Mettete sul tavolo la posta che vi aggrada e chiedetemi 11

quel che volete. E tu, Sylvain, portami del vino e il mio calice di Murano per mostrare al messere che, pur non essendo veneziani, beviamo comunque nel cristallo.

Faber si era sorpreso nel sentirsi di punto in bianco interpellare da Exmoor mentre pensava di passare inosservato nella folla e nel rumore. A quel diavolo d’uomo non sfuggiva niente! Faber guardava ammaliato quella faccia bovina vezzosamente ornata di ricciolini e tirabaci, quel collo taurino che emergeva da una gorgiera di mussola e di pizzo. Exmoor sorvegliava Sylvain che aveva tratto da un bauletto un calice di cristallo azzurrino e lo posava rispettosamente davanti a lui, ma lanciava ogni tanto occhiate furiose in direzione di Faber, e, quasi leggendo nei suoi pensieri, tornò a interpellarlo.

— Mi trovate ridicolo, eh? Ebbe’, messer veneziano, è perché giudicate da plebeo quale siete! E infatti il ridicolo vi ucciderebbe all’istante, se vi concedeste un quarto di decimo delle civetterie di cui rivesto il mio superbo grugno. Il più piccolo fronzolo, manderebbe a gambe all’aria la vostra persona di cacazibetto sormontata da quella faccia di barbagianni. Mentre io, sacripante, grazie ai miei sedici quarti di nobiltà, potrei piantarmi sul culo il pennacchio di piume che ondeggia sul mio elmo senza suscitare nei miei soldati altro che un di più di venerazione.

S’interruppe per vuotare il calice che Sylvain aveva riempito. Faber ne approfittò per alzarsi e avvicinarsi alla sua poltrona.

— Conte Exmoor — gli disse, — non ho mai nascosto le mie origini plebee, giacché non me ne vergogno. È vero che mio padre era mastro ebanista e mia madre figlia di un artigiano della stessa corporazione. Mi hanno insegnato a rispettare la nobiltà, e non mi frulla nemmeno per il capo l’idea di ridere di voi, checché facciate di sorprendente. Ma mi sono dedicato allo studio e ho il culto dell’intelligenza. Mi proponete di giocare contro di voi a dadi, e io vi chiedo quel mirabile calice contro una posta di valore non certo inferiore. Si tratta di uno specchio pure veneziano, uno specchio bombato del tipo sorcière che vi darà un’immagine di voi stesso quanto mai esorbitante.

— Sta bene — borbottò Exmoor, — metto in palio il mio calice. Fate portare il vostro specchio; la vedremo!

— Conte Exmoor — riprese Faber, — non è possibile in questo momento. Abito molto lontano da qui e il mio specchio non è una cosuccia da niente. Possiamo rinviare la nostra partita di tre giorni?

— Vada per mercoledì, ma allora al campo, nella mia tenda, dopo il calar del sole

— rispose Exmoor visibilmente stizzito.

— Ancora una richiesta — insistette Faber. — Non ho molta simpatia per i dadi, un gioco dove – mi pare – conta molto il caso. Vi propongo di misurarci agli scacchi, il gioco dei re e il re dei giochi, nel quale impera soltanto l’intelligenza.

— Ai dadi, agli scacchi, a tutto quello che volete! — sbottò Exmoor. — Si è mai visto un simile cacadubbi? E adesso consentitemi di mandare in rovina definitiva tutto il mio stato maggiore!

E, scuotendolo, brandiva il bossolo dei dadi.

12

Faber si era sforzato di tenere segreta la sua scappata a Boisrenard. Perché creare problemi e dare un cattivo esempio che Lucio sarebbe stato più che felice di seguire?

Ma Porcaro doveva sapere il fatto suo, perché una sera affrontò Faber in questi termini:

— Sapete, mio buon amico, che secondo la tradizione ellenica sarebbe stato un certo Palamede a inventare i vostri amati scacchi per distrarre i greci durante l’assedio di Troia? Un tipo davvero strambo, quel Palamede. Si era fatto nemico mortale Ulisse costringendolo a prender parte alla spedizione dei greci contro Troia.

Per non partire, Ulisse si fingeva pazzo arando la spiaggia e seminandovi sale.

Graziosissimo amalgama, fra parentesi, di pesca e agricoltura.