Massicci contrafforti in pietra e ferro la sostenevano. La pista e la ferrovia vi sprofondavano attraverso una specie di porta; all’interno, per una frazione di minuto, girammo vorticosamente, spenzolando da una parte, sostenuti dal nostro slancio, sulle pareti non soltanto verticali, ma a strapiombo come l’interno di un tetto. Sembravamo mosche che corrono su un soffitto.

La locomotiva era sospesa su un fianco sotto di noi, come il piano di uno scaffale. Un suono di bordone empiva il tronco di cono.

Durante questa frazione di secondo, noi tutti sentimmo, nel centro di quella torre isolata nelle steppe della Transiberiana di cui avevamo appena percorso l’interna cavità, una voce forte e ripetuta dall’eco, che pareva aver imboccato la curva subito dopo la locomotiva. La voce imprecava, sacramentava e bestemmiava.

Percepii distintamente questa frase incredibile, proferita in buon inglese, senza dubbio perché potessimo capirla:

“Testa di porco, mi tagli la spalla!”

Poi ci fu un tonfo sordo.

Proprio in quel momento uscivamo dalla curva, e, di traverso a quella stessa porta che qualche secondo prima avevamo trovato libera, scorgemmo un barile, della capacità che gli inglesi chiamano hogshead – cioè, appunto, testa di porco, che contiene circa 54 galloni – con un’ampia apertura rettangolare al posto, della cannella e munito, press’a poco a metà, di due corregge simili alle bretelle di uno zaino militare, come se fosse stato portato a spalla, un barile che dondolava a mo’ di culla, proprio come qualunque oggetto rotondo che sia stato appena deposto brutalmente a terra.

Il cacciapietre della locomotiva lo fece schizzare via come un pallone da calcio; e, nel suo volo, esso spruzzò sulla strada ferrata e sulla pista un po’ d’acqua e dei fasci di rose, due o tre delle quali, attaccate per le spine ai pneumatici ormai scoppiati, turbinarono per qualche minuto insieme alle nostre ruote.

Cadde la notte del quarto giorno. Avevamo impiegato tre giorni per raggiungere la curva, ma se la nostra attuale velocità si fosse mantenuta, avremmo dovuto essere a meno di ventiquattr’ore dal traguardo della Diecimila Miglia.

Mentre l’oscurità calava, gettai un’ultima occhiata al quadrante dell’indicatore che non avrei più visto fino all’alba; e, sotto i miei occhi, il filo di seta che girava e vibrava al massimo della velocità intorno alla scanalatura della puleggia divampò in un gran fuso azzurro: poi non ci fu altro che tenebra.

Allora, come una pioggia di meteoriti, ci investì lapidandoci una gragnola di colpi duri e teneri insieme, aguzzi e lanuginosi e sanguinanti e urlanti e lugubri, ghermiti a volo come mosche dalla nostra velocità; la quintupletta fece uno scarto e urtò contro l’apparente immobilità della locomotiva, restandovi incollata per qualche minuto senza che le nostre pedalate, ormai puramente automatiche, si arrestassero.

“Nulla,” disse il Corporal, “uccelli.”

Non eravamo più protetti dallo spartivento della macchina allenatrice, ed è sorprendente che l’incidente non si fosse prodotto anche prima, non appena avevamo mollato l’imbuto volante.

In quel momento, senza aspettare l’ordine del Corporal, il nano Bob Rumble strisciò verso di me lungo l’asse del suo rimorchio per premere con tutto il suo peso sulla ruota posteriore e aumentarne l’attrito. Questa manovra mi fece capire che la velocità stava ancora aumentando. Ma, a un tratto, lo sento battere i denti e mi rendo conto che si era avvicinato soltanto per sfuggire a quel che chiamava “la cosa che segue”.

Accese dietro di me, leggermente a sinistra, un fanale ad acetilene, che proiettò davanti a noi sulla candida pista, leggermente a destra (la locomotiva si trovava ora sulla nostra sinistra), l’ombra a cinque teste del team.

Nel gaio chiarore, il nano non si lamentava più. E noi ci allenammo SULLA NOSTRA OMBRA.

Non avevo più la minima idea di quale potesse essere la nostra velocità. Cercavo di afferrare qualche frammento delle stupide canzoncine che Sammy White canterellava per ritmare le sue pedalate. Poco prima che il filo dell’indicatore avvampasse, stava mugolando il ritornello, simile a un tambureggiare di grandine, del suo sprint finale, che avevo tante volte sentito durante i suoi records del miglio e del mezzo miglio lanciato, sulle piste a cervo volante del Massachussetts:

Poor papa paid Peter’s potatoes!

Al di là sarebbe stato necessario inventare, ma le sue gambe andavano troppo in fretta per il suo cervello.

Il pensiero, almeno quello di Sammy White, non è poi tanto rapido come si dice, e non riesco a immaginarlo mentre si esibisce su una pista.

C’è un solo record che né Sammy White, campione del mondo, né io, né tutti e cinque insieme riusciremo a battere tanto presto, ed è il record della luce, e l’ho visto battere con i miei occhi: quando il fanale si accese alle nostre spalle, spazzando da un capo all’altro la pista della nostra ombra, della nostra ombra formata da cinque ombre tanto istantaneamente raggruppate e confuse insieme cinquanta metri davanti a noi, che si sarebbe detto trattarsi di un solo corridore, visto di spalle, che ci precedesse (e la simultaneità delle nostre pedalate rendeva ancora più perfetta l’illusione che più tardi ho saputo non essere tale), quando, dunque, la nostra ombra fu proiettata in avanti, avemmo tutti la sensazione inequivocabile che un avversario silenzioso e irresistibile, che ci stava braccando da giorni, fosse appena schizzato via sulla destra contemporaneamente alla nostra ombra, nascosto in essa e con lo stesso vantaggio di cinquanta metri; e la nostra emulazione fu tanto rabbiosa, che le bielle si misero a turbinare con la furia di un cane arrabbiato che gira intorno alla sua coda non avendo niente di meglio da mordere.

Nel frattempo, la locomotiva, bruciando i suoi vagoni, si teneva sempre alla stessa altezza, e dava l’impressione della grande calma che si fa intorno a un geyser prima dello scoppio… Sembrava che non vi si trovasse altro essere animato che Miss Elson, che seguiva con inspiegabile curiosità e sovreccitazione le contorsioni, in verità assai grottesche, della nostra ombra lontana. William Elson, Arthur Gough e i macchinisti non si muovevano più. Quanto a noi, affilati sotto il raggio esangue del fanale e tanto appiattiti dietro le maschere che l’uragano scatenato dalla velocità ci sfiorava appena come una carezza, noi rivivevamo, almeno a giudicare dalla mia personale impressione, le serate dell’infanzia, chini, sotto la lampada, sul tavolo dei nostri compiti scolastici. E sembravamo ridare corpo a una delle mie visioni di quei tempi: una grande sfinge atropos che, entrata dalla finestra, non si interessava – cosa strana – della lampada, ma andava a cercare, con bellicoso furore, la propria ombra proiettata dalla fiamma sul soffitto, e vi cozzava contro con tutti gli arieti del suo addome velloso: toc, toc, toc…

Immerso in questi pensieri (o in questi sogni), non mi avvidi che, per l’impeto del nostro slancio, il fanale si era spento, e, tuttavia, ben visibile nella notturna chiarità sul biancore della pista, la stessa sagoma sbiadita ci “faceva l’andatura” cinquanta metri davanti al nostro naso!

Non poteva essere proiettata dalle luci della locomotiva: perfino il petrolio dei due fanali era stato impiegato da un pezzo per alimentare l’oscura caldaia.

I fantasmi non esistono… che cos’era, allora, quell’ombra?

Corporal Gilbey non si era accorto che il nostro fanale si era spento, altrimenti avrebbe severamente rimproverato Bob Rumble: gioviale e pratico come al solito, ci incoraggiava con i suoi lazzi:

“Forza, ragazzi, riprendetemela! Non ce la fa più! Guadagniamo terreno. Manca di olio, non è un’ombra, è un girarrosto!”

Nel grande silenzio notturno raddoppiammo ancora i nostri sforzi.

A un tratto… sentii… credetti di sentire come il pigolio di un uccello, ma di un timbro stranamente metallico.

Non potevo sbagliarmi: c’era ben un rumore, da qualche parte là davanti, un rumore di ferraglia…

Certo di quale ne fosse la causa, volli gridare, chiamare il Corporal, ma ero troppo atterrito dalla mia scoperta.

L’ombra strideva come una vecchia banderuola!

Non si poteva più mettere in dubbio il solo evento veramente un po’ straordinario della corsa: l’apparizione del VELOCIPEDASTRO.

E, tuttavia, non crederò mai che un uomo o un demonio abbiano potuto seguirci e superarci – e durante la Diecimila Miglia.

Soprattutto considerando l’aspetto del personaggio! Ecco quel che era dovuto accadere: il Velocipedastro, che si era lasciato riprendere, naturalmente, e si teneva sulla sinistra, quasi davanti alla locomotiva; il Velocipedastro che, sopraggiungendo proprio nel momento in cui l’ombra era scomparsa, si era confuso un istante con essa, attraversò la pista davanti alla quintupletta con una goffaggine incredibile, ma con una fortuna provvidenziale per lui non meno che per noi, e andò a sbattere con il suo apocalittico ordigno contro il primo binario… Parola d’onore, si sarebbe detto, tanto zigzagava, che non erano più di tre ore che andasse in bicicletta. Oltrepassò, dunque, perpendicolarmente il primo binario, a rischio di rompersi il collo, e fece la faccia disperata di chi sa bene che non riuscirà mai a superare il secondo; ipnotizzato dalla manovra del suo manubrio, con gli occhi fissi sulla ruota anteriore, non sembrava rendersi conto che si stava abbandonando a tutte quelle idiote evoluzioni davanti a un grande espresso che filava dritto su di lui a più di trecento chilometri l’ora. A un tratto, parve colpito da qualche idea particolarmente astuta, svoltò di traverso sulla destra e parti sparato sul pietrisco, fuggendo proprio davanti alla locomotiva. In quel preciso momento lo sperone della macchina raggiunse la sua ruota posteriore.

Per tutto il secondo in cui attesi lo spiaccicamento, la sua stramba figura, fino al più piccolo particolare dei raggi della bicicletta, restò fotografata nella mia retina. Poi chiusi gli occhi, visto che non desideravo contarne i diecimila brandelli.

Portava lo stringinaso e non era, se si vuole, barbuto, ma come imbrattato da una barba sparpagliata in mille riccioli.

Indossava una redingote e un cappello alto grigio di polvere. La gamba destra del suo pantalone era rimboccata, come se l’avesse fatto a posta perché ci fossero più possibilità di farla impigliare nella catena; la gamba sinistra era stretta con una tenaglia di granchio. I piedi, sui pedali di caucciù, erano calzati di stivaletti muniti di elastici. La sua bicicletta era un modello a telaio dritto con pneumatici pieni, come non se ne trovano più a pagarli a peso d’oro… e doveva pesare parecchio! Montava parafanghi in ferro su entrambe le ruote; buona parte dei raggi – del tipo diretto – erano stati ingegnosamente sostituiti con delle stecche di ombrello, le cui forcelle, che non erano state tolte, ballavano sulle ruote a forma di 8.

Sorpreso di sentire ancora il regolare clicchettio e cigolio dei rulli logori un buon mezzo minuto dopo quella che io supponevo avrebbe dovuto essere la catastrofe, riaprii gli occhi e non potei credere a quello che essi mi mostravano, anzi, non credetti nemmeno di averli aperti: il Velocipedastro filava sempre imperturbabile sul pietrisco! La locomotiva gli stava a ridosso, ma egli non sembrava darsene minimamente peso. La sola spiegazione del prodigio era che il miserabile bruto certamente ignorava l’arrivo del grande rapido alle sue spalle, altrimenti non avrebbe dato prova di tanto sangue freddo. La locomotiva aveva tamponato la bicicletta e la spingeva ora per il parafango della ruota di dietro! Quanto alla catena – perché era evidente che l’assurdo e ridicolo personaggio non sarebbe certo stato capace di muovere le gambe a una tale velocità – essa si era spezzata netta sotto l’urto, e il giubilante Velocipedastro pedalava a vuoto – senza necessità, del resto, perché la soppressione dell’organo di trasmissione teneva luogo di un’eccellente “marcia folle” – e plaudiva alla sua prodezza, che, senz’ombra di dubbio, attribuiva alle sue capacità naturali!

Una luce di apoteosi spuntò all’orizzonte, e il Velocipedastro fu il primo a esserne aureolato. Erano le luci del traguardo della Diecimila Miglia!

Ebbi l’impressione della fine di un incubo.

“Su! Un ultimo sforzo,” diceva il Corporal, “in cinque possiamo ben fregarlo!”

Questa voce netta – proprio come un punto di riferimento fisso accentua le oscillazioni della nave per chi, alle prese col mal di mare, giace in una cuccetta a sospensione cardanica – quest’urlo del Corporal mi fece di colpo capire di essere ubriaco, ubriaco morto di fatica e dell’alcool del Perpetual-Motion-Food – Jewey Jacobs ne era ben morto! – e mi restituì, allo stesso tempo, la lucidità.

Non avevo sognato: uno strano corridore precedeva la locomotiva: ma non montava un modello a telaio dritto con pneumatici pieni! Non portava stivaletti muniti di elastici! La sua bicicletta non strideva, se non nelle mie orecchie ronzanti! Non aveva spezzato la sua catena, perché la sua bicicletta non aveva catena! Le estremità di una cinta lenta e nera svolazzavano alle sue spalle e carezzavano lo sperone della locomotiva! E io le avevo prese per un parafango e per le falde di una redingote! Il suo pantalone corto era scoppiato sulla coscia per il gonfiarsi dei suoi muscoli tensori! La sua bicicletta era un modello da corsa di cui non ho mai visto l’uguale, con pneumatici microscopici e con uno sviluppo superiore a quello della quintupletta; e l’azionava senza fatica come se stesse pedalando a vuoto. L’uomo era davanti a noi: potevo vedere la sua nuca, con i lunghi capelli ondeggianti; il vento spingeva alle sue spalle il cordoncino dello stringinaso – o un ricciolo nero della sua capigliatura –. I muscoli dei suoi polpacci palpitavano come due cuori di albatros.

Ci fu un po’ di movimento sulla piattaforma della locomotiva, come se qualcosa di grande stesse per accadere. Arthur Gough respinse con dolcezza Miss Elson, che si chinava per osservare, amorosamente, si sarebbe detto, il corridore sconosciuto. L’ingegnere sembrò occupato a negoziare, con una certa asprezza, qualche esorbitante concessione da parte di Mr. Elson.