Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni.
Don Clemente gli s’inginocchiò davanti, gli baciò la mano.
«Che mode avete voialtri a Subiaco?» disse l’Abate. «Fate venire le dieci alle undici?»
Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L’Abate lo fece sedere.
«Figlio mio» diss’egli. «Voi soffrite il sonno?»
Don Clemente sorrise, non rispose.
«Ebbene» riprese l’Abate «voi ne avete buttato via un’ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?»
Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa:
«Eh, sì!»
«Bene bene bene» fece l’Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. «Io non conosco questi signori Selva, ma c’è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l’ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono – un pezzo grosso, capite, – che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c’è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?»
Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso padre Abate avrebbe potuto parlarne.
«No, figlio mio» rispose l’Abate. «Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!»
Passando paternamente così dal voi al tu, l’Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l’indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo.
«Sono cristiani aurei» diss’egli con voce sommessa, dolente.
«Lo credo» rispose l’Abate «Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? Bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa.
1 comment