E questo cervello abituato a pensare, colmo di cultura e di scienza, lavorava comunque senza sosta. Era nato per l’azione, e io ero condannato a una passività totale.
Il mondo era morto per me. Nessuna notizia di un certo interesse riusciva a valicare i muri della mia cella.
Ma nel mio angusto sepolcro, non tutto era silenzio.
Fin dall’inizio della mia segregazione, avevo sentito, a intervalli regolari, risuonare dei battiti soffocati. Provenienti da più lontano, ne avevo uditi degli altri, ancora più ovattati.
Regolarmente, venivano sempre interrotti dai grugniti del secondino di guardia. A volte, quando i colpi continuavano troppo a lungo, arrivavano altri guardiani, e dai rumori che seguivano indovinavo facilmente che a qualcuno veniva imposta la camicia di forza.
La faccenda era facilmente spiegabile. Sapevamo tutti che i due uomini in cella isolata erano Morrell e Oppenheimer. Erano loro due che comunicavano insieme, battendo contro il muro; e per questo venivano puniti.
Il loro codice doveva essere indubbiamente molto semplice. Eppure, non aveva per me alcun significato. Lo studiai attentamente, e quando ne scoprii la chiave, mi sembrò infantile, di una semplicità elementare. A ogni colloquio, cambiavano la lettera iniziale del loro alfabeto, il che lo modificava. Spesso, operavano tale cambiamento in piena conversazione.
Così venne il giorno in cui compresi due frasi, chiarissime.
- Di’ un po’, Edoardo, che cosa daresti per qualche cartina e un pacchetto di tabacco Bull Durham? - chiedeva quello che batteva i colpi più lontani.
Fui sul punto di gridare tutta la mia gioia. Intorno a me, c’erano degli altri esseri umani! E si poteva comunicare con loro!
Tesi avidamente l’orecchio. Altri colpi più vicini, che dovevano provenire da Edoardo Morrel, rispondevano:
- Farei venti ore di seguito in camicia di forza, per un po’ di tabacco.
Poi ci fu il grugnito del guardiano:
- Basta, Morrell!
Chi è estraneo a cose del genere crederà che un condannato a vita abbia ormai patito il peggio e che, quindi, un semplice guardiano non abbia nessun potere per costringerlo a obbedire, quando gli proibisce di parlare. Non è così. Rimane ancora la camicia di forza. Restano la fame, la sete, le percosse. E l’uomo rinchiuso in una cella come in una trappola, è impotente a reagire.
Il picchiettìo cessò. Poi, quando riprese, la notte seguente mi inserii nella conversazione.
- Olà! - battei.
- Olà, straniero!… - rispose Morrell, battendo a sua volta.
E Oppenheimer:
- Benvenuto nella nostra confraternita!
Ovviamente erano curiosi di sapere chi fossi, da quanto tempo ero segregato in cella e perché. Ma prima di rispondere chiesi loro d’insegnarmi la chiave che permetteva di modificare a piacimento il codice alfabetico. Me lo spiegarono, e cominciammo a discorrere.
Rimasi sorpreso, e anche lusingato, di sapere che i miei due compagni non ignoravano il mio nome, e che la mia reputazione d’incorreggibile era giunta fino a loro…
Avevo parecchio da raccontare, ma soprattutto sul complotto per l’evasione dei quaranta condannati, sulla ricerca della dinamite, e sulle macchinazioni di Cecil Winwood. Tutte notizie nuove di zecca, per loro. Da due mesi erano completamente isolati, tagliati fuori dal mondo. L’attuale squadra in servizio era severa e crudele in modo particolare. - Taci, per adesso, - mi comunicò Morrell. - Aspetta che stasera sia di guardia “Testa di torta”.
Dorme quasi sempre, e potremo discutere finché vogliamo.
“Testa di torta” era un uomo decisamente brutto e crudele, malgrado la sua pinguedine. Ma era proprio questa sua mole che lo intorpidiva a tal punto da fargli sentire, irresistibile, il bisogno di dormire.
Quanto parlammo quella notte! E il sonno com’era lontano da noi!
Quando si fece giorno, fummo tutti e tre denunciati per il rumore che avevamo fatto. Evidentemente “Testa di torta” dormiva con un occhio solo! E pagammo cara la nostra piccola festa. Era la camicia di forza. Ne sopportammo la tortura per ventiquattr’ore, fino all’indomani alle nove, legati sul pavimento, senza mangiare né bere. Fu il prezzo che pagammo in contanti per la nostra notte felice…
E malgrado la camicia di forza continuammo a comunicare tra noi, specialmente di notte, quando la sorveglianza si allentava.
Così, ci raccontammo l’un l’altro buona parte della nostra vita.
Per ore, Morrell e io ascoltavamo Oppenheimer narrarci la sua esistenza.
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