«Comprende? Il Divino Maestro era con me, non avevo niente a temere, padre mio. E non temetti niente, né lei, né me. La vidi montare sul piazzaletto. Il mio sentimento fu: se c’incontriamo soli, le parlerò come a una sorella, le domanderò perdono, Iddio mi darà forse per lei una parola di verità, le mostrerò di sperare per l’anima sua e non di temere per la mia!»
Don Clemente non poté a meno d’interromperlo. «No no no, figlio mio» diss’egli, quasi atterrito, prendendogli il capo a due mani, pensando appunto come avrebbe potuto evitare un simile incontro, come allontanare Benedetto. I Selva, i Selva! Bisognava avvertire i Selva.
«Comprendo che Lei mi dica così» riprese Benedetto affannosamente «ma se la incontro, non devo io cercare di metterla a parte del mio bene come cercai di metterla a parte del male? E non mi ha insegnato Lei che l’amare Dio sopra ogni cosa e il porre sopra ogni cosa la salute dell’anima propria non possono andare insieme? Che quando si ama non si pensa mai a sé? Che si desidera solamente fare la volontà dell’amato e si vorrebbe che tutti la facessero? Che in questo modo uno si salva certo e che chi ha sempre in mente la salute dell’anima propria arrischia di perderla?»
«Bene bene bene, caro» rispose il padre, accarezzandogli la testa. «Tu intanto domani vai a Jenne e ci stai fino a che non ti richiamo io. Ti do una lettera per l’arciprete, che è una buona persona, e stai con lui. Hai capito? E adesso andiamo al monastero perché è tardi.»
Si alzò e fece alzare Benedetto.
Sopra il loro capo l’orologio di Santa Scolastica suonava le ore. Erano dieci? Erano undici? Don Clemente non le aveva contate dal principio e temeva il peggio, aveva perduta, per tante diverse emozioni, la misura del tempo. Che andava mai a capitare! Chi avrebbe previsto? E che accadrebbe ora? Uscirono dal piano erboso e s’incamminarono per la ripida, sassosa mulattiera, don Clemente davanti, Benedetto alle sue spalle, ambedue con l’anima in tempesta, silenziosi, rispondendo ai loro pensieri la scura voce dell’Aniene. Ecco, ad una svolta, i lumi lontani di Subiaco. Pochi; sono forse le undici! In breve l’angolo nero del recinto di Santa Scolastica sorge a fronte dei viandanti. Per quali occulte vie, pensa Benedetto, non lo ha condotto Iddio dalle logge di Praglia, dove Jeanne lo ha tentato e vinto, a questa faticosa salita nelle tenebre, verso un altro luogo santo, con lei vicina e il cuore fondato in Cristo! Intanto le ragioni della prudenza pratica, prementi, in quella distretta, su don Clemente e le ragioni della santità ideale, insegnate da lui al diletto discepolo in tempo di calma, si contendevano la sua volontà non più tanto ferma; le prime da vicino con violenza imperiosa, le seconde da lontano, con la sola bellezza severa e mesta. Le due «luci sante», alte sopra l’angolo nero del recinto, lo guardavano appunto, come gli parve, severe e meste. Oh terra impura, pensò, terra trista! E forse prudenza impura, prudenza trista, la prudenza terrena!
Giunti all’angolo, i due viandanti presero a sinistra voltando le spalle al rombo profondo dell’Aniene, passarono davanti al cancello grande del monastero e, girato l’altro canto del recinto, giunsero, per la galleria oscura che corre sotto la biblioteca, a una porticina. Don Clemente suonò. C’era da aspettare alquanto perché alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano all’Abate.
«Dunque mi permette» chiese Benedetto «di restare fuori?»
Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo dall’oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato. Glielo disse.
«Non pensi al mio corpo» supplicò il giovane, umile e ardente. «Il mio corpo è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!»
Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte.
«Va» diss’egli.
«E Lei pregherà per me?»
«Sì, nunc et semper.»
Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un’ombra.
Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d’inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l’alloggio dell’Abate e, poco discosto, la sua cella stessa.
L’Abate, padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d’uomo, due piccole tavole con teste d’angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L’abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo.
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