Nessuno viene a visitarmi, ed io non posso far visita a nessuno perché ho offeso tutti. Vado alla deriva, solo, sulla superficie d’un mare. Ho levato l’ancora, ma non ho una vela.
* * *
Ma l’indigenza, che compare sotto forma di un conto non pagato, interrompe i miei lavori scientifici e le mie speculazioni metafisiche. Mi richiama giù, sulla terra.
Il Natale si avvicina. Ho rifiutato sgarbatamente l’invito di una famiglia scandinava di cui mi spiace l’ambiente per via di certe loro fastidiose intemperanze. Ma quando viene la sera e mi trovo solo, mi pento e ci vado.
Sediamo a mensa, e la cena natalizia incomincia con un gran chiasso e con sfrenata allegria perché i giovani artisti si sentono qui a casa propria. Una libertà di gesti e di atti che mi ripugna, un tono che nulla ha di familiare mi deprimono tanto che non mi riesce neppure di descriverli. Nel bel mezzo di quei saturnali, la mia melanconia rievoca dentro di me la tranquilla casa di mia moglie. La sala mi richiama una improvvisa visione: l’albero di Natale, il vischio, la mia piccola figlia e sua madre abbandonata… Il rimorso mi assale tormentoso. Mi alzo, dichiaro di essere indisposto e me ne vado.
Scendo per l’orribile rue de la Gaieté dove l’allegria artificiosa della moltitudine mi offende; poi per la cupa e silenziosa rue Delambre che, più di qualunque altra strada del Quartiere, può indurre un uomo alla disperazione. Svolto nel boulevard Montparnasse e mi lascio cadere sopra una sedia davanti alla Brasserie des Lilas.
Un buon assenzio mi conforta per alcuni minuti. Poi mi assale una turba di cocottes e di studenti che mi percuotono in faccia con le loro sferze. Come inseguito dalle Furie pianto in asso il mio assenzio e corro a prenderne un altro al caffè François Premier sul boulevard Saint-Michel.
Casco dalla padella nella brace. Un’altra torma mi vocia: «Ecco l’eremita!». E sotto la frusta delle Eumenidi fuggo a casa, accompagnato da assordanti cori di trombette.
Non sorge affatto in me il pensiero che tutto questo sia un castigo, che sia la conseguenza di un delitto. Davanti a me stesso io mi sento innocente, mi reputo l’oggetto di una ingiusta persecuzione. Le forze sconosciute mi hanno impedito di continuare la mia grande opera. Era pur necessario spezzare gli ostacoli per poter conseguire la corona della vittoria!
Ho avuto torto, ma nello stesso tempo ho ragione e la mia ragione la difendo!
In quella notte natalizia dormii male. Una ventata fredda mi frustò più volte la faccia e, ogni tanto, mi destava il suono di una zampogna.
* * *
Una prostrazione sempre più grave mi assale. Le mie mani annerite e sanguinanti m’impediscono di vestirmi e di curarmi la persona. Il terrore del conto dell’albergo non mi dà più pace, e passeggio su e giù per la stanza come una bestia feroce nella sua gabbia.
Non mangio più e l’oste mi consiglia di andare all’ospedale. Ma è un consiglio che non mi giova, perché costerebbe troppo seguirlo, e all’ospedale chiedono il pagamento anticipato.
Ad un tratto mi si manifesta una tumefazione nelle vene del braccio: il segno di una intossicazione del sangue. E’ il colpo di grazia.
La nuova si sparge tra i miei connazionali e una sera viene da me quella donna pietosa, dalla cui cena natalizia io ero così bruscamente scappato. Lei che mi era antipatica, lei che io quasi spregiavo, ora mi visita, s’informa del mio stato, apprende la mia disgrazia e, tutta in lacrime, m’indica come unica salvezza l’ospedale.
Si può immaginare come io resti desolato e abbattuto quando il mio silenzio eloquente le fa intendere che mi mancano i mezzi. Vedendomi così prostrato, è presa da compassione. Benché povera anche lei e travagliata dal quotidiano affanno per l’esistenza, vuole raccogliere offerte nella comunità scandinava e rivolgersi al Pastore della colonia.
La peccatrice sente pietà per l’uomo che ha appena abbandonato la sua legittima moglie.
Ridiventato mendico, mentre chiedo la carità per l’intercessione di una donna, incomincio ad intendere vagamente che vi è una invisibile mano la quale guida l’inesorabile logica degli eventi.
Mi piego sotto la burrasca, risoluto a rialzarmi appena l’occasione lo consenta.
* * *
La carrozza mi trasporta all’ospedale di San Luigi.
Per via, nella rue de Rennes, smonto per comprarmi due camicie bianche.
- La camicia funebre per l’ora suprema!
Penso veramente alla morte vicina, senza sapermi spiegare perché.
All’ospedale mi si proibisce di uscire senza permesso; per di più le mie mani sono così fasciate che ogni occupazione mi diventa impossibile. Mi sento perciò come un prigioniero.
La mia stanza è astratta, nuda, non contiene che il puro necessario, non reca alcun segno di bellezza. È attigua alla Sala Convegno dove, dalla mattina alla sera, si fuma e si giuoca alle carte.
Suonano per la prima colazione. Mi seggo a tavola e mi trovo in una compagnia spaventevole. Teste di morti e di moribondi: ad uno manca il naso, ad un altro manca un occhio; a quello laggiù pende flaccido il labbro; a questo è marcita la guancia.
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