Era là e pregava come un’altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: – venite a me, voi dolenti; voi cui la vita è grave, tutti venite a me. – Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l’Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l’invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me.
E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell’antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell’organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell’aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell’atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell’anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell’esercito regolare, impedito dall’uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo?
Ah non era egli già quasi sull’orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull’inginocchiatoio, s’immerse nell’Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell’alzarsi con un naturale defluire dell’onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all’altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell’altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d’incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l’uno né l’altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo.
Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell’Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d’estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl’insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l’avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. «Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus.» E si avviò alla sua cella.
Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all’uscio dell’Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole «fiat voluntas tua» che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge divina nel campo della libertà umana.
1 comment