Orroso è chiarissimo, non proprio ORRENDO, come sulfuroso, Ho02. Ma c’è comunque un errore, non si dice acido orrico…”

“Sono un po’ ebbra” bisbigliò Ellen nello stesso istante. “Ho tanto male!”

Nel mezzo di questa follia, André si rese conto, in uno sprazzo di lucidità, che se non avesse fatto tacere immediatamente, come aveva fatto tacere le donne, quella voce imperiosa che dal tavolino dominava i suoi sensi sovreccitati, il suo midollo e quasi il suo cervello, avrebbe dovuto possedere ancora, il suo sesso non avrebbe potuto non possedere ancora la donna moribonda che le sue braccia non avevano abbandonato un secondo.

L’avrebbe uccisa, ora, a colpi di pugnale, per non essere costretto a farla soffrire altrimenti. Le palpebre della donna erano chiuse, e una piccola lacrima le disserrava appena per uscirne, inumidendo le aperture della maschera. Si sarebbe detto che la maschera piangesse. I seni innalzavano una gioia o una sofferenza che non erano più terrene.

André volle drizzarsi per arrestare o rompere il fonografo, afferrare il vasetto di porcellana e spezzare il padiglione di cristallo. Notò, a portata di mano, accanto alletto, e si stupì di essersene ricordato così tardi, gli accessori della sua spoglia di Indiano da operetta. Lanciò il tomahawk, che, beninteso, non sapeva lanciare, e che andò a colpire con la parte non tagliente lo schienale di una sedia, a dispetto di tutti i romanzi di Fenimore Cooper; scagliò subito dopo una delle pantofole di Ellen, che fu un proiettile più micidiale; urtò il margine della corolla di cristallo, che vibrò senza rompersi né rovesciarsi, e spazzò via le ultime rose, che caddero al suolo. Tutto questo, che abbiamo raccontato con tante lungaggini, avvenne durante il la-sol che corrispondeva alle sillabe o-roso.

Il padiglione del fonografo simulò la gola scintillante e minacciosa di un serpente, non più nascosto dai fiori; e André, affascinato, dovette obbedire all’ordine, e, come lui, anche il suo sesso dovette obbedire: il mostro comandò con voce limpida e squillante:

Al terzo giro di danza…

la bella cade mo-or-ta,

O bell’usignoletto!

Al terzo giro di danza

la bella cade mor…

André non udì il singulto finale: un urlo immenso e acutissimo, fatto di sette urli, era sgorgato dalla galleria delle donne, i cui volti abbandonarono precipitosamente la finestrina. L’incantesimo era rotto, e André si rialzò, senza avere obbedito fino in fondo all’impulso maniaco… Il fonografo ebbe un ultimo krrr e si arrestò. Fu esattamente come il trillare di una sveglia, ma non fu la fine di un sogno. L’alba fredda e azzurra del secondo giorno passato in quella stanza, lasciò cadere sul divano, dalle alte finestre del salone, il suo sudario. Ellen non respirava più, il suo cuore non batteva più, i suoi piedi e le sue mani erano fatte dello stesso ghiaccio dell’alba.

Un nuovo sciame di ricordi barocchi urlò nel cervello sconvolto del Supermaschio:

“Perché, dice Aristotele nei suoi Problemi, avere i piedi freddi non giova all’atto sessuale?”

Poi sghignazzò suo malgrado, e un io oscuro gli susurrava dal di dentro che avrebbe fatto meglio a piangere; poi pianse, e un altro io, che sembrava nutrire un odio individuale contro il precedente, gli spiegò con dovizia di argomenti, ma in un istante, che quello era il momento ideale per ridere a crepapelle. Si rotolò al suolo per tutta la lunghezza del salone. Il suo corpo nudo urtò sul pavimento, un rettangolino di superficie morbida e lanosa. Trasecolò, fino a credere di essere impazzito, al pensiero che la pelle d’orso che faceva da tappeto gli sembrasse tanto piccola.

Era la maschera di Ellen, caduta durante l’agonia.

LA SCOPERTA DELLA DONNA

La sua maschera era caduta…

Ellen, ora, era completamente nuda.

Tranne la maschera, egli la possedeva tutta da due giorni…

L’aveva vista spesso senza la maschera, prima di quei due giorni; ma il tempo si misura dal numero degli avvenimenti che lo riempiono e lo dilatano. Il minuto in cui essa l’aveva atteso tutta rosea, col braccio destro sollevato, appoggiata contro lo stipite, doveva risalire all’inizio dei tempi…

… Al tempo in cui qualcosa di Sovrumano creò la donna.

“È mai possibile?” essi dicevano in quel passato.

La maschera era caduta, e apparve al Supermaschio con un’evidenza assoluta che, pur possedendo Ellen tutta nuda da due giorni, egli non l’aveva mai vista, nemmeno senza la maschera.

Non l’avrebbe vista mai, se non fosse morta. I prodighi diventano generalmente avari nell’istante in cui si accorgono che il loro tesoro è stato dilapidato.

Il Supermaschio non avrebbe più visto Ellen, la cui forma, per le contrazioni muscolari che precedono la decomposizione, stava per tornare a ciò che è prima di ogni forma. Non si era mai chiesto se l’avesse amata né se fosse mai stata bella.

La frase da cui era nata la prodigiosa avventura gli tornò in mente come, personaggio volontariamente ridicolo e insignificante, l’aveva pronunciata:

“L’amore è un atto senza importanza, perché lo si può fare all’infinito.”

All’infinito…

Sì. C’era una fine.

La fine della Donna.

La fine dell’Amore.

“L’Indiano tanto celebrato da Teofrasto” sapeva bene che la fine sarebbe venuta dalla donna, ma supponeva che quest’essere grazioso, fragile e futile (rise a questa parola, figurandosela mentalmente pronunciata alla latina da un Domenicano: fottile), quest’essere futile avrebbe rinunciato alla voluttà, se essa non fosse stata più il fine immediato, se non fosse stata più che un mezzo per una voluttà più esasperata, più eroica e più al limite del dolore. Aveva messo sette donne in riserva, nella galleria, proprio come Arthur Gough avrebbe portato sette automobili di ricambio… in caso di panne.

Rise ancora, ma pianse nervosamente guardando Ellen.

Era bellissima.

Aveva mantenuto la promessa: la maschera era caduta, ma il cerchio intorno agli occhi l’aveva sostituita, enorme! Altre maschere stavano per posarsi da ogni parte su di lei, come fiocchi di neve violetta: le marezzature cadaveriche che cominciano alle narici e al ventre.

Il marmo della vivente era ancora puro e luminoso: alla gola e ai fianchi, le stesse niellature impercettibili dell’avorio appena tagliato.

Sollevandole le palpebre con un delicato gesto dell’indice, Marcueil scoprì di non aver mai visto il colore degli occhi della sua amante. Erano scuri fino a sfidare ogni colore, come le foglie morte, così brune in fondo alle limpide forre di Lurance, e si sarebbe detto che fossero due pozzi nel cranio, perforati per la gioia di contemplare l’interno della capigliatura.

I denti erano minuziosi giocattoli in un ordine perfetto. La morte ne aveva ravvicinato con cura i due ranghi, come minuscoli domino, vergini di punti (erano troppo bambini per saper contare) in una scatola a sorpresa.

Le orecchie, non c’era da dubitarne, erano state “orlate” da qualche ricamatrice.

Le punte dei seni erano curiose cose rosee che si assomigliavano a vicenda, e non assomigliavano a nient’altro.

Il sesso aveva l’aria di un animaletto eminentemente stupido, stupido come un mollusco – davvero ne aveva l’aria – ma non meno roseo.

Il Supermaschio si accorse che stava scoprendo la Donna, ed era un’esplorazione che compiva per la prima volta.

Fare assiduamente l’amore toglie il tempo di fare l’esperienza dell’amore. Baciò, come rari gioielli di cui avrebbe dovuto disfarsi immediatamente e per sempre, tutte le sue scoperte.

Le baciò – cosa a cui non aveva mai pensato, immaginando che avrebbe significato dar prova di momentanea impotenza a carezze più virili – le baciò per ricompensarle di averle scoperte, si disse quasi: inventate.

E cominciò ad assopirsi dolcemente accanto alla sua compagna addormentata nell’assoluto, come il primo uomo si destò a lato di Eva e la credette uscita dal suo fianco perché gli stava a fianco, nella sua ben naturale sorpresa di trovare la prima donna, sbocciata dal suo amore, là dove si era accucciata qualche femmina ancora antropoide.

Mormorò il suo nome di cui per la prima volta comprendeva il senso:

“Elena, Elena!”

“Elena, Elena!” modulò una musica attraverso il suo cervello, come se il fonografo funzionasse ancora e imponesse il suo ritmo.

E Marcueil si accorse che a quello stadio del dispendio delle sue energie nel quale un altro uomo avrebbe provato fatica, egli diventava invece sentimentale. Era la sua maniera di verificare il post coitum animal triste. Proprio come l’amore gli era servito di riposo alla fatica delle sue gambe, così, per un analogo equilibrio, il suo cervello aveva ora bisogno di entrare, a sua volta, in funzione. Semplicemente per addormentarsi, fece dei versi:

Una forma nuda e che tende le mani,

che desidera e dice: È possibile?

Occhi accesi di gioia indicibile,

– Chi può, diamanti, contare i vostri grani?

Braccia così spossate quando le strette si sfanno, carne d’un altro corpo piegata al mio piacere, grandi occhi così franchi, soprattutto quando ingannano,

– Salate meno le vostre lacrime, perché le vorrei bere.

A un brivido, essa è in piedi; addormentata,

un caro cuscino in cui pulsa un cuore;

ma nulla è più soave della sua bocca adorata,

della sua bocca adorata, né migliore.

Bocche, formate un’alcova nuziale,

come si uniscono di due gabbie le porte

per celebrare un connubio bestiale

ove le nostre lingue son sposa e consorte.

Come Adamo che anima una doppia lena

trova destandosi Eva al suo lato,

così, fugati i miei sogni, io scopro Eléna,

nome immortale alla bellezza dato.

Dall’abisso dei tempi un corno bela:

Elena,

la piana

ellena

è piena

di Eros.

Verso Troia

già preda,

si spiega

la gioia

di Argo.

L’agile

Achille

mutila

Ilio

dove sviene

Priamo.

Il solco del suo carro che trascina

Ettore intorno ai bastioni riarsi

incornicia uno specchio dove la regina

tutta nuda e coi capelli sparsi,

Elena

regina

si azzima.

Elena

la piana

ellena

è piena

di Amore.

Il vecchio Priamo implora sulla torre:

– Achille, Achille, il tuo cuore è più aspro

dell’oro, del bronzo e del ferro dei morioni,

Achille, Achille, più duro del diaspro,

della rozza pietra dei nostri bastioni!

Al suo specchio Elena si agghinda:

– Ma no, Priamo, non è certo così forte

come dei miei seni d’avorio l’usbergo;

la loro punta s’accende al sangue della morte,

rossa come l’occhio del candido smergo:

nella pupilla gelida si vede l’anima vermiglia.

Non è certo così forte, no, no, Priamo, no.

Paride dalla rocca,

Eros che ride,

una freccia scocca

nel tallone al Pelide.

Paride-Eros

tanto biondo e tanto roseo,

il bel Paride, giudice di dee,

che preferì l’amore di una donna;

il rapitore d’Elena di Grecia,

figlio di Priamo,

Paride arciere è scoperto:

sulla sua traccia smarrita esulta una quadriga,

il suo sesso e i suoi occhi spenti nutrono gli avvoltoi:

Elena,

la piana

ellena

è piena

d’Amore.

Destino, Destino, troppo feroce Destino!

Del bevitor del sangue dei mortali grande è la gioia:

i corpi elleni coprono la pianura di Troia,

fato e avvoltoi fanno comune festino.

Troppo feroce Destino, duro padre dei numi!

Ma Elena, i chiari occhi aperti:

– il Destino non è che una parola, e i cieli sono deserti,

se ci fossero cieli diversi dai miei lumi.

Mortali, osate scrutarne senza impallidire

l’azzurro abisso; vi si legge un decreto:

lo sposo e l’amante, Menelao e Paride,

sono morti e di morti la pianura è superba

per fare ai miei piedi un più dolce tappeto,

un tappeto d’amore che palpita e trema;

e poi ho spesso una veste color d’erba

e… quei giorni… non so, io amo il rosso.

“Elena è morta,” si ripeteva attraverso il suo sonno l’Indiano tanto celebrato da Teofrasto. “Che mi resta di lei? Il ricordo della sua grazia, il suo ricordo leggero, delicato, profumato, l’immagine fluttuante e meravigliosa di lei viva, quasi più meravigliosa di lei viva, perché sono certo che non mi abbandonerà mai, ed è il desiderio dell’impossibile eternità che rende ossessi gli amanti e guasta le loro effimere gioie. Porterò sempre con me la sua memoria, il trofeo lieve, aereo, profumato e immortale della sua memoria, un caro fantasma la cui forma ondeggiante e fluida bagna con la carezza dei suoi tentacoli, come un’idra voluttuosa, la mia testa e le mie reni. Indiano tanto celebrato da Teofrasto, tu la porterai sempre, la sua memoria appena insanguinata, così profumata e lieve e aerea, la porterai come un Indiano cacciatore di scalps… la sua capigliatura!”

E dal profondo dell’essere di quest’uomo tanto anormale che aveva potuto scaldare il suo cuore soltanto al ghiaccio di un cadavere, salì come una certezza una confessione strappata da una forza misteriosa:

“Io l’adoro.”

LA MACCHINA INNAMORATA

Nel momento in cui Marcueil diceva: “Io l’adoro”, Ellen non era più al suo fianco.

Ellen non era morta.

Svenuta, stordita soltanto: le donne non muoiono mai di quel genere di avventure.

Suo padre accolse con stupefazione il ritorno della figlia malata, ebbra, felice e cinica; e Bathybius, chiamato di urgenza, Bathybius, ad onta della maschera della donna e del segreto professionale, e soprattutto in barba ai suoi pregiudizi scientifici, confermò:

“Ho visto – vero come se l’avessi tenuto sotto il microscopio o osservato con lo specolo – ho visto faccia a faccia l’Impossibile.”

Ma le sette ragazze, liberate, parlarono, e la loro gelosia si vendicò.

Virginia si presentò in casa di Elson, bellissima e miracolosamente truccata, con una fronte così pura e degli occhi tanto candidi che si sarebbe detta la Verità in carne e ossa, e dichiarò:

“Il dottore è un vecchio pazzo.