Avrebbe riconosciuto che sarebbe atto biasimevole e stolto se non rispondesse a un misterioso impulso della stessa natura, dell’elemento detto spirituale che persiste nell’antico antagonismo con gli stimoli dell’istinto corporeo per effetto di una legge cosmica. Inconscii collaboratori di Colui che governa l’Universo, gli eroi della rinuncia suprema si credono di onorarlo col semplice sacrificio, mentre incarnano in fatto, giusta il Divino Disegno, la energia progressiva della specie, preparano al proprio elemento spirituale il potere di crearsi una forma corporea superiore, più simile ad esso; onde la purità loro è perfezione umana, è altezza in cui la natura nostra culmina e tocca i nebulosi principii d’una ignota natura sovrumana.

«Se io penso alla Purità incarnata» disse Giovanni «mi vedo davanti don Clemente. Ti ho detto che viene alla riunione di stasera? Scenderà subito dopo cena.»

Maria trasalì. «Oh! » diss’ella, «e io che dimenticavo! Mi ha scritto Noemi. Partiva da Milano ieri, con i Dessalle. Si fermano a Roma forse un paio di giorni e poi vengono.»

«Te ne sei ricordata perché ho nominato don Clemente» disse Giovanni sorridendo.

«Sì» rispose sua moglie «ma però, sai che non credo.»

L’alta fronte, gli occhi azzurri di don Clemente tanto sereni e puri, come avrebbero conosciuta la passione? Anche nella voce soffice, sommessa, quasi timida del giovane benedettino era, secondo Maria, un troppo delicato pudore, un candore troppo virgineo.

«Non credi» replicò Giovanni «e forse avrai ragione, forse non sarà Maironi. Però stasera converrà pure fargli sapere, in qualche modo, che questa signora Jeanne Dessalle sta per venire a Subiaco e che visiterà, naturalmente, i Conventi. È anche il Padre foresterario, lui; dovrebbe accompagnarla.»

Di questo non c’era dubbio. Lo avvertirebbe lei, Maria. Poiché non lo credeva l’amante della Dessalle, le sarebbe più facile di parlargliene con semplicità. Che cosa terribile, però, se fosse veramente lui, Maironi, e nessuno l’avvertisse e si trovassero improvvisamente a fronte del monastero, egli e questa donna! Era certo, Giovanni, che il frate venisse alla riunione? Sì, n’era certissimo. Don Clemente ne aveva ottenuto il permesso dal Padre Abate, stando lui, Giovanni, al monastero; e gliel’aveva detto subito. Verrebbe e condurrebbe seco quel garzone ortolano di cui gli aveva parlato, per farglielo conoscere. Così un’altra volta l’ortolano verrebbe solo e gl’insegnerebbe a rincalzar le patate nel campicello dietro la villa che Giovanni aveva pure preso in affitto per lavorarlo con le proprie mani. Questa del lavoro manuale era una piccola mania di Giovanni, venutagli tardi, che dispiaceva un poco a Maria, parendole cosa non più conveniente alle sue abitudini, alla sua età. La rispettava, però, e tacque. In quel momento la ragazza di Affile che li serviva entrò ad avvertire che quei signori stavano salendo la scala, e che la cena sarebbe pronta subito.

Tre persone salivano infatti per la scaletta a chiocciola del villino. Giovanni scese loro incontro. Il primo era il suo giovane amico di Leynì, che si scusò, salutandolo, di precedere i compagni, due ecclesiastici.

«Sono il cerimoniere» diss’egli. E li presentò lì sulla scala:

«Il signor abate Marinier, di Ginevra. Don Paolo Farè, di Varese, che Lei conosce già di nome.»

Selva rimase un po’ perplesso ma poi si affrettò a far salire i suoi visitatori, li avviò alla terrazza dov’erano già disposte delle sedie.

«E Dane?» diss’egli, inquieto a di Leynì, pigliando a braccetto.«E il professor Minucci? E il padre Salvati?»

«Sono qui» rispose il giovine sorridendo. «Sono all’Aniene. Le racconterò, è tutta una storia, verranno subito»

Intanto l’abate Marinier esclamava uscendo sulla terrazza:

«Oh, c’est admirable!»

E don Paolo Farè, da buon comasco, mormorava:«sì, bello, bello,» col tôno discreto di chi pensa:«Ma se vedeste il mio paese!».

Sopraggiunse Maria, si rinnovarono le presentazioni e di Leynì raccontò la sua storia, mentre Marinier girava i piccoli occhi scintillanti per il paesaggio, dalla piramide di Subiaco, quinta fosca del chiaro sfondo di ponente, ai prossimi carpineti selvaggi del Francolano che serra, scuro e grande, il levante.

Don Farè divorava con gli occhi Selva, l’autore di scritti critici sul Vecchio e Nuovo Testamento, e particolarmente di un libro sulle basi della futura teologia cattolica, che avevano innalzata e trasfigurata la sua fede. La storia del barone di Leynì era che alla stazione di Mandela tirava un gran vento, che il professore Dane temeva forte di esservisi buscata un’infreddatura, che sospettando di non trovare cognac in casa di un odiatore dell’alcool come il signor Selva, ed essendo anche l’ora in cui soleva pigliare ogni giorno due uova, s’era fermato all’Albergo dell’Aniene per avere le uova e il cognac; che sulla terrazza della trattoria, verso il fiume, c’era troppa aria e negli stanzini attigui troppa poca; che si era fatto servire il suo pasto in una camera dell’albergo e aveva rimandato le uova due volte; che loro erano partiti a piedi lasciando il professore Minucci e il padre Salvati a tenergli compagnia.

Poiché il delicato, freddoloso professore Dane non c’era, Giovanni propose il cenare sulla terrazza. Ne smise però subito l’idea vedendo che garbava poco all’abate di Ginevra. L’elegante, mondano Marinier, amico di Dane, aveva la stessa cura del proprio individuo, con maggiore dissimulazione e senza scuse di salute. Non aveva cenato all’Aniene con l’amico suo perché la cucina dell’Aniene gli era parsa, in una sua prima visita a Subiaco, troppo semplice, e sperava dalla signora Selva una cena francese. Di Leynì sapeva bene quanto la speranza fosse fallace; maliziosamente, non lo aveva istruito. Nel salottino da pranzo appena ci capivano i cinque commensali. Guai se fossero venuti anche gli altri due! Per verità né l’abate Marinier, né don Farè erano attesi.