DUBOIS YANNI, August Strindberg. Una biografia, Milano, 1970.

INFERNO

(1897)

Motto: Curva in silenzio la tua cervice, o fiero Sicambro,

Adora ciò che hai bruciato,

Brucia ciò che hai adorato!

 

Io volgerò la mia faccia contro a quell’uomo;

ne farò un segno e un proverbio,

e lo sterminerò di mezzo al mio popolo;

e voi conoscerete che io sono l’Eterno.

Ezechiele, XIV, 8.

 

E tra essi si trovano Imeneo e Alessandro

che io ho consegnati a Satana

perché imparino a non bestemmiare.

Epist. a Timoteo, I, 20.

I. La mano dell’invisibile

Con un senso di frenetica gioia tornai dalla Stazione del Nord dove mi ero separato dalla mia cara piccola moglie che si recava dalla nostra bambina, ammalatasi in un paese lontano. Dunque anche il sacrificio del mio cuore era consumato! Le nostre parole di commiato: «Quando ci rivedremo?». «Presto!» mi stavano ancora nell’orecchio come le menzogne di cui non abbiamo il coraggio di confessare a noi stessi l’inganno. Un presentimento mi diceva «Mai più». E in realtà, quelle parole di saluto che ci scambiammo nel novembre 1894 furono le nostre ultime, perché fino a quel momento - siamo nel maggio 1897 - io non ho riveduto la mia consorte.

Quando fui giunto al Café de la Régence, mi sedetti allo stesso tavolo dove solevo stare con mia moglie, quella vigile carceriera che andava spiando la mia anima di giorno e di notte, che indovinava i miei pensieri reconditi, che sorvegliava il corso delle mie idee e che era gelosa del mio spirito tutto proteso verso l’ignoto.

Restituito alla libertà, il mio Io si espande e mi sento sollevato sopra le sollecitudini minute della grande città. Proprio allora, su quella scena di spirituali battaglie, io avevo riportato una vittoria, ben da poco in se stessa, ma per me grande oltre ogni dire, giacché attuava un sogno giovanile, un sogno sognato da tutti i miei compatrioti, ma da me solo tradotto in realtà: essere rappresentato in un teatro di Parigi. Ma il teatro, come tutte le cose che si sono ottenute, adesso mi ripugnava; e mi attraeva invece la scienza. Costretto a scegliere tra l’amore e il sapere, mi ero risoluto ad attingere il culmine della conoscenza, e poiché ero io stesso che sacrificavo il mio amore, dimenticavo la vittima innocente che immolavo alla mia ambizione, o alla mia vocazione.

* * *

Tornato alla mia squallida stanza da studente nel Quartiere Latino, rovisto nella valigia e traggo dal loro ripostiglio nascosto sei coppelle di porcellana fine. Da molto tempo le ho comperate, sebbene fossero troppo costose per la mia povertà. Una pinza ed un pacco di zolfo puro completano l’attrezzatura del laboratorio.

Nel camino è acceso il fuoco d’un fornello di fusione: la porta è chiusa e le tendine sono calate. A tre mesi dalla decapitazione di Caserio non è molto prudente, a Parigi, maneggiare degli apparecchi di chimica.

La notte discende, lo zolfo arde con fiamme infernali e sul fare del giorno ecco che in questo corpo ritenuto semplice io ho accertato la presenza di carbonio. M’immagino, con questo, di avere risolto il grande problema, di avere fatto crollare dalle fondamenta la chimica contemporanea, e di avere conquistato quella immortalità che è concessa ai mortali.

Ma la pelle delle mani, che a quel fuoco ardente quasi si è cotta, mi si sfalda in squame, e il dolore di quelle mani, mentre mi svesto, mi dice quale prezzo io abbia pagato per la mia vittoria. Eppure, mentre sto disteso, solo, in quel letto che ancora odora di femmina, mi sento beato. Un non so che di spirituale purezza, di mascolina verginità mi fa sentire come qualche cosa d’impuro la vita coniugale trascorsa, e soltanto mi duole di non avere qualcuno a cui poter dire grazie per la mia liberazione da quelle catene obbrobriose, ormai senza tante ambagi spezzate. Infatti, nel corso di questi anni, io sono diventato ateo, visto che le forze sconosciute hanno, senza dare alcun segno di vita, abbandonato il mondo a se stesso.

Qualcuno da ringraziare, sì, mi ci vorrebbe! Ma non v’è nessuno, e questa ingratitudine, che mi sono da me stesso imposta, mi pesa.

* * *

Geloso della mia scoperta, non muovo, per renderla nota, un sol passo. Ritroso e schivo, non mi rivolgo ad autorità né ad Accademie. Mentre continuo le mie esperienze, le mani screpolate peggiorano, le ferite si allargano e si riempiono di polvere di carbone; il sangue ne sgocciola fuori e i dolori si fanno intollerabili al punto che io non posso afferrare più nulla. Questi dolori che mi rendono furioso io li vorrei imputare alle forze sconosciute che da molti anni mi perseguitano, e che rendono vani tutti i miei sforzi. Evito la gente, trascuro le compagnie, respingo gli inviti, mi stranio dagli amici. Intorno a me si fa solitudine e silenzio. È il solenne e terribile silenzio del deserto, nel quale io, riottoso, sfido lo Sconosciuto per lottare con lui, corpo a corpo, anima contro anima.

Che lo zolfo contenga carbonio, io l’ho dimostrato. Adesso voglio scoprirvi idrogeno ed ossigeno, perché tanto l’uno che l’altro ci devono essere. Ma i miei apparecchi sono insufficienti per questo; mi manca il danaro, le mie mani sono nere e sanguinanti, nere come la miseria, sanguinanti come il mio cuore. Perché durante questo tempo sono stato in corrispondenza con mia moglie e le ho scritto dei miei successi nella chimica. Essa mi risponde dandomi notizie della malattia della nostra bambina, e qua e là insinua che la mia scienza è così vana e che buttar danaro per essa è follia.

In un impeto di giustificato orgoglio e nell’appassionata brama di far del male a me stesso, commetto un suicidio. Con una lettera indegna, imperdonabile, respingo da me mia moglie e mia figlia e lascio intendere che una nuova relazione amorosa occupa i miei pensieri.

Il colpo va al segno. Mia moglie risponde con una domanda di divorzio.

Solo, reo di suicidio e di assassinio, dimentico tra i dispiaceri e gli affanni il mio delitto.