Piú non si fece parola dell’accaduto nell’Inquisizione di Stato. Desiderando la corte di *** che fosse differita ancor per qualche tempo la partenza del Principe, alcuni banchieri di Venezia ebbero ordine di sborsargli somme considerabili di contante. Cosí venne posto, suo malgrado, in istato di prolungare la sua dimora in Italia, e ad istanza sua io pure mi risolsi di differire ancora la mia partenza.
Tosto ch’egli ebbe ricuperata la sua salute, a segno di poter uscir dall’appartamento, il medico lo consigliò di fare una gita sulla Brenta per cambiar aria. Il tempo era bello, e la partita venne accettata. Mentre noi eravamo in procinto di montare in gondola, s’accorse il Principe di avere smarrita la chiave d’uno scrigno, il quale conteneva delle carte di somma importanza. Noi ritornammo tosto indietro per ricercarla. Egli rammentavasi precisamente di aver chiuso lo scrigno anche il giorno precedente, e dopo d’allora egli non era uscito dalla camera. Ma ogni ricerca fu vana: noi dovemmo desistere per non perder tempo. Il Principe, di cui l’animo era superiore ad ogni sospetto, dichiarò la chiave perduta, e ci pregò di non piú farne motto.
La gita fu al sommo aggradevole. Una campagna pittoresca, che ad ogni curvilineo giro del fiume parea superar se stessa in ricchezza ed amenità, un cielo sereno, che alla metà di febbraio rappresentava il maggio de’ ridenti giardini, ed innumerevoli case di delizia di gusto squisito che adornano amendue le sponde della Brenta, in lontananza dietro di noi la maestosa Venezia con cento torri ed alberi di navi che pareano sorger di mezzo all’acque, tutto ciò presentavaci lo spettacolo il piú magnifico del mondo. Noi ci abbandonavamo interamente all’incanto di sí bella natura; il nostro umore era giocondissimo, il Principe stesso avea perduta la sua serietà e gareggiava in lieti scherzi con noi. Un melodioso concerto di musica echeggiava al nostro arrivo, allorché, giunti alla distanza di alcune miglia dalla città, noi smontammo a terra. Questa musica veniva da un piccolo villaggio, dove c’era una fiera; quivi eravi prodigioso concorso di società d’ogni genere. Un drappello di giovani donzelle e ragazzi, tutti vestiti alla foggia teatrale, ci complimentò con una danza pantomimica. Il ballo era di nuova invenzione; la leggiadria e le grazie ne animavano ogni movimento. Sul finire di esso la prima ballerina, che rappresentava una regina, parve di repente come trattenuta da un braccio invisibile, rimase immobile, e con essa tutti gli altri. Tacque la musica. Non si udiva un sol respiro in tutta la compagnia, ed essa stava colà con lo sguardo immoto, e fiso al suolo in profondo stupore. Tutto ad un tratto col furor dell’ispirazione spiccò un salto in aria, volse le inquiete ed erranti sue pupille all’intorno, indi gridò: — Èvvi un re tra noi. — Levossi la corona dal capo e la depose ai piedi del Principe. Tutti gli astanti drizzarono i loro sguardi a lui, stando per lungo tempo incerti se qualche significato vi fosse in questa farsa; tanta era stata l’illusione che prodotta avea l’espressione piena d’energia e d’affetto di quella danzatrice. Uno strepitoso e generale batter di mani in applauso interruppe finalmente quel silenzio. I miei occhi cercavano il Principe. Io osservai ch’egli era un poco commosso, e procurava di schivare gli sguardi indagatori degli astanti. Egli gettò del danaro fra que’ ragazzi, e si affrettò di ritirarsi da quella folla di popolo.
Avevamo appena fatti alcuni passi, allorché un reverendo Francescano si cacciò fra la moltitudine, e venne all’incontro del Principe.
— Signore — disse cotesto frate — dà un poco delle tue ricchezze alla Madonna; tu avrai bisogno della sua intercessione.
Egli disse queste parole con un tuono che ci conturbò. La calca lo trasportò altrove.
Il nostro séguito frattanto era cresciuto. Un Lord inglese, che il Principe avea di già veduto a Nizza, alcuni negozianti di Livorno, un Canonico tedesco, un Abate francese con alcune dame e un Ufficiale russo eransi accompagnati con noi. La fisionomia dell’ultimo avea un non so che di affatto straordinario, che fissò la nostra attenzione. Giammai in mia vita io non vidi tante fattezze e sí poco carattere, tanta amorevolezza attraente con sí ributtante freddezza unite in un volto umano. Tutte le passioni sembravano avervi combattuto e poi abbandonato il posto.
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