Voleva il governo di una provincia, una principessa della corte in sposa, il suo peso in oro e pietre preziose?

— No — rispose l’uomo. — Voglio del riso. Una certa quantità di riso.

Il califfo si stupì di tanta moderazione. Ma qual era la quantità di riso che richiedeva?

— Quella indicata dalla scacchiera stessa — rispose lo sconosciuto. — Ovvero un chicco nella prima casella, due nella seconda, quattro nella terza, otto nella quarta, e così via, raddoppiando ogni volta fino alla sessantaquattresima casella.

Il califfo ordinò subito ai suoi contabili di calcolare il numero di chicchi così totalizzato. Grande fu la sua sorpresa quando quegli esperti chiesero non meno di otto giorni per effettuare il calcolo. E fu ancora più grande quando seppe che i chicchi così ottenuti equivalevano alla raccolta totale del suo regno per la durata di un secolo.

Faber aveva ascoltato questa leggenda con le sopracciglia aggrottate, sospettando che si sarebbe conclusa con qualche trappola degna di Porcaro.

— E qual è, dunque, la cifra esatta? — domandò.

Il frate levò le braccia al cielo. Non era un matematico, e Faber sarebbe stato ben più bravo di lui nel determinarla.

— Ma vedete — aggiunse, — questa storia somiglia dannatamente alla teoria dell’atavismo di cui parlavamo poc’anzi. Infatti il numero dei nostri genitori raddoppia a ogni generazione, proprio come quello dei chicchi di riso su ogni casella.

E, contando cinque generazioni per secolo, le sessantaquattro caselle della scacchiera corrisponderebbero a meno di tredici secoli, che non è davvero una durata vertiginosa.

Faber si mise al lavoro quella sera stessa. Calcolò per buona parte della notte.

Il cielo schiariva a oriente quando arrivò al numero formidabile di 18.446.744.073.709.551.615.

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4.

Una strana partita a scacchi

Sarebbe stato sicuramente meglio per il morale degli assediati dover respingere l’assalto degli inglesi o meglio ancora tentare delle sortite per distruggere la loro opera di avvicinamento, gallerie sotterranee, circonvallazioni, trincee o carreggiate destinate alle torri d’assalto. Ma gli inglesi non facevano niente, e i francesi sprofondavano in una inoperosità deprimente. Il razionamento dei viveri era gravemente compromesso dai traffici illeciti e dalla corruzione. Si erano scoperti gravi furti nei granai e nelle cantine dov’erano ammassati tutti i viveri della città. Si era fustigato in pubblico un intendente colpevole di malversazione. Ma Faber tremava all’idea che un giorno o l’altro anche il suo stesso figliolo, quell’insopportabile Lucio, potesse essere implicato in qualche brutta faccenda.

Come avrebbe conciliato, allora, il suo amore paterno con la responsabilità morale di fronte al conte e alla popolazione?

Quella popolazione si stava stancando dell’assedio e propendeva per una resa pura e semplice agli inglesi. Le sole cose che ancora la frenavano erano le storie che trapelavano, non si sa bene come, sulle atrocità commesse dalla soldataglia nei cascinali isolati e nei gruppi di casolari vicini.

L’ardente desiderio di vedere la fine dell’assedio si era concretato in un oggetto bislacco, frutto di un’usanza che si perdeva nella notte dei tempi: la corona ossidionale. Era un serto vegetale che ricordava la corona di spine del Cristo ed era simbolo dello stato miserevole degli assediati.