Poi la vita si era organizzata e aveva preso una piega tranquilla fatta di sbevazzate, di chiacchiere, di partite a dadi e, di quando in quando, anche di qualche scaramuccia con dei soldati sbandati del campo avverso. Exmoor organizzava partite di caccia nelle brughiere e negli stagni di Sologne, feste in belle dimore dei dintorni occupate dai suoi simili, e gare di tiro con l’arco, gioco nazionale inglese. Percorreva il territorio in una sontuosa carrozza, sicuramente rubata in qualche castello vicino, e i contadini guardavano passare sgomenti quell’enorme personaggio incipriato, ricciuto, gallonato e ingioiellato come un idolo.
Faber sapeva tutto della personalità e delle abitudini di Exmoor, nel quale aveva ravvisato il suo esatto contrario. Non c’era niente che detestasse quanto quel tipo di personaggio, beone, arruffone e pomposo nel quale – lo sapeva – la sua freddezza e la sua austerità suscitavano reazioni aggressive. Al contempo, si rallegrava che il 7
destino gli offrisse quel tipo d’uomo quale avversario. «Il leone e il gufo» pensava superbamente, e confidava nel fatto che l’uccello di Minerva, silenzioso, notturno e riflessivo, avrebbe infine avuto la meglio su quella grossa belva vanitosa e sbraitona.
Qualche stridore, nondimeno, non tardò a farsi sentire nella bella orologeria che egli aveva tanto felicemente contribuito a costruire. I primi disordini si manifestarono nella suddivisione delle razioni alimentari. I buoni-viveri venivano distribuiti ogni dieci giorni. Ora, accadde che, nelle prime settimane, alcuni gruppi o famiglie se la spassassero un mondo bevendo e festeggiando per notti intere dietro le porte chiuse, mentre altri sembravano ridotti alla fame, al punto che i bambini mendicavano il pane nei vicoli della cittadella. Faber, sulle prime, pensò che gli uni avessero venduto a peso d’oro le loro razioni agli altri.
Non sarebbe stato un gran male giacché in tal caso avrebbero percepito, per così dire, il loro “salario di fame”. Ahimè, la verità era peggiore. Bisognò arrendersi all’evidenza: la passione del gioco si era diffusa nella popolazione, e pochi erano coloro che ne restavano immuni. Si giocava a tutte le ore e in ogni luogo, ma soprattutto dopo il coprifuoco in alcuni locali trasformati in bische, dalle cui imposte sbarrate usciva il ruggito degli alterchi e delle risse.
Messo al corrente di tali disordini, il conte pensò di prendere dei provvedimenti di polizia: incursioni armate nelle bische, confisca dei dadi e delle puntate, punizione dei giocatori. Faber lo pregò di desistere. La sola repressione non avrebbe guarito il male di cui soffriva la popolazione. Per sopperire al bisogno di rischio cui risponde la passione del gioco, era preferibile sostituire l’ignoranza e il culto della sorte con la conoscenza. La guarigione attraverso lo spirito: Faber non conosceva altra via. Che fare, dunque, nel caso in questione? Tentare di sostituire ai dadi, gioco di pura fortuna, un altro gioco, di pura intelligenza, che non lasciasse niente al caso. Infatti se le carte, per esempio, si basano su una padronanza intelligente delle regole del gioco, ciò non toglie che ogni partita abbia inizio con una distribuzione che, invece, sottostà al puro caso. Faber raccomandava che si diffondesse in città il solo gioco al mondo non soggetto al caso, quello degli scacchi, che egli aveva appreso durante il soggiorno veneziano e che era stato portato in quella città – si diceva – da Marco Polo al ritorno dalla Cina. E Faber posò sul tavolo della cellula d’assedio una scacchiera con i trentadue pezzi e volle iniziare seduta stante i suoi compagni a quel re dei giochi che è anche il gioco dei re. Tutti vi si applicarono con ardore. Non potevano non apprezzare il sottile rapporto che esiste fra le regole degli scacchi e quelle della vita di corte. Che le torri si spostassero orizzontalmente e verticalmente travolgendo tutto al loro passaggio. Che i cavalli saltassero tutti gli ostacoli. Che gli alfieri corressero per vie oblique.
1 comment