Privato della sua criniera dorata –
che gli conferiva una potenza e un’innocenza leonine – la testa di Exmoor apparve nella sua oscena nudità, faccia rubiconda e triste i cui occhioni malinconici nuotavano nelle lacrime.
I convitati avevano fatto silenzio, come se assistessero a una scena abituale di cui conoscevano l’importanza e lo svolgimento. Exmoor fissava la sua parrucca con tale insistenza che riusciva a trasmetterle una sorta di vita fittizia. D’un tratto Faber non credette alle proprie orecchie. Una vocina stridula e imperiosa usciva dalla parrucca.
Diceva: — Johnny, non hai fiducia! Ti preoccupi. Sei troppo fortunato al gioco!
— È vero — rispose Exmoor. — Troppa fortuna ai dadi è di cattivo augurio.
Ciascuno di noi possiede soltanto una certa quantità di fortuna. Se la sprechiamo per una manciata di scudi, non ce ne resta più per le grandi cose. Un soldato in guerra dovrebbe rallegrarsi di soffrire di reumatismi, di essere ingannato dalla moglie o di perdersi il soldo ai dadi. Ciascuna delle sue disavventure sarà un passo verso la vittoria delle sue armi.
— Povero pallone sgonfio! — disse con un sogghigno la parrucca. — Sbrigati a rimettermi sulla tua testa. Sei come Sansone, la tua forza è nella capigliatura. Con me, sei il beniamino della fortuna. Puoi vincere impunemente al gioco e poi vincere battaglie. Perché gli uomini, secondo te, portano la parrucca? Per proteggersi dalla pioggia del cielo o dalle cacche degli uccelli?
Exmoor aveva teso una mano stanca verso la parrucca. Se ne impossessò e se la rimise in testa. Poi, scosso da una sorta di trance collerica, colpì il tavolo con un pugno che fece sussultare coppe e caraffe.
— For God’s sake, messer veneziano, che osservate da un’ora Exmoor, re dei ventriloqui, sapete cos’era in realtà il Vello d’Oro che Giasone e i suoi Argonauti sono andati a cercare in Colchide? Era una parrucca, messer veneziano, era la mia parrucca, la linguacciuta che mi strapazza non appena me ne separo! Ebbe’, vi sfido ai dadi, messer veneziano. Mettete sul tavolo la posta che vi aggrada e chiedetemi 11
quel che volete. E tu, Sylvain, portami del vino e il mio calice di Murano per mostrare al messere che, pur non essendo veneziani, beviamo comunque nel cristallo.
Faber si era sorpreso nel sentirsi di punto in bianco interpellare da Exmoor mentre pensava di passare inosservato nella folla e nel rumore. A quel diavolo d’uomo non sfuggiva niente! Faber guardava ammaliato quella faccia bovina vezzosamente ornata di ricciolini e tirabaci, quel collo taurino che emergeva da una gorgiera di mussola e di pizzo. Exmoor sorvegliava Sylvain che aveva tratto da un bauletto un calice di cristallo azzurrino e lo posava rispettosamente davanti a lui, ma lanciava ogni tanto occhiate furiose in direzione di Faber, e, quasi leggendo nei suoi pensieri, tornò a interpellarlo.
— Mi trovate ridicolo, eh? Ebbe’, messer veneziano, è perché giudicate da plebeo quale siete! E infatti il ridicolo vi ucciderebbe all’istante, se vi concedeste un quarto di decimo delle civetterie di cui rivesto il mio superbo grugno. Il più piccolo fronzolo, manderebbe a gambe all’aria la vostra persona di cacazibetto sormontata da quella faccia di barbagianni. Mentre io, sacripante, grazie ai miei sedici quarti di nobiltà, potrei piantarmi sul culo il pennacchio di piume che ondeggia sul mio elmo senza suscitare nei miei soldati altro che un di più di venerazione.
S’interruppe per vuotare il calice che Sylvain aveva riempito.
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