E non si rese conto nemmeno lei di come fosse giunta, per farla tacere, a chiudere la sua bocca con la propria.
Modesta, dopo aver vagato in singhiozzi per la galleria, venne a deporre il suo volto contristato sul seno di Virginia. Quando si rialzò, sul corsetto restava un cerchio umido, che mostrava in trasparenza una punta rosea – un cerchio che non era stato certo impresso dalle lacrime.
“Fa caldo!” disse Irene, e dei merletti volarono. “Che nessuno provi più ad aprire, sono in camicia!”
“Non hai che da togliertela,” disse Eupuria.
E la sua mano l’impugnò alla nuca.
Fu così che, a poco a poco, i singhiozzi divennero sospiri, e le bocche tormentarono ben altre realtà che i fazzoletti pieni di lacrime. Il calpestio rabbioso si zittì sul tappeto, perché i piedi erano nudi.
In un angolo, Virginia, visto che non si poteva uscire, improvvisò senza vergogna sulla lana dipinta un mormorio di sorgente.
Solo più tardi, un po’ prima delle tre, la luce si spense. Fu come se i vecchi personaggi dei ritratti se ne stessero andando senza far rumore… ma le mani, che cercavano a tastoni, non trovavano la porta!
Alla ricerca di un’uscita, urtavano nella derisione di una bocca o di un sesso.
Poi l’alba fu azzurra e spruzzò di brividi i corpi umidi.
Più tardi, dall’alto della vetrata, il sole spazzò il tappeto insudiciato.
Fu mezzogiorno, e il rintocco che aveva inaugurato la prigionia si ripeté.
Le ragazze ebbero fame e sete e si batterono.
Una mangiò un astuccio di uvette per le labbra, un’altra impastò un pane profumato, salato, crudo e nauseante con lacrime, saliva e polvere di riso.
Fu l’una, furono tutte le ore del giorno, furono le undici della sera e la musica lontana punse il silenzio, confusamente, come dita nervose che si provino sulla cruna di un ago.
Le lampade non si erano riaccese.
Ma, di sbieco, una luce che non era quella del giorno si diffondeva attraverso un vetro opacato, molto in alto.
Le donne gridarono, si rallegrarono, si baciarono, si morsero, ammucchiarono e scalarono tavoli, fecero due o tre capitomboli, e, finalmente, un pugno, corazzato di anelli e insanguinato, stellò il vetro.
Le donne nude, spettinate, struccate, affannate, sporche e in calore, si precipitarono verso la finestrina aperta sulla luce e… sull’amore.
Un telaio di ferro, insuperabile per tutto ma non per lo sguardo, era la sola divisione fra la galleria e la stanza dove si trovava l’Indiano.
Benché la seconda mezzanotte fosse ormai trascorsa, sembrò loro perfettamente naturale – ci pensavano da tante e così lunghe ore! – di vederlo là.
L’uomo rosso non aveva altra veste che una donna nuda stesa di traverso sul suo petto; ed essa non aveva altro velo che una nera maschera di peluche.
L’OVULO
Ventiquattr’ore prima, Bathybius si avvicinava alla finestrina.
Il vetro rotondo era ostruito, dalla parte dello spogliatoio dov’era l’osservatorio del dottore, da due imposte di legno pieno comandate da una spranghetta girevole.
Avanzò a tastoni e, con un gesto deciso, fece ruotare la manopola con la stessa precisione con la quale avrebbe fatto professionalmente giuocare la vite senza fine di uno specolo. Le imposte si scostarono senza rumore, come due ali di farfalla che si aprono.
Il fuoco dorato di tutte le lampade del salone rischiarò l’occhio di bue e fu come se un astro si fosse levato sul corto orizzonte del tavolo del dottore.
Al riverbero improvviso, gli occhi di Bathybius sbatterono due o tre volte, quegli occhi vaghi o, piuttosto, perpetuamente fissi su un qualche punto invisibile, la cui espressione è comune alla maggior parte dei grandi medici e a qualche monomane pericoloso rinchiuso a vita. Lisciò con le sue belle mani grasse da chirurgo, una delle quali era carica di anelli dal largo castone, la divergenza dei suoi bianchi favoriti. Poggiò sul tavolo il foglio di carta destinato a ricevere le sue osservazioni, cavò fuori la stilografica, consultò l’orologio e attese.
Benché Bathybius sapesse perfettamente, per la sua indole grave e riflessiva, che, dall’altra parte della sua tonda finestrina, non avrebbe osservato che degli esseri umani negli atteggiamenti più normalmente e miserabilmente umani, si avvicinò al vetro come se stesse portando l’occhio all’oculare di un prodigioso telescopio, azionato, nella sua cupola trepidante, da colossali meccanismi a orologeria e puntato su un mondo inesplorato.
“Andiamo,” disse. “Lasciamo da parte le allucinazioni.”
E, per scacciare la visione, e anche per vederci più chiaro sul suo scrittoio, innestò la presa di un piccolo lume con un abatjour turchese.
La sera del giorno successivo fu assolutamente stupefatto nel trovare fra le sue carte, ancora fresca della sua calligrafia, la strana elucubrazione scientifico-lirico-filosofica riprodotta più sotto. È probabile che l’avesse scritta durante i lunghi intervalli della vigilia: l’ora smisurata in cui gli amanti, voracemente, mangiarono, e le dieci ore filate che dormirono. Non è nemmeno impossibile che la sua personalità abbia subito un singolare sdoppiamento, e che, da una parte, egli abbia controllato, analizzato, registrato e verificato i particolari tecnici a ogni passaggio dell’Indiano nel suo spogliatoio; e che, dall’altra, abbia trasposto, generalizzandole, le sue impressioni in quella letteratura di cui non aveva l’abitudine:
“DIO È INFINITAMENTE PICCOLO.”
Chi pretende questo? Certamente non un uomo. Perché l’uomo ha creato Dio, almeno il Dio in cui egli crede, ha creato Dio e non è Dio che ha creato l’uomo (oggi queste sono verità acquisite); l’uomo ha creato Dio a sua immagine e somiglianza, ma ingrandite fino al punto in cui lo spirito umano non potesse più concepire alcuna dimensione.
Questo non vuol dire che il Dio concepito dall’uomo non abbia dimensioni.
È più grande di ogni dimensione, senza però essere fuori di ogni dimensione, né immateriale, né infinito. È soltanto indefinito. Questa concezione poteva bastare fino all’età precedente a quella in cui i due popoli che noi chiamiamo l’Adamo e l’Eva furono tentati dai prodotti manufatti dei mercanti che avevano per totem il Serpente, e dovettero lavorare per acquistarli.
Noi oggi sappiamo che c’è un altro Dio, il quale ha creato veramente l’uomo, risiede nel centro vivente di ogni uomo e ne costituisce l’anima immortale.
TEOREMA: Dio è infinitamente piccolo.
Perché, per essere egli Dio, la sua creazione deve essere infinitamente grande. Se egli conservasse una qualunque dimensione, limiterebbe la sua Creazione, e non sarebbe più Colui che ha creato Tutto.
Così egli può portar vanto della sua Bontà, del suo Amore e della sua Onnipotenza, che non si riservano alcuna parte del mondo. Dio è fuori di ogni dimensione, ma dal di dentro.
C.V.D.
È noto che nell’uomo vi sono due parti, una visibile e mortale, e cioè l’insieme degli organi che noi chiamiamo corpo, il soma; e questa parte mortale comprende anche la “piccola agitazione” che ne risulta, detta pensiero o anima “immortale”.
L’altra eterna e microscopica che si trasmette di generazione in generazione dall’inizio del mondo, il germen.
Il germe è questo Dio in due persone, questo Dio che nasce dall’unione delle due più infime cose viventi, le semi-cellule che sono lo Spermatozoo e l’Ovulo.
Entrambi abitano degli abissi di notte e di rosso torbido, in mezzo a correnti – il nostro sangue – che trasportano globuli distanti gli uni dagli altri come pianeti.
Sono diciotto milioni di regine, le semi-cellule femminili, che aspettano in fondo alla loro caverna.
Esse penetrano i mondi con lo sguardo e li governano. Sono infinitamente dee. Per esse non esiste legge fisica – disobbediscono alla gravitazione – oppongono all’attrazione universale degli scienziati le loro affinità particolari; per esse non esiste che ciò che amano.
In altre voragini altrettanto formidabili, stanno i milioni di dèi, depositari della Forza, che hanno creato Adamo il primo giorno.
Quando il dio e la dea vogliono unirsi, essi trascinano l’uno verso l’altro, ciascuno per suo conto, il mondo dove dimorano. L’uomo e la donna credono di scegliersi… come se la terra avesse la pretesa di fare apposta a ruotare!
Ed è questa passività di pietra che cade, che l’uomo e la donna chiamano amore.
Il dio e la dea stanno per unirsi… Hanno bisogno, per incontrarsi, di un certo tempo che, secondo le misure umane, varia tra un secondo e due ore…
Ancora qualche tempo, e un altro mondo sarà creato, un piccolo Buddha di corallo pallido, che nasconde gli occhi – tanto accecati dalla vicinanza con l’assoluto che non si sono mai aperti – che nasconde gli occhi con la sua manina simile a una stella…
Ma allora, l’uomo e la donna si svegliano, scalano il cielo e schiacciano la marmaglia divina.
Quel giorno, l’uomo si chiama Titano o Malthus.
L’INDIANO TANTO CELEBRATO DA TEOFRASTO
Si entrava nel salone attraverso una doppia porta.
L’Indiano aprì la prima e la richiuse alle sue spalle. Sentì, dall’altra parte, il rumore del chiavistello tirato da Bathybius e che sarebbe stato tolto solo fra ventiquattr’ore. Mise il chiavistello interno e tese il braccio verso la seconda porta… Mentre si voltava, questa si era aperta e in piedi, appoggiata allo stipite, tutta rosea e nuda, come trasparente sotto la luce delle lampade, egli riconobbe Ellen Elson che gli sorrideva.
Insieme alla barba, all’occhialino e ai vestiti uguali a quelli degli altri, Marcueil si era spogliato perfino del ricordo del mondo. Non c’erano più che un uomo e una donna, liberi, l’uno davanti all’altra, per una eternità.
Ventiquattr’ore, non erano un’eternità per l’uomo che affermava che i numeri non avevano importanza?
Era il Finalmente soli dell’uomo e della donna che rinunciano a tutto per isolarsi l’uno nelle braccia dell’altro.
“È mai possibile?” sospirarono le loro due bocche, e non aggiunsero altro, perché si unirono.
Ma la gelida ironia non abbandonava i suoi diritti su Marcueil, anche così incipriato com’era di polvere d’oro rosso e truccato da indiano, altrettanto ridicolo, in fondo – se ne rese conto all’improvviso – del Marcueil uomo di mondo.
“Finalmente soli!” ghignò con amarezza respingendo Ellen. “E le sette donne che stanno per venire, e il dottore che osserverà?”
Ellen ghignò a sua volta, con un riso dissonante di spaccapietre ubriaco, un riso bellissimo.
“Eccole, le tue donne! Ecco (e prese sul letto e poi lanciò sul petto dell’Indiano un oggetto freddo come un’arma bianca) la chiave della tua cassaforte per donne! Chiude perfettamente! Te le custodirò io, e saranno ben guardate! Ma sono mie, le tue donne, perché tu sei mio! Quante siete? mi ha chiesto un giorno un piccolo signore scalzo, fasciato in una tonaca da monaco. È semplice: IO SONO SETTE! Vi basta, Indiano mio?”
“È pazzesco!” disse Marcueil, che, tra gli altri infiniti, sembrava disposto a esaurire anche quello della freddezza. “Quel dottore che vedrà… ti riconoscerà.”
“Ho preso la mia maschera,” disse Ellen.
“Bel sotterfugio! La tua maschera di automobilista, come se tutte le donne ne portassero e non si sapesse che miss Elson è un’assidua guidatrice! Tutti l’hanno vista. Bathybius ti riconoscerà meglio, ecco tutto.”
“Le mie maschere sono rosa, e questa è nera!”
“È un argomento… da donna.”
“E per questo… non varrebbe? Ascolta, è la maschera di una delle tue donne, erano in quattro a portarne, è la moda… E poi… Ah! e poi è ben sufficiente per un dottore! Di più: la maschera di una delle tue donne ti farà piacere, crederai di baciare il suo volto… e io crederò di averle tagliato la testa… E poi… non sono interamente ragazza, non vorrai che sia interamente nuda!”
Il suo volto sparì nel velluto nero. I suoi occhi e i denti brillavano.
Un istante dopo, si sentì scattare un meccanismo, e i peli bianchi di Bathybius brinarono confusamente un piccolo vetro in fondo alla sala.
“Coraggio, Indiano,” scherzò Ellen, “la Scienza vi osserva, la Scienza con la S maiuscola, o piuttosto poiché non è ancora abbastanza importante…: la SCIENZA con lo SCEmo maiuscolo…”
Marcueil, sempre freddo:
“Ma, in fondo, come sai che io sono l’indiano? Lo sarò… forse… dopo.”
“Non lo so,” rispose Ellen, “non so nulla, lo sarai e poi non lo sarai più… sarai più dell’Indiano.”
“DI PIÙ?” sognò Marcueil. “Che vuol dire? È come l’ombra fuggente di quella corsa… di più, non è più fisso, dilegua più lontano dell’infinito, è inafferrabile, un fantasma…”
“Voi eravate l’Ombra,” disse Ellen.
E l’allacciò, macchinalmente, per aggrapparsi a un sostegno palpabile.
Da un cornetto di vetro, su un tavolino, li raggiungeva il profumo di qualcuna delle rose del Moto-Perpetuo, non ancora appassita.
Come un alloro intrecciato in corona le cui foglie tremino al vento, il nome dell’essere che si sarebbe rivelato “al di là dell’Indiano” volteggiò e apparve davanti agli occhi di Marcueil:
“IL SUPERMASCHIO”.
L’orologio annunciò la mezzanotte e Ellen ascoltò:
“È finito?… Allora… a voi, mio signore.”
E ricaddero l’uno verso l’altro, i loro denti suonarono e il cavo dei loro petti – tanto uguale era la loro statura – fece ventosa e schioccò.
Cominciarono ad amarsi, e fu come la partenza per una spedizione lontana, per un grande viaggio di nozze che non percorreva città, ma tutto l’Amore.
Quando si unirono per la prima volta, Ellen dovette sforzarsi per non gridare, e il suo volto si contrasse. Per soffocare la sofferenza pungente ebbe bisogno di mordere qualcosa, e fu il labbro dell’Indiano. Marcueil aveva avuto ragione di dire che per certi uomini tutte le donne sono vergini, ed Ellen dovette farne la prova; ma, benché ferita, non gridò.
Si respinsero precisamente nel momento in cui gli altri si allacciano più strettamente, perché entrambi non pensavano che a se stessi e non volevano preparare altre vite.
A che servirebbe, finché si è giovani? Sono precauzioni che si prendono – o che si cessa di prendere – alla fine della vecchiaia, dopo aver fatto testamento, sul letto di morte.
Il secondo incontro, meglio assaporato, fu come la rilettura di un libro amato.
Solo dopo parecchie riletture, Ellen poté discernere qualche piacere in fondo agli occhi scintillanti e freddi dell’Indiano… e credette di comprendere che egli era felice che essa fosse felice fino al dolore.
“Sadico!” disse.
Marcueil scoppiò in una franca risata.
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