La Brughiera
I · LE TRE DONNE
UN VOLTO SU CUI IL TEMPO LASCIA BEN POCA TRACCIA
In un sabato pomeriggio di novembre stava calando il crepuscolo, e l’ampia distesa di terreno aperto e selvaggio nota col nome di brughiera di Egdon si veniva facendo ogni momento più scura. In alto, il curvo strato di nubi biancastre che nascondeva il cielo era come una tenda che avesse per pavimento tutta la brughiera.
La linea d’incontro tra il cielo velato da questo diffuso scialbo chiarore e la terra resa scurissima dalla vegetazione era nettamente segnata all’orizzonte. Il contrasto era tale che sulla brughiera sembrava ormai giunta la notte con un anticipo sul tempo astronomico: vi dominava la tenebra, mentre nel cielo ancora indugiava il giorno. Il paesano, intento a tagliare ginestra, guardando in alto sarebbe stato indotto a continuare nel suo lavoro; abbassando gli occhi a terra, avrebbe deciso di far su la sua fascina e tornarsene a casa. I margini lontani della terra e del firmamento sembravano segnare una divisione nel tempo oltre che nella materia. Semplicemente col suo colore, il volto della brughiera aggiungeva un’ora e mezzo alla sera; allo stesso modo poteva far ritardare l’alba, attenuare lo splendore del mezzogiorno, anticipare il cipiglio di temporali che raramente scoppiavano, e rendere più intensamente opaca una profonda notte senza luna, facendone una causa di sbigottito terrore.
In realtà, proprio in questo passeggero momento del crepuscolo in cui affondava nella tenebra, incominciava il grande e particolare splendore della landa di Egdon, e non poteva dir di comprenderlo chi non ci fosse stato mai in un momento simile. Meglio si poteva sentirlo, quando non lo si vedeva chiaramente, chè in quest’ora, e in quelle che sarebbero seguite prima dell’alba del giorno dopo, era possibile intenderne bene il significato e il valore: allora, e allora soltanto, si rivelava veramente. Il luogo aveva in realtà una stretta parentela con la notte e, quando la notte sopraggiungeva, appariva evidente la tendenza delle sue ombre a fondersi col paesaggio. La fosca distesa di montagnole e valloncelli pareva levarsi e muovere incontro all’ombra della sera, come rispondendo a un’intima affinità, e la terra esalava tenebra con lo stesso ritmo con cui la riversava il cielo. E così l’oscurità dell’aria e quella della terra si fondevano in una fraternità tenebrosa verso cui muovevano entrambe, incontrandosi a metà strada.
Vi si diffondeva ora un senso di vigile attenzione: chè, mentre le altre cose si immergevano, dormigliose, nel sonno, pareva che la brughiera si destasse lentamente mettendosi in ascolto. Si sarebbe detto che ogni notte la sua titanica forma attendesse qualcosa; ma aveva atteso così, immota, attraverso tanti secoli, attraverso le crisi di tante cose, che poteva ormai attendere un’ultima crisi soltanto: lo sconvolgimento finale.
Era un luogo che, alla memoria di quanti l’amavano, ritornava con un carattere di singolare, affettuosa rispondenza. Raramente questo accade di campagne ridenti, ricche di fiori e di frutti, in permanente armonia soltanto con un’esistenza più idonea della presente ad affrontare i propri problemi. Dalla fusione del crepuscolo col paesaggio della brughiera di Egdon nasceva qualcosa di maestoso ma non scostante, che colpiva ma senza ostentazione, vigoroso nei suoi richiami, grandioso nella sua semplicità. Le qualità che danno spesso alla facciata d’una prigione una dignità maggiore di quella che si trova nella facciata d’un palazzo grande il doppio rivestivano questa brughiera d’un che di sublime di cui sono affatto privi luoghi rinomati per una più ovvia bellezza. Visioni serene felicemente si sposano con tempi sereni: ma guai se i tempi non sono tali! Gli uomini soffrono assai più spesso per l’ironia di un luogo troppo ridente che per l’oppressione di ambienti grevi di malinconia. La tetra brughiera di Egdon sollecitava un istinto più sottile e più raro, una sensibilità appresa più di recente di quelli che rispondono al tipo di bellezza definito affascinante e grazioso.
In realtà, ci si può chiedere se il segno esclusivo di questo tipo ortodosso di bellezza non stia avvicinandosi alla fine. Nell’ultima Thule, la nuova Valle di Tempe sarà forse una squallida landa deserta; forse gli spiriti umani si scopriranno in sempre più intima armonia con cose del cui aspetto aspro e tetro la nostra razza, quand’era giovane, sarebbe inorridita. Sembra avvicinarsi il tempo, se pur già non è giunto, in cui soltanto la sobria sublimità d’una landa, d’un mare o d’una montagna s’intonerà in modo assoluto allo stato d’animo dei più pensosi tra gli esseri umani. E potrà accadere che, anche per il viaggiatore più comune, luoghi come l’Islanda divengano quel che sono ora per lui le vigne e i giardini fioriti di mirto dell’Europa del sud; e che passi per Heidelberg e Baden senza neanche fermarvisi, mentre dalle Alpi si affretta verso le dune di sabbia di Scheveningen.
Anche lo spirito più profondamente ascetico sentiva di avere un diritto naturale a vagare per la brughiera di Egdon; non varcava i limiti d’una legittima indulgenza esponendosi alla sua influenza. Godere di colori e di bellezze così modesti e attenuati era lecito a tutti. Soltanto nelle giornate estive più splendide, la brughiera arrivava ad assumere un aspetto quasi gaio. Conseguiva la sua massima intensità col solenne più che col brillante, e soprattutto durante il buio, le tempeste e le nebbie invernali. La brughiera allora si destava, e rispondeva al temporale suo amante, al vento suo amico. Strani fantasmi l’abitavano; e pareva rivelarvisi il modello finora ignoto di quelle fantastiche zone d’ombra da cui abbiamo la vaga sensazione d’essere circondati nei nostri sogni notturni popolati di fughe e d’incubi, e a cui non pensiamo più, dopo il sogno, finchè non ce le richiamano alla memoria simili spettacoli.
In quest’ora crepuscolare, la brughiera s’intonava in modo perfetto alla natura dell’uomo; non era spettrale, nè paurosa, nè orrida; ma non banale nè insignificante e neanche artefatta; come l’uomo, negletta e paziente, e al tempo stesso gigantesca e misteriosa nella sua tetra monotonia. Come accade in persone vissute a lungo isolate, un senso di solitudine pareva emanare dal suo volto. E quel volto faceva pensare a tragiche possibilità.
Questo remoto, arcaico, quasi dimenticato paese, figura nel libro del Doomsday. Ve lo si descrive, col nome di «Bruaria», come una zona deserta e non coltivata, piena d’erica, di ginestra e di rovi. Se ne definiscono la lunghezza e la larghezza in leghe; e, pur rimanendo alquanto incerta la precisa entità di questa misura lineare, si direbbe, a giudicare dalle cifre, che l’area di Egdon sia assai poco diminuita da allora. Nei documenti dell’epoca si trova il termine «Turbaria Bruaria», che indica il diritto di tagliarvi la vegetazione. «Coperto di ginestra e di felci,» dice il Leland, parlando di quest’oscuro tratto di terra.
Qui se non altro si potevano intendere certi aspetti del paesaggio, leggendone la storia e trovandovene le prove più esaurienti.
1 comment