— Egli disse queste parole soltanto per allontanar la maschera dalla nostra traccia.
— Nove ore — rispose ella nella stessa lingua con energia, ma lentamente. — Si congratuli, signor Principe — chiamandolo col suo vero nome. — A nove ore appunto egli è morto.
Ciò dicendo, alzossi e partí.
Noi ci guardammo l’un l’altro attoniti.
— Chi è morto? — disse finalmente il Principe dopo un lungo silenzio.
— Andiamole dietro — diss’io — e chiediamone la spiegazione.
Frugammo per tutti gli angoli della piazza di S. Marco. La maschera era sparita. Noi ce ne ritornammo malcontenti al nostro albergo. Durante la strada il Principe non profferí parola, ma scostatosi da me camminava solo, e sembrava in una forte agitazione d’animo, siccome egli stesso me lo confessò di poi.
Giunti all’albergo, ruppe il silenzio dicendo:
— Per verità ella è cosa ben ridicola che uno stravagante possa con due parole turbar la quiete altrui.
Ci augurammo felice riposo, e subito ch’io mi fui ritirato nella mia camera feci nel mio portafogli una memoria del giorno e dell’ora in cui ciò era accaduto. Era un giovedí.
La sera susseguente mi disse il Principe: — Non vogliamo noi far una passeggiata sulla piazza di S. Marco, e rintracciare il nostro misterioso Armeno? Bramerei pur vedere il fine di questa scena.
Io vi acconsentii, e restammo sino alle undici ore sulla piazza. L’Armeno fu invisibile. Noi vi ritornammo per quattro sere consecutive, ma senza miglior successo.
Mentre uscivamo la sesta sera dal nostro albergo, non so se accidentalmente, o per qualche motivo il facessi, avvertii le persone di servizio del luogo dove si potrebbe ritrovarci nel caso che di noi si cercasse. Il Principe rimarcò la mia precauzione, e lodolla con un sorriso. V’era gran folla di gente sulla piazza di S. Marco quando vi arrivammo.
Noi avevamo fatti appena trenta passi, allorché io osservai di nuovo l’Armeno che si cacciava con impeto fra la moltitudine e cogli sguardi sembrava ricercare alcuno. Eravamo vicini a raggiungerlo, allorché‚ il Barone di F*** che era del seguito del Principe, venne ansante a noi, e consegnò al Principe stesso una lettera.
— È suggello nero — egli soggiunse — abbiamo sospettato che fosse affare premuroso.
Questo fu per me come un colpo di fulmine. Il Principe erasi accostato ad un fanale, e cominciava a leggere allorché si pose a gridare:
— Mio cugino è morto.
— Quando? — l’interruppi io tosto.
Tornò egli a guardar la lettera, e rispose:
— Giovedí scorso, alle nove della sera.
Non avevamo avuto tempo di riaverci dallo stupore, che subito l’Armeno si trovò fra noi.
— Altezza — diss’egli al Principe — ella è qui conosciuto, Affretti il suo ritorno all’albergo del Moro. Ella vi ritroverà una Deputazione del Senato. Non abbia difficoltà ad accogliere l’onore che le si vuol fare. Il Barone di F*** ha dimenticato di dirle che le di lei cambiali sono giunte.
Ciò detto si dileguò tra la folla.
Noi ci affrettammo a ritornare al nostro alloggio. Tutto si trovò colà come l’Armeno annunziato lo avea. Tre nobili della Repubblica stavano pronti a complimentare il Principe ed accompagnarlo con pompa all’Assemblea, dove la primaria nobiltà della metropoli lo attendeva. Egli ebbe appena tempo di accennarmi alla sfuggita ch’io dovessi stare in guardia per lui.
Verso le undici della notte il Principe fu di ritorno. Egli entrò in camera serio e pensoso, e dopo congedati i domestici, presami la mano:
— Conte — mi diss’egli colle parole di Amleto — vi sono piú cose in cielo e sulla terra di quelle che noi sogniamo nel nostro filosofare.
— Altezza — rispos’io — ella sembra obbliare ch’ella va a riposo piú ricco d’una grande speranza.
Il defunto era Principe ereditario, figlio unico del regnante, il quale era provetto e cagionevole di salute, ed ormai privo di speranza d’aver di sé nuova successione. Uno zio del nostro Principe, egualmente improle e senza intenzione di averne, rimaneva ora solo fra lui ed il trono. Io rammento tale circostanza, perché accaderà in seguito di farne menzione.
— Non mi rammentate tali cose — disse il Principe — e quand’anche si fosse per me conquistata una corona, avrei ora piú da fare che di riflettere a queste frivolezze. Se quell’Armeno solamente non ha indovinato.
— Com’è possibile, Principe? — io l’interruppi.
— Io voglio cedervi tutte le mie speranze di regnare per una fratesca cocolla.
La sera vegnente noi ci trovammo piú per tempo del solito sulla piazza di S. Marco. Un improvviso temporale ci costrinse ad entrare in un caffè, dove si teneva banca da giuoco. Il Principe si pose dietro la sedia di uno Spagnuolo ad osservare il giuoco. Io era entrato in una camera contigua, dove leggevo de’ fogli.
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