Poté esaminare con tutto comodo quelle bocche da fuoco di ferro forgiato che venivano caricate di polvere nera dalla culatta. Si evitava –
per i rischi di esplosione – di immagazzinare la polvere, e la si fabbricava sul posto giorno per giorno. Faber annotò mentalmente le proporzioni di salnitro (75%), di zolfo (12,5%) e di carbone di frangola che la componevano. Osservò il funzionamento delle presse idrauliche che agglomeravano il miscuglio in panetti destinati poi a essere tagliati e lisciati. I proietti erano sfere di ghisa che avevano sostituito le prime palle di pietra e i trifax, sorta di frecce gigantesche. In confronto alle catapulte che lanciavano più o meno a caso sassi e fuochi greci, il progresso apportato dalle bombarde era notevole. La traiettoria rettilinea dei proietti consentiva in teoria una certa mira. Ma Faber perse l’entusiasmo non appena vide quelle armi da fuoco in azione. La deflagrazione terrificante, il rinculo violento e i rischi di esplosione dell’intero pezzo trasformavano ogni colpo in un’avventura che escludeva visibilmente ogni calcolo da parte dei serventi. Si sparava in direzione del nemico, senza ulteriore determinatezza. E, come sempre, questa predominanza del caso dava immancabilmente luogo alle più rozze superstizioni. Il 24 ottobre, un proietto sparato dagli orleanesi decapitò il conte di Salisbury, capo degli inglesi. Subito circolò una 5
leggenda: il colpo doveva essere partito dalla torre dei bastioni chiamata Notre-Dame, vendicando a quel modo la distruzione da parte dell’inglese di Notre-Dame di Cléry. Faber redarguì severamente Orlando che gli riferiva quelle fandonie come se ci credesse davvero.
Decise di tornare a Cléricourt. Quando arrivò nei pressi della fortezza, dovette constatare che era stata assalita da un esercito eterogeneo di borgognoni e di inglesi.
Tutta quella bella gente era sotto il comando di un conte di Exmoor che doveva aver previsto un soggiorno alquanto prolungato in quel luogo, a giudicare dall’opulenza e dalle comodità del suo campo.
Faber e il suo compagno si diressero nottetempo verso un boschetto – la Combe-aux-Geais – dove, in una cava di sabbia abbandonata, si apriva una galleria che portava nei sotterranei del castello. Non ebbe difficoltà, pronunciando il proprio nome, a farsi aprire la porta blindata che dava accesso alla scala della torre orientale.
Al castello, grande fu il sollievo nel vederlo tornare, dato che si era temuto il peggio per il suo compagno e per lui. Faber si ritirò subito con il conte Hervé per esaminare la situazione. Lo mise al corrente di quanto aveva appreso circa le nuove armi. Da quel canto, il pericolo non sembrava immediato. Pareva però che Exmoor non avesse alcuna fretta, e nessuno ignorava che un posto assediato finisce presto o tardi col cadere se non riceve soccorsi dall’esterno. Ora, nel futuro imminente, non c’era da sperare in alcun alleato vicino o lontano. Bisognava organizzarsi per resistere per tutto l’inverno. Il conte decise che, ogni mattina, si sarebbe riunita sotto la sua presidenza una cellula d’assedio comprendente, oltre a Faber, l’abate Porcaro, Maclou, l’intendente cui aveva affidato la cura delle scorte di viveri, il capitano Fulgence, incaricato della difesa militare della cittadella e il siniscalco Vigile responsabile dell’ordine presso la popolazione civile. Non esistendo più separazione, in simile circostanza, fra esercito e polizia, Fulgence doveva mettere i suoi uomini al servizio delle decisioni di Vigile. D’altro canto, bisognava sforzarsi di condurre un’esistenza normale nonostante l’assedio: l’artigiano doveva attendere alla bisogna nella sua officina, il bambino allo studio a scuola e il frate alle devozioni nella prioria.
La prima riunione fu dedicata al censimento degli uomini in grado di battersi e all’inventario delle armi in dotazione alla guarnigione e di quelle che i civili avevano depositato per ordine del conte nei magazzini della Bretèche.
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