Ora, la natura delle riflessioni della baronessa e le sue lagrime, dopo la partenza di Crevel, si comprendono perfettamente. Da due anni, la povera donna sapeva di essere nel fondo di un abisso, ma credeva di esservi lei sola.

Ignorava come si fosse arrivati al matrimonio di suo figlio, ignorava la relazione di Hector con l’avida Josépha; infine sperava che nessuno al mondo conoscesse i duoi dolori: perché se Crevel parlava in modo così disinvolto delle dissolutezze del barone, Hector avrebbe perso il suo buon nome. Nei discorsi volgari dell’ex profumiere irritato ella intravedeva l’odiosa complicità alla quale era dovuto il matrimonio del giovane avvocato. Due ragazze perdute erano state le sacerdotesse di quelle nozze, proposte in qualche orgia in mezzo a degradanti familiarità di due vecchi ubriachi!

«Egli dunque dimentica Hortense!» si disse, «eppure la vede tutti i giorni; le cercherà forse un marito in casa di quelle sue donnacce?»

In quel momento era la madre, più che la moglie, a parlare, poiché vedeva Hortense ridere con sua cugina Bette di quel folle riso della giovinezza spensierata; ed ella sapeva come quelle risa nervose fossero indizi non meno terribili di certe meste fantasticherie durante le solitarie passeggiate in giardino.

Hortense rassomigliava a sua madre, ma aveva dei capelli d’oro, naturalmente ondulati e così fluenti da incantare. Il suo splendore era quello della madreperla. In lei si vedeva bene il frutto di una onesta unione, di un amore nobile e puro in tutta la sua forza. Vi era una vivacità ardente nella sua fisionomia, una gaiezza nei suoi tratti, uno slancio di giovinezza, una freschezza di vita, una pienezza di salute che le si irradiavano intorno come vibrazioni elettriche. Hortense attirava lo sguardo. Quando i suoi occhi di un azzurro oltremare, nuotanti in quel fluido che in essi versa l’innocenza, si fermavano su un passante, questi trasaliva involontariamente. Peraltro, nemmeno una di quelle macchie di rossore che fanno pagare caro alle bionde dorate la loro lattea bianchezza, alterava il suo colorito. Alta, ben tornita, una figura slanciata la cui nobiltà uguagliava quella della madre, ella meritava quel titolo di dea tanto spesso prodigato dagli antichi autori. Perciò, chiunque vedesse Hortense per la strada non poteva trattenere questa esclamazione: «Mio Dio! Che bella ragazza!» E lei era così autenticamente ingenua che diceva rientrando: «Ma che hanno, mamma, da gridare tutti: ‹Che bella ragazza!› quando sei con me? Non sei più bella tu di me?…»

E, in effetti, a quarantasette anni passati, la baronessa poteva essere preferita a sua figlia dagli amatori di tramonti, poiché ella non aveva ancora perduto, come dicono le donne, nessuno dei suoi pregi, per uno di quei fenomeni rari soprattutto a Parigi, dove, in quel genere, Ninon ha fatto scandalo, tanto sembrava rubar la parte alle brutte del xvii secolo!

Pensando a sua figlia, la baronessa tornò con la mente al padre; ella lo vide sprofondare gradualmente, di giorno in giorno, nel fango, fino a perdere, forse, un giorno, anche il posto al ministero. L’idea della caduta del suo idolo, accompagnata da una visione indistinta delle disgrazie che Crevel aveva profetizzato, fu così crudele per la povera donna che, come inebetita, cadde priva di sensi.

IX • UN CARATTERE DA ZITELLA

La cugina Bette, con la quale Hortense stava chiacchierando, guardava di tanto in tanto verso la porta per vedere quando sarebbero potute rientrare nel salotto; ma la sua giovane cugina la stuzzicava in modo tale con le sue domande, nel momento in cui la baronessa riaprì la porta-finestra, che essa non se ne accorse.

Lisbeth Fischer, di cinque anni più giovane della signora Hulot, e figlia del maggiore dei Fischer, era lungi dall’essere bella come la cugina; perciò era stata straordinariamente gelosa di Adeline. La gelosia formava la base di quel carattere pieno di eccentricità, parola escogitata dagli inglesi per definire le bizzarrie non delle piccole ma delle grandi casate. Contadina dei Vosgi, in tutta l’accezione del termine, magra, bruna, coi capelli di un nero lucente, le sopracciglia folte e riunite in un ciuffo, le braccia lunghe e forti, i piedi grossi, qualche verruca sulla faccia lunga e scimmiesca, questo è il ritratto conciso della zitella.

La famiglia, che viveva in comune, aveva immolato la figlia rozza alla figlia graziosa, il frutto aspro al fiore splendente. Lisbeth lavorava la terra, mentre sua cugina era vezzeggiata; e così capitò che un giorno, trovando Adeline sola, tentò di strapparle il naso, un vero naso greco che le vecchie donne ammiravano. Benché picchiata per questa malefatta, ella continuò a lacerare i vestiti e a sciupare i collaretti della privilegiata. Al momento del matrimonio favoloso della cugina, Lisbeth si era piegata davanti a quel destino, come i fratelli e le sorelle di Napoleone si erano piegati davanti allo splendore del trono e alla potenza del comando. Adeline, infinitamente buona e dolce, si ricordò a Parigi di Lisbeth, e ve la fece venire, verso il 1809, con l’intenzione di strapparla alla miseria e di sistemarla.

Nell’impossibilità di trovar marito, presto come Adeline avrebbe voluto, a quella ragazza dagli occhi neri, dalle sopracciglia nere come il carbone e che non sapeva né leggere né scrivere, il barone cominciò col darle un lavoro. Mise Lisbeth a bottega, come apprendista, presso i ricamatori della corte imperiale, i famosi fratelli Pons.

La cugina, chiamata Bette per abbreviazione, divenuta operaia in passamanerie d’oro e d’argento, energica alla maniera dei montanari, ebbe il coraggio di imparare a leggere, a far di conto e a scrivere, poiché suo cugino, il barone, le aveva dimostrato la necessità di possedere quelle conoscenze per impiantare un laboratorio di ricamo. Lei voleva fare fortuna: in due anni si trasformò. Nel 1811, la contadina era una prima lavorante piuttosto graziosa, piuttosto abile e intelligente.

Il ramo passamanerie d’oro e d’argento comprendeva le spalline, le dragone, i cordoncini, insomma tutta quell’infinità di cose brillanti che scintillava sulle ricche uniformi dell’armata francese e sugli abiti civili.