Le altre oche si erano gettate in acqua prima del papero, senza curarsi di lui né del suo cavaliere; e, dopo essersi spulezzate, stavano mangiando lenti palustri e trifoglio d’acqua. Mårten ebbe la fortuna di adocchiare un piccolo pesce persico, lo afferrò col becco, nuotò a riva e lo depose ai piedi del ragazzo. — É per te, in cambio del favore che m’hai fatto spingendomi in acqua — disse.

Era la prima espressione gentile che Nils aveva udito durante la giornata, e ne fu così contento che avrebbe abbracciato l’oca. Si sentiva felice del dono, anche se ritenne dapprima impossibile mangiare il pesce crudo. Poi però gli venne voglia di assaggiarlo. Si frugò in tasca per cercare il suo coltellino, e lo trovò, ancora attaccato alla cintura dei calzoni, ma divenuto tanto piccolo da non essere più lungo di un fiammifero: sufficiente tuttavia per squamare e sbuzzare il pesce, che in un attimo fu divorato. Poi si vergognò di averlo mangiato crudo e pensò: “Si vede bene che non sono più un essere umano, bensì un coboldo”. Quand’ebbe ingoiato l’ultimo boccone, il papero, che gli era rimasto seduto accanto, gli sussurrò: — Siamo finiti tra una banda di oche che disprezzano gli uccelli domestici.

— Me ne sono accorto — rispose Nils.

— E per me sarebbe una bella vittoria se riuscissi a seguirle fino in Lapponia, dimostrando loro che anche un’oca domestica è capace di qualcosa — riprese il papero piuttosto preoccupato.

— Già — convenne Nils con voce incerta, perché non credeva che Mårten fosse in grado di farcela, e d’altra parte non osava contraddirlo.

— Non credo però di riuscire a cavarmela da solo in un viaggio del genere —

riprese Mårten. — Te la sentiresti di venire con me e aiutarmi?

Il ragazzo non aveva altro pensiero che di tornare al più presto a casa, e restò talmente sorpreso che riuscì a balbettare soltanto: — Credevo che noi due fossimo nemici. — Ma l’ocone sembrava aver dimenticato gli sgarbi subiti per ricordare solo che gli doveva la vita. — Dovrei ritornare dai miei genitori — insistette Nils.

— Ti riporterò da loro in autunno — replicò il papero. — Non ti abbandonerò prima di averti deposto sulla soglia di casa tua.

Nils pensò che forse non era male restare per qualche tempo alla larga dai genitori; la proposta non gli dispiaceva, e stava per dare il proprio consenso, quando dietro di loro si levò un formidabile rombo: le oche selvatiche erano uscite tutte assieme dall’acqua e scuotevano con forza le ali. Poi, in lunga fila, l’oca guida in testa, si diressero alla loro volta.

Guardandole, Mårten si senti sulle spine: le aveva credute assai più simili alle oche domestiche, e invece erano molto più piccole di lui, e nessuna bianca ma tutte grigie con striature brune, e occhi che facevano quasi paura, gialli e brillanti come se dentro ci fosse il fuoco. E non camminavano: correvano. Ma a sgomentarlo soprattutto furono le zampe: erano grandi, con la pianta logora e squamata.

Chiaramente le oche selvatiche non stavano mai ferme. Avevano un bel piumaggio, ma dalle zampe si capiva che erano povere vagabonde, abitatrici di luoghi deserti. Mårten ebbe appena il tempo di sussurrare al ragazzo: — Sii franco, ma non dire assolutamente che sei un essere umano.

Intanto le oche selvatiche erano giunte davanti a loro e li salutarono chinando più volte il capo. Il papero fece altrettanto, ma più a lungo. Poi l’oca capostormo disse:

— Desidereremmo sapere chi siete.

— Non ho molto da raccontare di me — rispose il papero.