Io ne parlai subito al padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell’Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all’ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch’egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua vita è stata una vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!»
«Hm!» fece l’Abate, pensoso. «Hm! Capisco! Ma perché non entra nell’Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori.»
Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso.
«In preghiera» diss’egli.
«Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante:
«Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder la bocca quant’ei puote,
Però che senza colpa fa vergogna.»
«Oh!» esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto.
«Scusate, figlio mio» disse l’Abate. «Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?»
Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell’aria.
«Hm! Hm!» fece ancora l’Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. «Avete detto che si chiama?… Il nome proprio?»
«Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d’imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato.»
L’Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l’indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L’Abate s’inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l’incontro colla signora Dessalle, l’antica amante, quel ch’era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo sordo.
«Qui» esclamò finalmente «si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!»
Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo.
Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell’altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l’aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell’Abate, il timore ch’egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell’abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se…
Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. «MAGISTER ADEST ET VOCAT TE.» Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco.
Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull’inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo.
Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell’anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore.
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