La voce supplichevole del vecchio scienziato giunse fino a me:

“Non vorrete farne bere alla locomotiva! Le farebbe male! Non è un essere umano! La farete scoppiare!

Dopo qualche scambio di frasi rapide e inintellegibili:

“Allora lasciate che sia io stesso a compiere il sacrificio! Che non me ne separi che all’ultimo istante!”

Il chimico dalla candida barba reggeva tra le mani, con infinita precauzione, una fiaschetta che conteneva, come più tardi appresi, un rhum eccezionale, che avrebbe potuto, quanto all’età, essere suo nonno, e che aveva tenuto in serbo per sé solo; versò quest’ultimo combustibile nella caldaia della locomotiva… l’alcool era senza dubbio troppo eccezionale: la locomotiva fece pschhchchh… e si spense.

Fu così che la quintupletta del Perpetual-Motion-Food vinse la corsa delle Diecimila Miglia; ma né Corporal Gilbey, né Sammy White, né Georges Webb, né Bob Rumble, né, a quel che credo, Jewey Jacobs nell’altro mondo, né io stesso che firmo per tutti loro questa relazione, Ted Oxborrow, potremo mai consolarci di aver trovato all’arrivo – dove nessuno ci aspettava, perché nessuno poteva prevedere tanta celerità – il palo del traguardo inghirlandato di rose rosse, quelle stesse ossessionanti rose rosse che avevano scandito tutta la corsa… Nessuno ha potuto dire che cosa sia avvenuto del fantastico corridore.

1 Caporale, in inglese. (N.d.T.)

L’ALIBI

La mattina stessa, di ritorno a Lurance, Marcueil fece spedire da un ufficiale postale di Parigi alcune lettere pneumatiche.

Al dottor Bathybius:

Mio caro dottore,

Non vogliatemene per i miei “paradossi”: l’Indiano è trovato. Nessuno scienziato più di voi è degno di essere il suo Teofrasto, né di occupare quel che voi chiamaste l’altro giorno “una cattedra nel regno dell’impossibile”.

Vi aspetto dunque stasera.

A. M.

Alle sette prostitute più quotate alla Borsa galante del giorno, l’indirizzo del castello di Lurance e l’ora del ricevimento, scarabocchiati di traverso su una banconota col tratto nero di una moneta d’argento – benché sia proibito inserire valori nella corrispondenza pneumatica.

Agli intimi, ma “soltanto agli uomini”, come si legge sui manifesti dei padiglioni delle fiere, che fossero scapoli o vedovi, un breve invito stampato su un bristol. William Elson non ne fu informato, perché, se sua figlia usciva anche senza di lui, egli usciva di rado senza sua figlia. Del resto, era da supporre che si stesse riposando delle fatiche del viaggio.

Le cortigiane arrivarono per prime.

Subito dopo arrivò il generale.

Poi Bathybius.

“Che cos’è questo scherzo?” furono le sue prime parole.

Senza badare ai suoi dubbiosi e insoddisfatti tentennamenti di capo, Marcueil gli spiegò che cosa si aspettava da lui. Si trattava semplicemente – semplicemente! commentò Bathybius – di controllare il tentativo che un indiano avrebbe fatto, da mezzanotte a mezzanotte, nel salone di Lurance, di battere il record “celebrato da Teofrasto”. Il salone, dove per la circostanza era stato sistemato un divano letto, era stato scelto non per le sue dimensioni, ma perché una cameretta contigua vi prendeva luce da un occhio-di-bue, che avrebbe permesso di osservare quel che vi sarebbe accaduto. In questo ridotto, sistemato a spogliatoio, Bathybius avrebbe potuto inoltre procedere a tutte le constatazioni che avesse giudicato necessarie a stabilire l’autenticità dell’esperimento.

Bathybius restò perplesso.

“Dov’è l’Indiano?” domandò finalmente.

Le donne erano già là, spiegò Marcueil; ma l’indiano sarebbe arrivato soltanto per cena. Del resto, ci si sarebbe messi a tavola di buon’ora, alle undici.

Dopo una breve esitazione, il dottore accettò di prestarsi al singolare ruolo che Marcueil gli chiedeva di recitare. Non si trattava, in fin dei conti, che di godere per ventiquattr’ore della piacevole ospitalità di Lurance; quanto al problematico “record” e all’“Indiano” ancora più problematico, dietro al suo spioncino si sarebbe trovato in prima fila per ridere dell’insuccesso… e in prima fila anche per osservare, per ventiquattr’ore e senza troppi veli, le sette più belle ragazze di Parigi in atteggiamenti piuttosto interessanti; e non bisogna dimenticare che si trattava di un uomo di una certa età.

L’ingresso del generale fu, secondo il suo solito, burbero e cordiale.

“Che ne è di voi, mio giovane amico, che fate di bello? Non demolite più i vespasiani?”

Marcueil non capì subito, poi ricordò.

“Che vespasiani? Ma, mio caro, non significa certo demolire un apparecchio, constatare che non è abbastanza solido per resistere all’uso al quale era destinato!”

“Eh, eh!” fece il generale, che Bathybius aveva messo al corrente, con due parole, dell’attrazione della serata. “Speriamo che le donnine siano abbastanza solide.”

“Ce ne sono sette,” precisò Marcueil.

A queste parole, il generale si affrettò verso il salone.

Erano le dieci, e André Marcueil cercava un pretesto per svignarsela e cedere il posto all’Indiano. Il caso, o, forse, qualche aiuto preliminare dato al caso, glielo fornì.

“Qualcuno” annunciò un cameriere, “chiede di parlare al Signore.”

Questo qualcuno, subito introdotto nello studio, non era altri che un gendarme. Ma non uno di quei gendarmi spaventevoli e baffuti contro i quali Guignol ha agguerrito la nostra infanzia, ma un gendarme imberbe, in una uniforme dimessa, così dimessa che lo si sarebbe detto appena un postino, e che, invece del leggendario tricorno, faceva ruotare tra le dita un semplice kepì.

Il bravo giovane pareva al colmo dell’imbarazzo per una qualche delicata missione che gli era stata affidata.

“Parlate, amico mio,” gli disse bonariamente Marcueil; e, perché la sua bonarietà fosse più tangibile, fece portare da bere.

Il gendarme provò il rhum e ne fece l’elogio con la stessa ossequiosità che avrebbe impiegato per fare il panegirico di chi gliel’offriva. Era fin troppo evidente che desiderava captare la benevolenza di Marcueil.

“Il servizio,” cominciò, “è il servizio… Era stata trovata nella proprietà di Lurance – certamente, non l’avevano fatto apposta – una bambina violata e morta da sei giorni, morta per una causa piuttosto insolita: non era stata prima violentata e poi uccisa, com’è buona norma; ma… come dire? violata a morte.”

Si esprimeva in modo esitante, ma abbastanza corretto e dosando sobriamente gli avverbi.

“Sei giorni fa?” chiese Marcueil. “La giustizia è lenta… sei giorni… Esattamente il giorno della mia partenza, perché ho fatto appunto un viaggetto… ho accompagnato degli amici… in ferrovia. Loro erano in ferrovia… Uno strano viaggio! Per una curiosa coincidenza, ci sono stati altri stupri proprio sulla nostra strada, e anche una rapina a mano armata, come per caso, e, non si sa come, due omicidi. Ma dicevate: uno stupro nella proprietà di Lurance?”

Aggrottò le sopracciglia e suonò il campanello.

“Fate venire il guardacaccia Mathieu.”

Non appena questi si presentò, il gendarme riprese, interrompendolo:

“Scusate, Signore, ci sono state, in effetti, delle trappole armate che hanno scattato, anzi, il giudice di pace, che ha scoperto il cadaverino, stava appunto facendo un sopraluogo… e all’improvviso: bum, bum… due colpi di arma da fuoco che sparano da soli, e uno l’ha ferito gravemente alla gamba, pover’uomo!”

“Mathieu, mi ero sbagliato,” disse Marcueil. “Né la vostra vigilanza né quella dei vostri colleghi sono in difetto. Avrete una gratifica… Ora potete andare.”

“Vedete bene, gendarme,” aggiunse, “che faccio sorvegliare abbastanza le mie terre per avere il diritto di stupirmi che vi si sia potuto scoprire un delitto! Che cosa fa, dunque, la gendarmeria francese?”

“Scusate, Signore,” fece il gendarme, “abbiamo otto comuni da sorvegliare e siamo soltanto in cinque.”

“Non vi accuso, amico,” accondiscese Marcueil, versandogli generosamente da bere.

“Il servizio è duro,” continuò il gendarme. “Ah! Se l’avessi saputo prima! Prima di indossare l’uniforme, ero anch’io guardacaccia privato, come il vostro Mathieu, dalle parti di Saint-Cloud. Ce n’era di selvaggina, da quelle parti! Se un giorno vi viene voglia di andare a caccia di aironi, nello stagno…”

“Non ho tempo che quando la stagione è chiusa,” disse Marcueil, “e non ho mai pensato a farmi rilasciare un permesso di caccia.”

Il gendarme bevve, schioccò la lingua e strizzò l’occhio.

“La stagione buona e il permesso, siamo noi!”

E si batté sul cinturone. “Scusatemi ancora se sono venuto a importunarvi a proposito di quella mocciosa: voi mi capite, è una questione di servizio!”

“Vi capisco tanto bene,” rispose Marcueil, “che ho fatto costruire una scala appositamente per queste questioni.”

E, facendo alzare il gendarme, che spalancò tanto d’occhi, illuminò con il candeliere-revolver della sua scrivania una scritta in lettere dorate sopra una porta:

SCALA DI SERVIZIO

Il gendarme, confuso, cercò dove asciugarsi gli stivali prima di scendere.

“Non ringraziatemi,” fece Marcueil, “non onoro voi, ma l’uniforme. Quando vorrete farmi il piacere di tornare a trovarmi, non sbagliate porta; su quella che, dal cortile, conduce a questa scala, c’è la stessa scritta che avete appena letto; ma non andatevene così, le strade non sono sicure, a giudicare da quel che mi avete raccontato. Vi farò accompagnare in carrozza alla vostra gendarmeria.”

E rientrò nel salone.

Vi rientrò appena in tempo per tener testa alle sette ragazze, che, messe al corrente dal generale dell’insolita collaborazione che veniva loro richiesta, si erano arrabbiate e minacciavano di andarsene. Un gelido rabbuffo di Marcueil le inchiodò sul posto, e delle nuove banconote azzurre resuscitarono la loro grazia e il loro sorriso. Con poche e concise parole, Marcueil annunciò ai suoi ospiti che un affare urgente l’obbligava a lasciarli per qualche ora, almeno per la cena, ma che tutto si sarebbe svolto come previsto e che essi dovevano considerarsi in casa propria.

Il generale pretese delle spiegazioni più ampie, ma i passi di Marcueil si perdevano già nel vestibolo. Bathybius, insospettito senza sapere nemmeno lui perché, lo rincorse fin sulla gradinata. Marcueil non c’era più: ma il dottore vide partire una carrozza e ne senti il rumore; ma non si accorse che, solo e glorioso, vi si pavoneggiava il gendarme.

Dieci minuti dopo suonavano le undici.

Il maggiordomo aprì la porta della sala da pranzo.

L’Indiano non era ancora comparso.

Le sette ragazze, al braccio degli uomini, entrarono nella sala.

C’era una rossa snella, con una capigliatura di rame; quattro brune con una pelle pallida o color d’oro, e due bionde, una piccola con delle ciocche cenerine, e l’altra più grassa, con fossette dappertutto e una carnagione di smalto.

Rispondevano ai nomi pudichi – forse non erano proprio i loro, ma è certo che ad essi rispondevano immancabilmente! – di Adele, Bianca, Eupuria, Erminia, Irene, Modesta e Virginia, seguiti da cognomi troppo fantasiosi perché valga la pena di trascriverli.

Tre di loro indossavano dei vestiti accollati, i più ermetici che si possa immaginare, che si aprivano, però, con un solo fermaglio, e, sotto, erano completamente nude; le altre quattro, secondo la moda del giorno, portavano un pellicciotto da automobilista, e, quando se ne furono sbarazzate nel vestibolo, apparvero meno vestite che ricamate di merletto: involucro diafano che Erminia chiamava, con un tono adatto a sovreccitare i vegliardi, il suo sottabito.

A un tratto, un passo veloce, insieme strascicato e leggero, scivolò nel corridoio.

“Ecco Marcueil,” disse Bathybius, “avrà dimenticato qualcosa, o avrà rinunciato a partire.”

“Ritorna in tempo,” fece il generale. “Siamo giusto all’antipasto.”

La porta si aprì e “l’Indiano” apparve.

Benché il suo arrivo fosse atteso, ci fu un momento di stupore.

L’uomo che aveva appena fatto il suo ingresso era un bell’atleta di statura comune ma di proporzioni incomparabili.