Jeanne brillò negli occhi di malizia e di dolcezza:

«In italiano si dice: sì, di tutto cuore!»

I fratelli Dessalle avevano passato l’estate precedente a Maloja, Jeanne studiandosi di essere una compagna gradevole, nascondendo quanto poteva la sua insanabile piaga; Carlino cercando, nelle ore mistiche, a Sils Maria e nei dintorni, le traccie di Nietzsche, farfalleggiando nelle ore mondane di dama in dama, pranzando spesso a S. Moritz e persino a Pontresina, facendo musica con un addetto militare dell’ambasciata germanica di Roma e con Noemi d’Arxel, discorrendo di religione con la sorella e il cognato di lei. Le due sorelle d’Arxel, orfane, erano belghe di nascita, olandesi di origine e protestanti. La maggiore di esse, Maria, aveva sposato, dopo un idillio singolare e poetico, il vecchio pensatore italiano Giovanni Selva, che sarebbe popolare in Italia se gl’italiani avessero maggiore interesse per gli studi religiosi; poiché il Selva è forse il più legittimo rappresentante italiano del cattolicesimo progressista. Maria si era fatta cattolica prima del matrimonio. I Selva passavano l’inverno a Roma, il resto dell’anno a Subiaco. Noemi, serbatasi fedele alla religione de’ suoi padri, alternava Bruxelles con l’Italia. Ora la vecchia istitutrice, colla quale viveva, era morta a Bruxelles da un mese, alla fine di marzo. Né Giovanni Selva né sua moglie avevano potuto, per una indisposizione del primo, venire ad assistere Noemi in quei frangenti. Jeanne Dessalle, che si era legata particolarmente a Noemi, aveva persuaso il fratello a un viaggio nel Belgio, da lui non conosciuto, e quindi offerto ai Selva di recarsi a Bruxelles in loro vece. Così era avvenuto che Noemi si trovasse con i Dessalle a Bruges verso la fine di aprile. Vi abitavano una villetta in riva al breve specchio d’acqua che chiamano Lac d’amour. Carlino si era innamorato di Bruges e particolarmente del Lac d’amour come titolo di un romanzo che andava sognando di scrivere, senza tenerne ancora in mente molto più che la compiacenza profetica di aver mostrato al mondo uno squisito e originale magistero di arte.

«En tout cas» replicò Noemi «di tutto cuore, no!»

«Perché?»

«Perché il mio cuore lo sto dedicando a un’altra persona.»

«A chi?»

«A un frate.»

Jeanne trasalì, e Noemi, confidente dell’amica, del suo insanabile amore per l’uomo scomparso, probabilmente sepolto in qualche ignota solitudine claustrale, tremò di aver sbagliato il tôno dell’esordio di un discorso che aveva in mente.

«A proposito, Memling!» diss’ella arrossendo forte. «Dobbiamo parlare di Memling!»

Lo disse in francese e Jeanne le sussurrò:

«Sai che devi parlare italiano.»

Gli occhi suoi erano così tristi e amari che Noemi non parlò italiano, le disse, ancora in francese, tante cose tenere, implorò una parola buona, un bacio, ebbe l’una e l’altro. Non riuscì a rasserenare Jeanne che tuttavia, blandendo a due mani l’amica lungo l’arco dei capelli e guardando il proprio lavoro amoroso, le diceva piano che non temesse di averla ferita. Triste, sì, lo era. Che novità! Vero, gaia non era mai, Noemi lo ammise; oggi però le nuvole interne parevano più dense. Colpa della Intruse, forse. Jeanne fece «proprio!» con un viso e un accento che significavano come l’Intruse colpevole della sua malinconia non fosse quella immaginaria del libro ma la Falciatrice terribile in persona.

«Ho avuto una lettera dall’Italia» diss’ella dopo aver debolmente resistito alle domande pressanti di Noemi. «È morto don Giuseppe Flores.»

Flores? Chi era? Noemi non lo ricordava più e Jeanne la rimproverò con acerbità, come se una tale smemoratezza la rendesse indegna del suo ufficio di confidente. Don Giuseppe Flores era il vecchio prete veneto che le aveva portato a villa Diedo l’ultimo messaggio di Piero Maironi. Ella lo aveva creduto consigliere all’amante della sua uscita dal mondo e non le era bastato di fargli un’accoglienza gelida, lo aveva trafitto di allusioni ironiche all’azione sua, proprio degna di un ministro della infinita Pietà. Il vecchio le aveva risposto con tanto lume, nelle parole gravi e soavi, di sapienza spirituale, il suo bel viso si era fatto, parlando, così augusto, ch’ella aveva finito con domandargli perdono e pregarlo di venire qualche volta da lei. C’era infatti ritornato due volte e mai ella non s’era trovata in casa. Allora lo aveva visitato lei nella sua villa solitaria e di quella visita, di quella conversazione col vecchio tanto alto d’intelletto, tanto umile di cuore, tanto caldo nell’anima, tanto verecondo e quasi timido nella parola, serbava ricordi non cancellabili. Egli era morto, le scrivevano, donandosi dolcemente alla Divina Volontà. Poco prima di morire, durante una notte intera, aveva sognato senza tregua le parole del servo fedele nella parabola dei talenti: «ecce superlucratus sum alia quinque» e l’ultima voce era stata: «non fiat voluntas mea sed tua.» Chi le aveva scritto non sapeva che, malgrado certi turbamenti del senso interno, malgrado certi assalti di desideri religiosi, Jeanne respingeva, tanto inesorabilmente quanto in passato, Iddio e l’immortalità umana come illusioni eterne, ch’ella andava di quando in quando a messa per non darsi l’aria spiacente di libera pensatrice e non per altro.

Ella non raccontò a Noemi quei particolari della morte di don Giuseppe, ma li ripensava con l’oscuro senso, mortalmente amaro, di una ben altra sorte che le sarebbe toccata s’ella pure avesse potuto credere così; perché in fondo all’anima di Piero Maironi vi era sempre stata una religiosità atavica e oggi ella era convinta che confessandogli, la sera dell’eclissi, di non credere, aveva scritto la propria sventura nel libro del destino. E pensava un’altra taciuta parte angosciosa della lettera venuta dall’Italia. Si vedeva il suo soffrire benché non lo dicesse. Noemi le posò, le fermò silenziosamente le labbra in fronte, vi sentì l’occulto dolore che accettava la sua pietà, si sciolse infine dal bacio lenta lenta, quasi temendo guastar qualche delicato filo tra le congiunte anime, mormorò:

«Forse questo vecchio buono sapeva dove….