Secondo la tradizione, era composta di male erbe che crescevano nei cortili e sui bastioni cittadini. Faber l’aveva scoperta ai piedi di una statua di san Giorgio nella cappella del castello. Riconobbe fra i gambi rozzamente intrecciati, oltre a rovi e ortiche, i fiori austeri della borragine, piante di sassifraga – ovvero “spaccasasso” perché demolisce i tetti e i pavimenti delle terrazze
– le foglie scabre e pelose del giusquiamo – detto anche “erba dei ruderi” – e infine un piede di elleboro nero le cui “rose di Natale” avrebbero forse, di lì a qualche settimana, dato un tocco di dolcezza a quella composizione arida fino allo scherno.
La corona ossidionale aspettava in ogni città cinta d’assedio la festa della liberazione.
Doveva ricompensare colui o colei che avesse più contribuito alla cacciata dell’assediante.
Faber trovò per contro grande conforto nel ritorno di uno dei messi da lui sguinzagliati in alcune città famose per le loro armerie allo scopo di saperne di più su certe bocche da fuoco leggere inventate di recente. L’uomo portava con sé dalla città di Torino un mastro cannoniere e, insieme, recavano, nascosto in un rotolo di tessuto, un oggetto bislungo che doveva pesare quanto un bambino di cinque anni.
15
Era una delle prime colubrine, cannoni in miniatura di una maneggevolezza fino allora sconosciuta, un “cannone a mano” per il cui uso bastavano due uomini.
L’indomani stesso, quel gioiello dell’armamento piemontese veniva presentato ai membri della cellula d’assedio. Il mastro cannoniere spiegò che, oltre alla leggerezza, la colubrina offriva il vantaggio rivoluzionario di venire caricata non dalla parte posteriore (la culatta) – sistema che fa perdere un’enorme quantità di gas – ma dalla bocca. Il problema dell’accensione era risolto grazie a una “luce”, piccolo orifizio da cui usciva una miccia o nel quale s’introduceva un ferro rovente. Il cannone poteva essere fissato a un vomero di legno che poggiava sulla spalla del tiratore, ma un complesso di staffe permetteva anche di collocare l’arma fra un merlo e l’altro. I proietti di piombo erano grossi quanto un pollice e avevano forma di cilindro appuntito a un’estremità.
Ciò che più entusiasmava Faber erano la precisione e la rapidità di tiro assicurate dal mastro piemontese. Si era dunque in possesso della risposta ideale al terribile pericolo che le grosse bombarde facevano correre alla città assediata. Il grande scudo di legno che metteva i serventi della bombarda al riparo dalle frecce degli archi e delle balestre sarebbe stato trapassato e demolito dai proietti della colubrina ancor prima che la bombarda potesse sparare un solo colpo.
Faber non si stancava di accarezzare e di soppesare l’arma elegante e liscia, costruita in ferro forgiato. Notò infine un marchio di fabbrica: una minuscola scacchiera di sessantaquattro caselle incisa sul metallo. Il riferimento al gioco non soggetto al caso su quell’arma di precisione lo colmò di contentezza.
Quella stessa sera, la colubrina venne fissata mediante le staffe sui merli, di fronte al campo inglese di cui si scorgevano le cime appuntite delle tende.
Quel mercoledì, Faber si presentò all’ingresso del campo inglese, accompagnato da Orlando e da un servo che trasportavano lo specchio avvolto in un telo. Erano seguiti da un quarto uomo.
Era don Porcaro, nominato per l’occasione arbitro dell’incontro. Non potendo fidarsi degli inglesi, trasportava in un bauletto piatto la scacchiera e i trentadue pezzi fabbricati su indicazione di Faber da un ebanista di Cléricourt.
I quattro uomini vennero fatti entrare in una prima tenda militare che sembrava un’anticamera, e subito dopo un arciere avvertì Faber che il comandante lo attendeva nella sua stewhouse.
Faber lo seguì senza capire e fu sorpreso nel trovarsi di punto in bianco avvolto da vapori attraversati da ruggiti di benvenuto. Era una vera e propria stanza per bagni di vapore, con un forno in mattoni refrattari e un’enorme tinozza fumante. Avvicinatosi, Faber distinse Exmoor che ci sguazzava dentro, nudo come un dio Sileno.
— Torno dalla caccia — disse. — Ho ucciso un cinghiale e sei lepri.
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