Ma come è possibile che non ci si riconosca, se Strindberg parla diffusamente di lui e della moglie come di due dei suoi persecutori parigini? Forse si è trattato di uno sfoggio di ironia, ma non sembra probabile, dato il tono della narrazione; può anche essere accaduto che, nella foga della auto-apologia, l’io narrante abbia smarrito per strada brandelli di credibilità. A noi, comunque, interessa altro.

Lo Strindberg che approda a Parigi è un uomo braccato. E’ in corso un processo contro di lui, il secondo, e le femministe scandinave lo crucifiggerebbero volentieri.

A Berlino, come afferma Marcel Réja, ha fatto uno spaventoso abuso di alcoolici. E’ malato di gastrite, ha incubi notturni, soffre di inguaribile insonnia. In più, ha subito rovesci economici, è uscito da una disastrosa esperienza coniugale e sta cercando, inutilmente, di salvare il suo secondo matrimonio. E, per finire, è stato suggestionato dall’amico/nemico polacco, il quale lo ha portato ad interessarsi dell’occultismo e gli ha addirittura prefigurato le sue sofferenze e le sue ossessioni quando gli ha descritto le atroci torture che «forze ignote» possono provocare, a distanza, all’odiata vittima.

Przybyszewski, insomma, è una delle chiavi per penetrare i segreti della vicenda esistenziale di Strindberg durante i suoi due terribili anni parigini. Ed è una chiave che lascia in disparte, per così dire, la tradizionale interpretazione secondo la quale Strindberg scrive Inferno per liberarsi delle sue turbe e della sua nevrosi, in una autoanalisi che è anche una esorcizzazione, e che fa pensare straordinariamente alla auto-analisi che Freud, dopo la morte del padre, avvenuta nell’ottobre 1896, inizia, nel luglio 1897. Il rapporto di Freud con il padre e «le problematiche irrisolte che gli erano sottese, finiscono per determinare la forma ed i risultati delle sue analisi cliniche», scrive Flavio Manieri nella sua introduzione all’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. E ancora: «All’inizio della sua auto-analisi la sua propria situazione traumatica cominciò, in fondo alla crisi, a fermentare attivamente, chiarificando con difficoltà le sue stesse dinamiche».

Strindberg comincia la sua autoanalisi nel maggio del 1897, scrivendo Inferno. In agosto è di nuovo a Parigi, dove scrive Leggende e La lotta di Giobbe, composizioni che sono la continuazione di Inferno: hanno infatti per sottotitolo Inferno II e Inferno III. Ma si tratta davvero di autoanalisi, di quel fermento servito a Freud per gettare le basi della sua scienza? Sia lecito avanzare qualche dubbio. La fermentazione strindberghiana sembra rispondere più ad un piano che ad una sorta di scrittura automatica liberatoria in stato di trance [4]. Il primo marzo 1897 Strindberg scriveva: «Il mio Inferno è pianificato, ne ho trovato la forma e ora mi metterò a scriverlo. Ad Majorem Dei Gloriam!». Ma fin dall’agosto del 1896 aveva scritto di voler comporre «un libro o un romanzo, chiamatelo come vi pare». E il 23 agosto torna sull’argomento: «Sarà un poema in prosa che narrerà la rovina di un individuo che ha voluto isolarsi dagli altri» [5]. Ma c’è di più: tanto per riportarci all’enigmatico Przybyszewski, Strindberg dichiara che si tratterà, sì di un memoriale, un diario dell’anima, senza pretese di stile - essendo scritti in francese, Inferno I e Inferno II non hanno infatti pretese di stile: alla correttezza penserà il francese Marcel Réja, mentre Inferno III comincia in francese e poi passa allo svedese - ma anche di un libro occulto, anzi, del primo libro occultista.

Insomma, ce n’è abbastanza per dubitare seriamente del documento umano scritto di getto come atto propiziatorio al ripristino del turbato equilibrio mentale. La pianificazione non è già un segno di razionalità? Lo Strindberg che scrive, in varie riprese, nel 1897, la trilogia di Inferno è già uno scrittore pacificato con se stesso. Ha superato la crisi depressiva che lo ha portato sull’orlo della follia, non è più un animo tormentato, ma usa la sua disastrata vicenda parigina per enfatizzarla in ben tre narrazioni e in una composizione drammatica, Till Damaskus (Verso Damasco), sorta di psicodramma dal sapore autobiografico ed effusivo che relata la crisi religiosa di Inferno ossia della lotta fra l’uomo ribelle e la imperscrutabile volontà divina. Lo Sconosciuti del dramma è, scopertamente, l’alter-ego di Strindberg stesso, mentre la Signora è trasparente ritratto di Frida, la seconda moglie, da cui lo scrittore ha ottenuto il divorzio nel 1897. L’anno dopo viene pubblicato Verso Damasco, ma le prove del dramma hanno inizio nel 1900. Per quella strana circolarità che ha fatto della vita di Strindberg una sorta di rebus a chiave incrociata, anzi, una sorta di sciarada concentrica, il ruolo di Frida viene interpretato da una giovane attrice di origine norvegese, Harriet Bosse, anni ventidue. La Bosse sarà la terza moglie di Strindberg. Dunque: Strindberg ha sposato nel 1877 un’attrice, Siri von Essen, che interpreta i suoi primi drammi, ed a cui dedica una lunga serie di lavori teatrali e di racconti. A Frida il drammaturgo si ispira per un’opera che sarà interpretata dalla futura terza moglie. Il cerchio si chiude, ma i cicli di Strindberg non sono eterni: il matrimonio con Harriet Bosse è del 1901, il divorzio è di tre anni dopo, del 1904.

Strindberg, come vuole ormai l’esegesi corrente, è scrittore autobiografico. Tutta la sua opera, in effetti, lo mostra. Ma è sincero? Si può parlare davvero, per lui, di «documenti umani», di autenticità? C’è da diffidare fortemente. Già sua figlia Karin Smirnoff, ne La prima moglie di Strindberg (Stoccolma, 1985) era certa che in Strindberg, sia pure a livello inconscio, dominasse la tendenza alla simulazione. E Siri von Essen, d’altro canto, in molte dichiarazioni aveva avanzato forti dubbi sulla autenticità dello scrittore.