponente. L’orizzonte ardeva, dietro il prossimo Subiaco, sulla obliqua fuga dei monti Sabini che da Rocca di Canterano e Rocca di Mezzo vanno verso Rocca San Stefano. Subiaco, l’aguzza catasta di case e casupole grigie che si appunta nella Rocca del Cardinale, si era velata di ombra; non si moveva fronda degli ulivi affollati a tergo della villetta rossa dalle persiane verdi, ritta in testa dello scoglio tondo cui la pubblica via cinge al piede; non si moveva fronda della gran quercia pendente al suo fianco, sopra il piccolo oratorio antico di S. Maria della Febbre. L’aria, odorata d’erbe selvagge e di pioggia recente, spirava fresca da Monte Calvo. Erano le sette e un quarto. Nella conca bella che l’Aniene riga le campane suonarono; prima la grossa di Sant’Andrea, poi le querule di Santa Maria della Valle e in alto, a destra, dalla chiesetta bianca presso la grande macchia, quelle dei Cappuccini, poi altre ancora, lontane. Una femminile voce sommessa, soave, una voce di venticinque anni, disse dall’uscio socchiuso alle spalle di Giovanni, quasi timidamente, in francese:

«Posso venire?»

Giovanni si volse a mezzo, sorridendo, stese un braccio, raccolse e strinse a sé la giovine signora senza rispondere.

Ella sentì che non doveva parlare, che suo marito seguiva con l’anima la luce moribonda e il canto mistico delle campane. Gli piegò il capo sull’omero e solo dopo un minuto di silenzio religioso, gli disse piano:

«Diciamo la nostra preghiera?»

Una stretta del caro braccio le rispose. Né le labbra di lei né quelle di lui si apersero. Soltanto gli occhi dell’una e dell’altro ingrandirono aspirando all’Infinito, si colorarono di riverenza e di tristezza, dei pensieri che non si dicono, dell’incerto futuro, delle porte oscure che mettono a Dio. Le campane tacquero e la signora Selva pose negli occhi del marito gli azzurri suoi, avidi, gli porse la bocca. La testa canuta dell’uomo e la bionda della donna si congiunsero in un lungo bacio che avrebbe fatto stupire il mondo. Maria d’Arxel si era innamorata a ventun’anni di Giovanni Selva per averne letto un libro di filosofia religiosa, tradotto in francese. Scrisse all’ignoto autore parole tanto calde di ammirazione che Selva le rispose accennando ai suoi cinquantasei anni e ai suoi capelli bianchi La signorina replicò che sapeva, che non offriva né chiedeva amore, che avrebbe soltanto desiderato qualche rigo di tanto in tanto. Le sue lettere lucevano d’ingegno infuocato. Giunsero a Selva mentr’egli si dibatteva in una oscura crisi, in una lotta amarissima che non accade raccontare qui. Pensò che questa Maria d’Arxel poteva essere una stella di salute. Le scrisse ancora.

«Sai che anniversario è oggi » disse Maria. «Ti ricordi?»

Giovanni ricordava; era l’anniversario del loro primo incontro. Le due anime si erano rivelate l’una all’altra, nella corrispondenza, sino al fondo, con indicibili ardori di sincerità; e le persone non si erano vedute che nei ritratti. Sin dalla quarta o dalla quinta lettera scambiata, Giovanni aveva chiesto alla signorina sconosciuta il suo; attesa, temuta domanda. La signorina consentì a patto di riavere tosto la fotografia, e spasimò fino a che non le giunse di ritorno con parole dolcissime dell’amico rapito dalla giovanilità intellettuale, appassionata, del viso di lei, dalla dolcezza degli occhi grandi, dalla eleganza del busto. Poi, quando si erano accordati d’incontrarsi, venendo lui dal lago di Como e lei da Bruxelles, a Hergyswyl, presso Lucerna, erano state febbri di terrori per l’uno e per l’altra.