Alcuni giorni dopo che avevo lasciato la Sorbona, scopro, vicino allo spiazzo centrale del Cimitero, una tomba di classica bellezza. In un medaglione di marmo bianco sono ritratte le nobili sembianze di un vecchio sapiente che l’iscrizione sullo zoccolo mi presenta come il chimico e tossicologo Orfila.

È il mio amico e protettore che, in appresso, mi ha più volte guidato attraverso il labirinto delle esperienze chimiche.

Una settimana dopo, scendendo per la rue d’Assas, mi fermo davanti ad un edificio dall’aspetto claustrale. Una grossa insegna m’informa della destinazione di questa casa: «Albergo Orfila»! Sempre Orfila!

Racconterò nei capitoli seguenti tutto ciò che è avvenuto in quella vecchia casa, nella quale mi ha sospinto la mano invisibile perché vi fossi mortificato, ammaestrato e, perché no?, illuminato.

III. La tentazione del demonio

La causa di divorzio andava per le lunghe ed era, ogni tanto, interrotta da una lettera d’amore, da un’implorazione nostalgica, da promesse di riconciliazione. E, per ultimo, un secco addio, per sempre!

Io amo lei, essa ama me e noi ci odiamo con l’odio selvaggio di un amore che la separazione ingigantisce.

Risoluto a spezzare quel disgraziato legame, cerco un’occasione per sostituire questa passione con un’altra, e il mio impuro desiderio è tosto esaudito.

Ai pasti nella Latteria partecipa un’inglese che si occupa di scultura. Essa mi rivolge per prima la parola e subito mi piace. È bella, attraente, distinta, ben vestita e mi affascina con la sua spigliatezza d’artista. E’, in una parola, l’edizione di lusso di mia moglie, della quale rinnova la immagine, ingentilita e ingrandita.

Per farmi piacere, il decano della Latteria, che è un artista di grido, invita costei alle serate che egli dà ogni giovedì nel suo studio. Ci vado, ma mi tengo in disparte, perché sono restio a svelare i miei sentimenti ad un pubblico che si prende volentieri giuoco del prossimo.

Verso le undici lei si alza e mi fa un segreto cenno d’intesa. Io, piuttosto goffamente, mi levo, mi congedo, offro alla giovane donna la mia compagnia e la conduco fuori, mentre i giovani screanzati se la ridono.

Diventati ridicoli l’uno di fronte all’altra, ce ne andiamo senza saper proferire una parola; ci disprezziamo come se ci fossimo denudati davanti a quella moltitudine di beffeggiatori.

E adesso dobbiamo anche passare per la rue de la Gaieté dove lenoni e prostitute ci schiaffeggiano con le loro ingiurie triviali, quasi che noi fossimo degli intrusi nel loro commercio.

Non si è gentili quando si sta, pieni di stizza, alla berlina e, curvo come mi sento sotto quelle sferzate, non riesco a sollevarmi.

Quando raggiungiamo il boulevard Raspail ci sorprende una pioggia fine che ci percuote come con dei colpi di verga. Siccome siamo senza ombrello, l’unica cosa che si può fare è cercar riparo in un caffè tiepido e illuminato. Con un gesto da gran signore accenno il ristorante più lussuoso. Attraversiamo a passetti lievi il boulevard;… ahimè! Il pensiero che non ho in tasca un centesimo mi atterra come una martellata sul cranio.

Come mi sia tratto fuori da quell’impiccio io l’ho dimenticato. Non dimenticherò mai quel che ho provato dentro di me quando ebbi lasciata la donna sulla soglia della sua casa.

Benché dura e immediata, e inflitta da una mano avveduta che io non potevo non riconoscere, questa lezione non mi bastò. Ero un pezzente, ero un uomo che mancava al proprio dovere verso sua moglie e sua figlia, e avevo voluto allacciare una relazione che comprometteva una ragazza per bene. Questo era semplicemente delittuoso e così m’inflissi una congrua penitenza. Rinunciai al cenacolo della Latteria, digiunai, evitai tutto ciò che potesse rinfocolare quella perigliosa passione.

Ma il tentatore sta all’erta. Ad una serata di artisti ritrovo la mia bella, e proprio in un costume orientale che dà spicco alla sua bellezza e mi stordisce. Di fronte a lei non so che cosa dire; mi contengo goffamente e, sebbene mi avveda che a questa donna non si può fare che la dichiarazione onesta e sincera: «io vi desidero», me ne vado via, divorato fin dentro le ossa da una fiamma impura.

Il giorno appresso ritorno alla Latteria. Essa è là, affascinante; mi blandisce con la sua voce carezzevole, mi eccita con i suoi occhi di gatta. La conversazione si accende; tutto va a gonfie vele, quando, nel momento critico, irrompe rumorosa la giovane Minna. Costei era una figlia dell’arte, mezzo modella e mezzo etèra che s’interessava di letteratura, aveva un buon carattere, ed era simpatica a tutti. Anch’io la conoscevo e una sera eravamo diventati buoni amici, pur senza varcare i confini del lecito. Basta: essa entra, mi butta le braccia al collo, perché era anche un po’ brilla, mi bacia sulle guance, mi dà del tu.

L’inglese si alza, paga e se ne va.

Così tutto è finito.

Non tornò più.

Siano rese grazie a Minna che, del resto, già mi aveva messo in guardia contro quella donna per certi motivi che qui non è il caso di esporre.

Niente amore più! Questo è il destino segnatomi dalle Potenze, ed io mi arrendo, certo che anche in questo c’è un fine più alto, nascosto.

* * *

Incoraggiato dal buon successo ottenuto con lo zolfo, proseguo le mie esperienze con lo iodio. Dopo aver pubblicato nel Temps un articolo su di una delle sintesi iodiche, ricevo, in albergo, la visita di un signore sconosciuto. Si presenta come l’incaricato di tutte le fabbriche europee di iodio e ha or ora letto il mio articolo. Dice che, nel momento in cui la mia teoria sarà confermata, sarà possibile causare un crac di borsa il quale ci frutterà dei milioni, purché siamo in possesso di un brevetto.

Gli rispondo che non ho fatto un’invenzione di carattere industriale, ma semplicemente una scoperta scientifica, la quale non è ancora matura e che il lato affaristico non m’interessa al punto da indurmi ad occuparmene in modo particolare.

L’uomo se ne andò. La padrona dell’albergo, che già lo conosceva, apprese da lui la grande novità e, per un paio di giorni, io fui reputato un futuro milionario.

L’uomo d’affari tornò e, questa volta, più entusiasta di prima. Aveva assunto informazioni, si era convinto che, con la mia scoperta, c’era da guadagnare e, per sbrigare le pratiche necessarie, m’invitava a partire immediatamente per Berlino con lui.

Lo ringraziai, consigliandolo a far procedere alle opportune analisi, prima d’impegnarsi.

Egli mi offrì centomila franchi, pagabili prima di quella sera stessa, sol che avessi acconsentito a seguirlo.

Lo mandai via, fiutando qualche imbroglio.

Giù, dalla padrona, egli dichiarò che io ero un pazzo.

I giorni seguenti passarono tranquilli ed ebbi tempo di riflettere. Da una parte avevo la miseria che urgeva, i debiti da pagare, e un avvenire incerto; dall’altra parte l’indipendenza, la libertà di proseguire i miei studi e una vita senza affanni.