La neve fioccava da far paura, e soffiava un vento così strapazzone, che lo gettò per due volte giù da cavallo. Venuta la notte, egli cominciò a credere di dover morire o di fame e di freddo, o divorato dai lupi, che si sentivano urlare a poca distanza.

Quando a un tratto, nel voltar l’occhio verso il fondo di una lunga sfilata d’alberi, vide una gran fiamma che pareva lontana lontana.

S’avviò da quella parte, e poté distinguere che quella luce usciva da un gran palazzo, che era tutto illuminato.

Il mercante ringraziò il cielo del soccorso mandatogli e si affrettò per giungere a questo castello; ma rimase grandemente stupito di non trovarci anima viva.

Il suo cavallo, che gli andava dietro, avendo visto una bella scuderia aperta, entrò dentro; e trovatovi fieno e biada, il povero animale, che moriva di fame, vi si buttò sopra con grandissima avidità.

Il mercante lo legò alla greppia: e s’avviò verso la casa, dove non trovò nessuno. Ma entrato che fu in una gran sala, vi trovò un bel fuoco acceso, una tavola apparecchiata e con molte pietanze: ma c’era una posata sola.

Essendo bagnato fino al midollo dell’ossa, per la neve e la molt’acqua che aveva preso, si avvicinò al fuoco per asciugarsi, dicendo fra sé: “Il padrone di casa e i suoi domestici mi scuseranno della libertà che mi prendo! Sono sicuro che staranno poco ad arrivare”.

Aspetta, aspetta e nessuno veniva: finché suonarono le undici e ancora non s’era visto alcuno. Allora non potendo più stare alle mosse, dalla gran fame prese un pollastro e, tremando dalla paura, lo mangiò in due bocconi.

Bevve anche qualche sorso di vino, e messo su un po’ di coraggio, uscì dalla sala e traversò molti quartieri splendidamente tappezzati e ammobiliati. Alla fine trovò una camera dove c’era un buon letto: e perché era mezzanotte suonata e si sentiva stanco morto, prese il partito di chiuder l’uscio e di coricarsi.

La mattina dopo si svegliò verso le dieci: e figuratevi come rimase, quando trovò un vestito molto decente nel posto dove aveva lasciato il suo, che era tutto logoro e cascava a pezzi.

“Si vede bene”, egli disse, “che in questo palazzo ci sta di casa qualche buona fata, che si è mossa a compassione di me.” Si affacciò alla finestra e non vide più un filo di neve, ma pergolati di bellissimi fiori, che innamoravano soltanto a guardarli.

Ritornò nella gran sala, dove la sera avanti aveva cenato e vide una piccola tavola, con sopra una chicchera e un vaso di cioccolata.

“Grazie tante”, diss’egli a voce alta, “grazie tante, signora fata, della garbatezza di aver pensato alla mia colazione.” Il buon uomo, quand’ebbe preso la cioccolata, uscì per andare dal suo cavallo; e passando sotto un pergolato di rose si ricordò che la Bella gliene aveva chiesta una, e staccò un tralcio dove ce n’erano parecchie bell’e sbocciate.

In quel punto stesso sentì un gran rumore e vide venirsi incontro una bestia così spaventosa, che ci corse poco non cascasse svenuto:

“Voi siete molto ingrato”, disse la Bestia con una voce da far rabbrividire, “vi ho salvata la vita accogliendovi nel mio castello, e in ricambio voi mi rubate le mie rose, che è per l’appunto la cosa che io amo soprattutto in questo mondo.

Per riparare al mal fatto non vi resta altro che morire: vi do tempo un quarto d’ora per chiedere perdono a Dio”.

Il mercante si gettò in ginocchio e a mani giunte prese a dire alla Bestia:

“Monsignore, perdonatemi: non credevo davvero di offendervi a cogliere una rosa

per una delle mie figlie, che me l’aveva domandata”.

“Non mi chiamo Monsignore”, rispose il mostro, “ma Bestia. I complimenti non fanno per me; io voglio che ognuno parli come la pensa: per cui non vi mettete in capo d’intenerirmi colle vostre moine. Mi avete detto che avete delle figliuole: ebbene, io potrò perdonarvi a patto che una di codeste figliuole venga qui a morire volontariamente nel posto vostro. Non una parola di più; partite, e caso le vostre figlie ricusassero di morire per voi, giurate che dentro tre mesi ritornerete.”

Quel pover’uomo non aveva punta intenzione di sacrificare alcuna delle sue figlie al brutto mostro, ma pensò dentro di sé: “Non foss’altro avrò almeno la consolazione di poterle abbracciare un’altra volta”.

Fece giuro di tornare, e la Bestia gli disse che poteva partire a piacer suo.

“Ma non voglio”, soggiunge, “che tu debba andartene colle mani vuote. Ritorna nella camera dove hai dormito; ci troverai un gran baule vuoto; ché io penserò a fartelo portare fino a casa.”

Detto questo, la Bestia se ne andò, e il buon uomo disse fra sé e sé: “Almeno, se ho da morire, potrò lasciare un boccon di pane a’ miei poveri ragazzi”.

E tornò nella camera dove aveva dormito, e avendovi trovato delle monete d’oro a corbellini, ne empì il baule, di cui gli aveva parlato la Bestia: quindi lo chiuse, e ripreso il cavallo lasciato nella scuderia, uscì dal palazzo con tanto malessere addosso, quanta era la gioia colla quale vi era entrato. Il cavallo prese da sé uno dei viottoli della foresta, e in poche ore il buon uomo arrivò alla sua casetta. I suoi figli gli furono tutti d’intorno: ma invece di mostrarsi lieto alle loro carezze, il mercante li guardava e gli cascavano i lacrimoni dagli occhi.