Non era di quelli che battono le donne. Qualcosa in lui era per loro fin troppo crudele, perché avesse bisogno di rincarare la dose.

Continuarono, e ogni loro bacio fu uno scalo in un paese differente dove scoprivano sempre qualcosa e sempre qualcosa di meglio.

Ellen sembrava decisa a essere un po’ più spesso felice del suo amante, e a raggiungere prima di lui il traguardo di cui parlava Teofrasto.

L’Indiano approfondiva in lei delle sorgenti di piacere angoscioso, che nessun amante aveva sfiorato.

A DIECI, essa saltò fuori dal letto con leggerezza e tornò con una graziosa scatola di tartaruga che aveva presa nello spogliatoio.

“A DIECI, avete detto, maestro, che bisogna medicare le ferite con dei balsami… Questo è un eccellente balsamo distillato in Palestina…”

“Sì, l’ombra cigolava,” mormorò Marcueil. Rettificò con dolcezza:

“Più tardi. A UNDICI.”

“Ora,” disse Ellen.

Le forze umane furono superate, come, da un vagone, si vede svanire il paesaggio familiare di una periferia.

Ellen si rivelò cortigiana esperta, ma era così naturale! L’Indiano dava così bene l’impressione di un idolo tagliato in un materiale puro e sconosciuto, di cui ogni parte che si carezzava era la più pura.

Per l’ultima parte della notte e per tutta la mattina, gli amanti non si riposarono né fecero un pasto: sonnecchiavano o vegliavano, non avrebbero potuto dirlo; rosicchiavano dei dolci e dei piatti freddi; e bere – in una stessa coppa – non era che una delle mille varianti del loro bacio.

A mezzogiorno – l’Indiano aveva quasi raggiunto e Ellen superato da un pezzo la cifra di Teofrasto – Ellen si lamentò un poco.

“Ho così caldo!” disse camminando nella sala, con le mani sui seni tesi; “non sono abbastanza nuda. Non potrei togliermi questa cosa dal viso?”

Gli occhi del dottore spiavano dietro il vetro.

“Quando la toglieremo?” ripeté Ellen.

“Quando le tue occhiaie usciranno fuori dalla maschera,” disse Marcueil.

“Che questo avvenga presto,” gemette Ellen.

Egli la prese fra le braccia dove restò gualcita come un fazzoletto appallottolato; la mise a letto come un bambino, la fece distendere e le tirò la pelle d’orso sui piedi, raccontandole, con comica pedanteria, per farla ridere:

“Aristotele dice nei suoi Problemi: Perché avere i piedi freddi non fa bene all’amore?”

Le recitò le favole di Florian:

Una scimmietta colse

una noce nel suo guscio verde…

Di colpo si accorsero di aver fame.

Andarono a cadere contro la tavola imbandita alla Gargantua, e mangiarono come dei poveri a una cena popolare, dei poveri che si fossero bucate le viscere con aperitivi da miliardari.

L’Indiano ingurgitò tutte le carni rosse e Ellen tutta la pasticceria; ma egli non bevve tutto lo champagne, perché la donna prelevò la schiuma dalla prima coppa di ogni bottiglia. La mordeva come se stesse sgranocchiando delle meringhe.

Dopo baciava il suo amante: ed egli, sopra il suo maquillage rosso, si trovò così ricoperto di zucchero su tutte le parti del corpo.

Poi si amarono a due riprese… avevano tempo: non erano ancora le due del pomeriggio.

Poi dormirono: alle undici e ventisette della sera, dormivano ancora, come se fossero morti.

Il dottore, dondolando pian piano la testa, quasi sul punto di addormentarsi, segnò il totale raggiunto fin allora:

70

E richiuse la sua stilografica.

La cifra di Teofrasto era uguagliata, ma non superata.

Alle undici e ventotto, Marcueil si destò o, piuttosto, ciò che in lui costituiva l’Indiano si svegliò prima di lui.

Sotto la sua stretta, Ellen gridò dolorosamente, si alzò titubante, con una mano sul seno e l’altra sul sesso: i suoi occhi frugarono intorno, come un malato cerca una medicina o un eteromane il suo Lete…

Poi ricadde sul letto: e il suo respiro, attraverso i denti serrati, aveva lo stesso impercettibile gorgoglio che fanno i granchi, queste bestie che canterellano forse quel che cercano di ricordare del canto delle Sirene…

Brancolando sempre con tutto il suo corpo verso l’oblio della profonda bruciatura, la sua bocca trovò la bocca dell’Indiano…

E non si ricordò più del dolore.

Avevano ancora trenta minuti prima della mezzanotte, un tempo che bastò loro per rivivere, ancora una volta contando la tappa precedente, il percorso conosciuto delle forze umane…

82

scrisse Bathybius.

Quand’ebbero finito, Ellen si mise a sedere, si acconciò i capelli e fissò il suo amante con occhi ostili:

“Non è stato affatto divertente,” disse.

L’uomo raccolse un ventaglio, lo apri a metà e la schiaffeggiò con forza.

La donna sobbalzò, sguainò dai suoi capelli una lunga spilla a forma di sciabola e, per una vendetta immediata, mirò agli occhi di Marcueil che scintillavano all’altezza dei propri.

Marcueil lasciò agire la sua forza: i suoi occhi si difesero da soli.

Sotto il loro sguardo da ipnotizzatore, proprio nel momento in cui stava per far ricadere l’arma, la donna si addormentò, in catalessi.

Il braccio che si prolungava nell’acciaio restò orizzontale.

Allora Marcueil poggiò l’indice tra le sopracciglia di Ellen e subito la destò, perché l’ora era giunta.

CHI SEI, ESSERE UMANO?

Una piccola cosa miserabile rintoccò, come la punta ferrata di un gruccia incespica e suona sul selciato; una piccola cosa miserabile: mezzanotte stremò i suoi dodici colpi al vetusto orologio di Lurance.

Il rumore terreno rianimò Ellen, che cominciava nuovamente ad assopirsi, questa volta di un sonno naturale. Contò i gemiti del timbro:

“Ah ah! Le forze umane!” ghignò, stizzita di essere stata disturbata da una trascurabile intrusione; rise fino allo spasimo e si riaddormentò aggomitolata nel suo riso.

La porta si apriva.

La figura del dottore si disegnò sulla soglia.

Bathybius vacillò per qualche secondo, stordito dall’odore d’amore e accecato dal terribile candore delle lampade elettriche accese nell’immensa sala, come ceri di un altare addobbato per delle nozze prodigiose.

La donna mascherata, i seni eretti, le dita delle mani e dei piedi rovesciate indietro e tremanti, e il cui riso, nel sonno, diventava un rantolo dolcissimo, giaceva di traverso sulla pelle d’orso…

La forma scarlatta, nuda, muscolosa e oscena dell’Indiano scattò verso quella creatura vestita, canuta e con una barba scimmiesca, che varcava la soglia senza comprendere quale confine stesse oltrepassando.

E il Supermaschio salutò, con un ruggito di belva sorpresa nella sua tana, Bathybius con la stessa frase (perché non ce n’erano altre da dire) con la quale Tuono-Rombante, nelle Mille e una notte, accoglie l’ambasciata del visir:

“Chi sei, essere umano?”

La folla brulicava nelle gallerie e, in fondo all’ultimo salone, minuscoli, degli uomini, suonatori di strumenti, stridevano come grilli in una scatola.

E PIÙ

L’Indiano nudo e tinto di vermiglio fu trascinato da una fiumana urlante, la stessa che acclama un campione, un attore o un re.

In fondo alla fila illuminata dei saloni, gli archetti si snervavano a far scaturire dalle corde qualcosa come il Te Deum dell’amore esasperato.

Un abito nero fiorito di un’aiuola di decorazioni esuberanti e mal curate, poiché, come una gramigna, vi si insinuava il Merito Agricolo, si affrettò verso Marcueil, che, al riparo della falsa epidermide di pellirossa, riconobbe Saint-Jurieu.

“Lo spopolamento non è più che una parola,” piagnucolò di ammirazione il senatore.

“Appena una parola,” canterellò il generale.

“La patria può sempre contare su un centinaio di difensori in più,” gridarono tutti insieme.

“Soltanto ottantadue,” rettificò balbettando Bathybius. “Ma quando l’Indiano vorrà darsene la pena, in ventiquattr’ore, calcolando solo sei all’ora, saranno centoquarantaquattro!”

“Una grossa!” riassunse Saint-Jurieu.

“Lo si sarebbe anche per meno1 !” disse il generale.

“E questo numero può essere moltiplicato quanto si vuole con la fecondazione artificiale,” continuò il dottore, eccitato. “E questo senza che sia nemmeno necessaria la presenza di…”

“Dell’autore del quale voi siete l’editore, caro dottore!” scherzarono diverse voci.

“Prenoto una tiratura privata,” disse cinicamente Henriette Cyne che era riuscita a entrare non si sa come.

In risposta a tutti questi discorsi, l’Indiano, con un impassibile gesto del capo, fece: “No.”

“Che dice?” brontolò il generale. “Che non vuole fare dei bambini? Ma chi ne farà, allora?”

L’Indiano, sempre muto e imperturbabile, ruotò intorno lo sguardo, sollevò l’indice e lo lasciò ricadere sul petto decorato di Saint-Jurieu.

“Sono sempre quelli che non possono che ci provano,” interpretò filosoficamente Henriette Cyne.

E l’Indiano si dileguò, inquieto per l’incognito di Ellen, che poteva non essere rispettato. Corse nel salone, di cui aveva chiuso la porta.

Era appena entrato, che un corpo flessibile e ancora tiepido del calore delle sue braccia, l’allacciò e lo rovesciò sul letto di pelliccia. E l’alito della ragazza sussurrò, in un bacio che gli fece ronzare l’orecchio:

“Finalmente ci siamo liberati da questa scommessa, per far piacere al… signor Teofrasto! E se pensassimo a noi, ora? Non ci siamo ancora amati… per il piacere!”

Aveva tirato i due chiavistelli.

Improvvisamente, vicino al soffitto, un vetro si ruppe, e i frammenti piovvero sul tappeto.

1 Gioco di parole, intraducibile, fra grosse (grossa, cioè dodici dozzine) e grosse (agg., gravida). (N.d.T.)

O BELL’USIGNOLETTO

Proprio in quel momento le donne sfondavano il pannello vetrato. I frantumi suonarono all’inizio della caduta, poi furono ingoiati dai peli del tappeto, fra i quali il rumore si spense come uno scoppio di risa che, accorgendosi di suonar falso, s’interrompe.

Le donne non provarono subito a ridere.

“Ehi, innamorati!” disse infine Virginia.

“Non avete ancora finito, dall’altro ieri?” chiese Irene.

“Pretendono di non aver ancora incominciato!” ridacchiò Eupuria.

“Ci aspettavate?” disse Modesta.

Si accalcavano dietro il telaio di ferro, ma André ed Ellen non scorgevano che la parte superiore dei loro volti.

“Non c’è modo di farle tacere?” tuonò il Supermaschio. “Nasconditi!” ordinò a Ellen.

“Non m’importa che ci vedano, dal momento che non ti mostrano che il loro viso,” disse Ellen. “Io porto altrimenti la mia maschera.”

Come una Regina che apra orgogliosamente lo scrigno unico dei diamanti regali, distaccò le braccia dell’Indiano, che, tenendola allacciata, nascondeva in parte le sue spalle.

Poi compì il gesto che non è permesso che alle Sovrane: s’inginocchiò davanti all’uomo.

Solo le donne, nate schiave, possono credersi in dovere di riscattare i loro servizi con un supplemento di tariffa.

Ellen carezzava Marcueil con trasporto. La sua bocca, mordace, ne voleva all’uomo di non essere ancora esausto. Non amava la sua compagna, se non si era ancora dato per intero, dato fino a non poter più dare!

L’Indiano si rovesciò in deliquio a più riprese, passivo ora come un uomo, ora come una donna…

Senza dubbio era quella la realizzazione di quel che Teofrasto intendeva con “E più”.

Le imprecazioni delle ragazze fiottavano sopra di loro come un baldacchino.

Divertiti in principio, gli amanti si esasperarono. Marcueil si sollevò, afferrò una leggera porcellana giapponese e fece il gesto di lanciarla verso la feritoia. Ma cambiò idea: non era in casa sua, dal momento che era l’Indiano.

“Ci vuole del rumore per farle tacere,” disse. “Ah! se avessi un corno da caccia!”

I suoi occhi cercarono sulla tavola ingombra dove aveva riposto il vasetto di porcellana.

A un tratto, con la brusca decisione di un uomo attaccato che carica un revolver, prese dal cassetto un oggetto cilindrico.

Là, in alto, le voci si spaventarono.

“Niente scherzi, signor selvaggio!” gridò Virginia, che non poteva abbandonare la breccia, perché vi si era affacciata per prima, ed ora la pressione delle compagne la costringeva a restarci.

“Non abbiate paura!” le beffò Ellen, impugnando André con un gesto di un’impudicizia tragica. “Non abbiate paura, signore, lo tengo!”

André si svincolò, alzò le spalle e parve dar la carica, con una chiave, a una specie di scatola che reggeva una corolla di cristallo, quella stessa dove, poco prima, era stato immerso, senz’acqua, il fascio di rose e che sembrava non essere inclinata che dal peso dei fiori; e un fonografo munito di altoparlanti, che occupava il centro della tavola dove avevano mangiato, lanciò dal suo padiglione, bizzarramente intasato di profumi e colori, un canto possente che riempì il salone.

“Bravo!” fece ancora Virginia.

Non si sentì la parola, ma si vide il gesto delle sue mani grasse che si sforzavano di applaudire ironicamente senza smettere di tenerla sospesa al suo osservatorio.

“Perché no: un po’ di cinematografo?” urlò a squarciagola per sopraffare il muggito d’organo dell’enorme strumento.

Le labbra delle donne si muovevano, ma, ormai, le loro voci erano coperte.

Che avessero udito o meno la frase di Virginia, André ed Ellen sembrarono disposti a rispondere alla richiesta realizzandola con qualche atteggiamento teatrale: l’Indiano aveva colto una rosa rossa dal fascio, e, con una tenerezza che si divertiva a simulare un cerimoniale, l’offrì alla donna mascherata sul divano; poi essi unirono le loro labbra per un minuto, senza più darsi pena per dei testimoni ormai impotenti a disturbarli, e si lasciarono cullare dall’ampia vibrazione della musica.

André aveva fatto scivolare nel fonografo un rullo a caso; e quando tornò al fianco di Ellen per deporre sul suo seggio di giovane avorio la rosa vermiglia che sembrava un lembo strappato alla sua epidermide di pellirossa colorito come una bocca, lo strumento attaccò una vecchia romanza popolare.

Benché André non ignorasse certo che la canzone era notissima e incisa in molte raccolte di folklore, rabbrividì sgradevolmente alla curiosa coincidenza del suo gesto e dei primi versi della romanza:

Ho colto una rosa

per offrirla al mio amore,

O bell’usignoletto!

Ellen si lasciò sfuggire un grido, nascose la testa sotto il braccio di Marcueil, la sollevò e fissò il suo amante negli occhi con un’aria che significava chiaramente, a dispetto della maschera:

“Ecco una cosa straordinaria, ma se sei stato tu a farla, non mi stupisce.”

André, nuovamente padrone di sé, dissimulò il suo turbamento e si mise a ridere allegramente; ma a un secondo esame della sua fisionomia, per rapido che fosse, Ellen vi scoprì una nube che credette di spiegarsi.

“Non sarete geloso, signore,” esclamò, “che quella bocca di cristallo si vanti di offrirmi dei fiori? Ha ragione, caro, erano suoi. Vi sta dando una lezione di galanteria.”

E, poiché sapeva delle brutte parole, precisò:

“Serio e minchione, non è così che si dice?”

Nel frattempo, lo strumento aveva ripetuto:

Ho colto una rosa

per offrirla al mio amore.

Poi fece una specie di macabro trillo, un krr… interminabile, come per sgridare la ragazza per la sua familiarità, o per schiarirsi la voce; ma era soltanto una pausa prima della seconda strofa:

La rosa che io porto

è una triste nove-el-la,

O bell’usignoletto!

la rosa che io porto

è una triste nove-el-la.

L’imbuto di cristallo vibrò, prolungando queste due ultime sillabe come un richiamo morente:

“El-le-n!”

Con quel che vi restava dei fiori, pareva l’immenso monocolo di un ciclope malvagio che li stesse osservando, o il trombone di un brigante in agguato sulla strada principale del loro amore, o, peggio ancora, l’occhiello di un vecchio signore molto chic, fiorito di una riserva di oggetti insanguinati, che sarebbero stati, anche loro, “delle tristi novelle”.

Al primo giro di danza

la bella cambia colo-o-re,

O bell’usignoletto!

“Al primo?” disse Ellen cambiando appunto colore, perché era arrossita. “Questo porta-fiori si è tolto un po’ tardi gli steli che aveva nell’occhio, se ci scopre soltanto ora…”

“Ogni giro è sempre il primo,” fece l’Indiano.

Ellen non rispose, perché si amarono.

Il vecchio signore col monocolo di cristallo era uno spettatore ben più indiscreto di Bathybius, dal momento che – senza aspettare e continuando, apparentemente, a osservarli – riattaccò con la sua voce belante:

… letto!

hé hé hé hé hé hé…

Krrr…

Al primo giro di danza

la bella cambia colo-o-re,

Aveva una maniera estremamente comica, aspirata e improvvisa di riattaccare

…o…re.

Era un singulto, un gemito e un gioco di parole: ore.

Poi fece: krrr… e attese, come un Bathybius qualunque. Aveva fatto definitivamente tacere le donne là in alto, e, col suo monocolo che impercettibilmente tremava, continuò – né Ellen né André trovavano che quel monocolo fiorito fosse più assurdo di qualsiasi altra cosa umana o sovrumana:

Al secondo giro di danza…

Automaticamente, e come per un erotismo suggerito, ipnotizzati, André ed Ellen obbedirono.

La bella cambia amo-o-roso,

O bell’usignoletto!

hé… hé… hé…

Al secondo giro di danza

la bella cambia amo-o-roso.

Si sentiva: or-roso, una sorta di inquietante barbarismo. Nel momento in cui la creatura floreale fece krrr, la testa di Ellen si rovesciò indietro con un piccolo rantolo che non era d’amore, e il Supermaschio sentì la sua che gli girava rimescolando delle idee insane insieme a queste parole stravaganti:

… orroso…

amoroso,

“Rime. Orroso è chiarissimo, non proprio ORRENDO, come sulfuroso, Ho02. Ma c’è comunque un errore, non si dice acido orrico…”

“Sono un po’ ebbra” bisbigliò Ellen nello stesso istante. “Ho tanto male!”

Nel mezzo di questa follia, André si rese conto, in uno sprazzo di lucidità, che se non avesse fatto tacere immediatamente, come aveva fatto tacere le donne, quella voce imperiosa che dal tavolino dominava i suoi sensi sovreccitati, il suo midollo e quasi il suo cervello, avrebbe dovuto possedere ancora, il suo sesso non avrebbe potuto non possedere ancora la donna moribonda che le sue braccia non avevano abbandonato un secondo.

L’avrebbe uccisa, ora, a colpi di pugnale, per non essere costretto a farla soffrire altrimenti. Le palpebre della donna erano chiuse, e una piccola lacrima le disserrava appena per uscirne, inumidendo le aperture della maschera.