Potevo soltanto sdraiarmi e pensare. Era ormai evidente che, a meno di fabbricare dal nulla trentacinque libbre di dinamite, tutta la mia vita sarebbe trascorsa in questo ottuso e oscuro silenzio.

L’arredamento della cella consisteva soltanto in un sottile pagliericcio marcito, steso sul pavimento, e di una coperta, ancora più evanescente e d’una sporcizia obbrobriosa. Né una sedia, né un tavolo. Niente di niente.

In vita mia, ho sempre dormito poco, con il cervello in eterno movimento. In una cella, ci si stanca presto a pensare, e il solo sistema per sfuggire al pensiero consiste nel dormire. Decisi di coltivare il sonno, come una specie di scienza. Arrivai a dormire dieci ore su ventiquattro, poi dodici, e infine quattordici o quindici ore. E’ il limite estremo al quale si può giungere. Con questo regime, un cervello attivo non tarda a dissolversi, a spappolarsi nel nulla.

Ricorsi a tutti i trucchi che mi permettessero di sopportare le ore di veglia. Con l’immaginazione cercai di risolvere le radici quadrate e cubiche d’una lunga serie di numeri; con una concentrazione assoluta della volontà, riuscii a risolvere i problemi geometrici più complicati.

Tentai persino di trovare la quadratura del cerchio. Mi ci ostinai sopra fino a quando il problema apparve anche a me insolubile. Poi capii che ostinandomi su questa strada, mi sarei imbattuto nel ghigno atroce della follia. Rinunciai pertanto a interessarmi di questa quadratura misteriosa. Fu per me un enorme sacrificio, dato che lo sforzo mentale necessario per una tale ricerca mi serviva egregiamente ad ammazzare il tempo.

Ricorsi ad altri artifici. Così sotto le mie palpebre, creai la visione artificiale di un gioco di dama, sul quale, facendo un doppio gioco, svolgevo interminabili partite, che duravano ore e ore. Ma quando diventai abilissimo in questo finto gioco, anch’esso perse ogni attrattiva.

Così il tempo mi pesava sempre di più, eterno. Allora incominciai il gioco con le mosche.

Erano mosche simili a tutte le altre. Entravano nella cella sulla scia del sottile raggio di luce. E imparai che le mosche avevano il gusto del gioco. Sdraiato per terra, tracciavo sulla parete davanti a me, con un dito, una linea immaginaria, lontana circa tre piedi dal suolo. Quando le mosche si posavano sul muro, al di sopra di questa linea, le lasciavo in pace. Al contrario, se scendevano sotto, facevo finta di volerle acchiappare. Avevo cura però di non far loro del male, e con il tempo esse conobbero quanto me dove fosse la linea immaginaria.

Ma la cosa più sorprendente era che quando esse volevano giocare, venivano apposta a posarsi al di sotto della linea. Le allontanavo, e vi tornavano ancora. Accadeva spesso che una mosca ripetesse lo stesso gioco per un’ora. Quando ne aveva abbastanza andava a riposarsi in territorio neutro, al di sopra della linea divisoria.

Una quindicina di mosche mi facevano così compagnia. Ce n’era una sola che non s’interessava al gioco, ostinatamente. Dal giorno in cui aveva compreso il pericolo in cui incorreva scendendo al di sotto della linea, aveva evitato con cura di posarsi nella zona proibita.

Sulle mie mosche, sul mio modo di vivere, sui loro giochi, ho fatto ben altre osservazioni, con cui non voglio però importunarvi oltre.

Così trascorreva il mio tempo, interminabile. Non potevo dormire continuamente, e per quanto fossero intelligenti non potevo sempre giocare con le mosche. Perché le mosche sono mosche, e io ero un uomo, con un cervello umano.