Un giorno sono entrata nel suo studio senza bussare e il dottore aveva sulla scrivania un bellissimo gioiello… un grande medaglione d’oro intarsiato di diamanti. Si è arrabbiato molto per il mio ingresso repentino e mi ha spiegato che si trattava di una semplice copia del fermaglio di Iside. Ma io sono certa che fosse autentico.

Clive si morsicò il labbro e nei suoi bellissimi occhi passò l’ombra del dubbio. - Quando l’hai visto? - domandò alla ragazza.

- Più di un anno fa… un po’ di tempo dopo la nostra strana avventura nel Devon. Ti ricordi che ti ho parlato di quei monaci che avevano fermato la macchina?

Clive annuì.

- Almeno, suppongo che fossero monaci - proseguì la ragazza. - Non so spiegartene la ragione, ma ho associato il medaglione d’oro… ed era proprio d’oro, Clive, nonostante quello che mi disse il dottore… con quell’incontro.

- Nella brughiera?

Betty annuì. - Sì: a quel tempo eravamo veramente poveri e il dottore aveva pochissimo denaro, anche se parlava spesso di un’immensa ricchezza, di cui avrebbe potuto disporre molto presto. Sono sicura che prima non aveva quel medaglione, devono averglielo dato loro.

Clive Lowbridge la fissava pensieroso. - Non riesco a capire quell’uomo

- disse. - Quando ero ragazzo era molto gentile con me e non riesco a condividere la tua avversione nei suoi confronti. Per tutti gli anni che è stato mio tutore, non ha mai preteso nemmeno un penny.

Betty avrebbe potuto continuare a discutere su quell’argomento, ma si trattenne, perché intuiva la riluttanza di Clive a parlar male dell’uomo che lei invece odiava. E aveva ripensato, mentre stava tornando a casa, alle circostanze che avevano costretto la madre di Clive a ricorrere al dottore di famiglia come tutore. Era rimasta vedova, con una rendita misera; c’erano ancora tre persone che si frapponevano tra suo figlio e il titolo nobiliare, e la prospettiva di ereditare la mitica ricchezza dei Lowbridge era solo una chimera. Ma Laffin era venuto in loro soccorso… e questo non era un comportamento abituale per lui. Betty non avrebbe mai potuto associare il Edgar Wallace

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1993 - Il Segno Del Potere

dottore all’idea di generosità; doveva essere stato per forza un qui pro quo.

E la ragazza si domandò di cosa si trattasse.

Quando, quella sera, Betty Carew salì sul palcoscenico dell’Orpheum, solo le lampade spia erano accese, perché Van Campe era un uomo parsimonioso e c’era estremo bisogno di fare economia, come le avevano già spiegato. Dai pesanti tendaggi del sipario proveniva il suono dei violini che i musicisti stavano accordando. Tre ragazze del coro tremanti, avvolte in leggeri veli, stavano fra le quinte, fissando depresse la misera scena, che a luci accese avrebbe dovuto rappresentare la terrazza di Monte Carlo. Un macchinista stava sistemando una balaustra di cartone e il trovarobe, con un cestino pieno di palloncini, stava aspettando pazientemente, fumando una sigaretta. Faceva molto freddo e c’era un’atmosfera triste. Betty si avvicinò sconsolata a un’apertura del sipario e lanciò un’occhiata nella sala deserta. C’erano sette persone nei palchi, naturalmente erano degli invitati.

Anche il pubblico in platea era scarso… a malapena riempiva le prime due file, anche se il teatro era aperto da più di mezz’ora.