Ci si rese subito conto che c’erano frecce a sufficienza, ma che i verrettoni da balestra erano oltremodo scarsi: grave carenza, giacché si trattava dell’arma più efficace per la difesa di un presidio. Nulla di sorprendente, d’altronde, dato che la freccia era ancora un dardo da dilettante, da civile, da cacciatore, mentre la balestra era un’arma da guerra professionale.
Gli assediati di Cléricourt facevano per la prima volta la conoscenza della costrizione per eccellenza dell’assedio: l’impossibilità di procurarsi ciò di cui si ha bisogno o di sostituire quanto è stato utilizzato. La sentirono con durezza ancora 6
maggiore allorché dovettero stendere un piano di razionamento alimentare. Essendo le scorte di viveri quello che erano, la loro giudiziosa spartizione fra gli ottocentotredici abitanti della cittadella doveva garantire la sopravvivenza di tutti per i cento giorni che ancora mancavano alla fine dell’anno. Dopodiché… ci assista Iddio!
Porcaro, aiutato dai frati della prioria, s’incaricò della preparazione di ottantunomilatrecento buoni da distribuire in ragione di uno al giorno per ogni abitante.
Tutta questa regolamentazione procurava a Faber un intimo soddisfacimento.
«Bonus, bonum, buonuomo» recitava fra sé sottovoce. «Come bontà, buonumore, buongiorno». Gli pareva che la rigorosa e giusta semplicità del sistema implicasse necessariamente gioia dell’animo e sanità di corpo. L’uguaglianza delle parti cancellava le differenze di patrimonio o di classe sociale. La sola idea di rispettare lui per primo scrupolosamente il regime imposto dal razionamento lo rallegrava. Quando la cellula d’assedio prescrisse in seguito un’ora per il risveglio, un coprifuoco e una mezza giornata di riposo settimanale, ebbe la sensazione esaltante di essere l’orologiaio di un immenso meccanismo, la cittadella stessa, sottomesso a un movimento che escludeva il caso e gli sbalzi d’umore.
Nulla nel diritto feudale costringeva il conte di Exmoor a partecipare alla campagna francese dell’esercito di Salisbury. La sua indipendenza nei confronti del duca di Bedford – reggente del regno d’Inghilterra fino a quando il re Enrico VI non avesse raggiunto la maggior età – faceva di lui niente di più di un alleato brillante, e del suo seguito una forza d’appoggio non trascurabile. Ma egli era soprattutto l’amico personale del capitano John Falstaff, reggente di Normandia e governatore del Maine e di Angiò per il re d’Inghilterra. Ammirava e imitava lo stile signorile di Falstaff, il suo appetito da orco, la sua compagnia chiassosa, al punto che capitava che lo scambiassero per lui, e niente allora lo allietava di più. Nel momento in cui l’esercito inglese investiva l’orleanese, Falstaff aveva detto a Exmoor: «Ti concedo Cléricourt.
Prenditi questo presidio riottoso e diventa conte di Cléricourt al servizio del nostro re Enrico». Ma Exmoor aveva dovuto temperare il suo ardore bellicoso valutando l’altezza delle mura, la profondità dei fossati e la determinazione della gente che li difendeva. Aveva innalzato la sua sontuosa tenda di gala alla giusta distanza, per non dover temere qualche verrettone di balestra partito da una saettiera, e soprattutto si era sistemato nel borgo prossimo a Boisrenard la cui locanda era sempre stipata di ufficiali e intendenti inglesi. Poi la vita si era organizzata e aveva preso una piega tranquilla fatta di sbevazzate, di chiacchiere, di partite a dadi e, di quando in quando, anche di qualche scaramuccia con dei soldati sbandati del campo avverso. Exmoor organizzava partite di caccia nelle brughiere e negli stagni di Sologne, feste in belle dimore dei dintorni occupate dai suoi simili, e gare di tiro con l’arco, gioco nazionale inglese. Percorreva il territorio in una sontuosa carrozza, sicuramente rubata in qualche castello vicino, e i contadini guardavano passare sgomenti quell’enorme personaggio incipriato, ricciuto, gallonato e ingioiellato come un idolo.
Faber sapeva tutto della personalità e delle abitudini di Exmoor, nel quale aveva ravvisato il suo esatto contrario. Non c’era niente che detestasse quanto quel tipo di personaggio, beone, arruffone e pomposo nel quale – lo sapeva – la sua freddezza e la sua austerità suscitavano reazioni aggressive. Al contempo, si rallegrava che il 7
destino gli offrisse quel tipo d’uomo quale avversario. «Il leone e il gufo» pensava superbamente, e confidava nel fatto che l’uccello di Minerva, silenzioso, notturno e riflessivo, avrebbe infine avuto la meglio su quella grossa belva vanitosa e sbraitona.
Qualche stridore, nondimeno, non tardò a farsi sentire nella bella orologeria che egli aveva tanto felicemente contribuito a costruire. I primi disordini si manifestarono nella suddivisione delle razioni alimentari.
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