L’imperatore, da buon italiano, amante del bel vestire, aveva fatto ricamare in oro e in argento, da capo a piedi, tutte le divise di quanti lo servivano, e il suo impero comprendeva contotrentatré dipartimenti. Le forniture, quasi sempre date ai sarti, gente ricca e solida, o direttamente ai grandi dignitari, costituivano un commercio sicuro.
Nel momento in cui la cugina Bette, la più abile operaia della ditta Pons, dove dirigeva la lavorazione, avrebbe potuto sistemarsi, si verificò la disfatta dell’Impero. L’ulivo della pace, che i Borboni tenevano in mano, spaventò Lisbeth; ella ebbe paura di un calo degli affari nel suo commercio, che poteva contare solo su ottantasei dipartimenti invece di contotrentatré, senza tener conto dell’enorme riduzione dell’esercito. Spaventata infine dalle diverse sorti dell’industria, rifiutò le offerte del barone, che la credette matta. Lei confermò questa opinione mettendosi in urto col signor Rivet, acquirente della casa Pons, al quale il barone voleva associarla, e divenne semplice operaia.
La famiglia Fischer era intanto ricaduta nella situazione precaria dalla quale il barone Hulot l’aveva tirata fuori.
Rovinati dalla catastrofe di Fontainebleau, i tre fratelli Fischer servirono da disperati nei corpi franchi del 1815. Il maggiore, padre di Lisbeth, fu ucciso. Il padre di Adeline, condannato a morte da un consiglio di guerra, fuggì in Germania e morì a Treviri nel 1820. Il minore, Johann, venne a Parigi a implorare l’aiuto della regina della famiglia, che, si diceva, mangiava nell’oro e nell’argento, che non appariva mai nelle riunioni se non con dei diamanti sulla testa o al collo, grossi come nocciole e regalati dall’imperatore. Johann Fischer, che aveva allora quarantatré anni, ricevette dal barone Hulot una somma di diecimila franchi per avviare una piccola impresa di foraggi a Versailles, ottenuta al Ministero della Guerra per la segreta influenza degli amici che l’ex intendente generale vi conservava.
Queste avversità familiari, la caduta in disgrazia del barone Hulot, la certezza di essere poca cosa in quell’immenso movimento di uomini, di interessi e di affari che fa di Parigi un inferno e un paradiso, domarono Bette.
La ragazza abbandonò allora ogni idea di lotta e di confronto con la cugina, dopo averne avvertito le molteplici superiorità; ma l’invidia le restò in fondo al cuore, come un germe di peste che può svilupparsi e devastare una città, se si apre la funesta balla di lana che lo comprime. Di tanto in tanto si diceva:
«Adeline e io siamo dello stesso sangue, i nostri padri erano fratelli, lei è in un palazzo e io in una soffitta.»
Ma tutti gli anni, per il suo onomastico e per Capodanno, Lisbeth riceveva dei regali dalla baronessa e dal barone.
Il barone, sempre generoso con lei, le pagava la legna per l’inverno; a giorni fissi, Lisbeth pranzava dal vecchio generale Hulot, il suo coperto era sempre pronto in casa della cugina. La prendevano in giro, ma non arrossivano mai di lei. Insomma, le avevano procurato l’indipendenza a Parigi, dove viveva a modo suo.
La ragazza aveva in effetti paura di ogni specie di legame. La cugina le offriva ospitalità in casa sua? Bette vi intravedeva il giogo del lavoro domestico; diverse volte il barone aveva risolto il difficile problema di trovarle marito; ma, lasciatasi convincere sulle prime, rifiutava ben presto per la paura di vedersi rinfacciare la sua mancanza di educazione, la sua ignoranza e la sua modesta condizione; infine, se la baronessa le diceva di vivere con loro zio e di accudire alla sua casa al posto di una governante che doveva costare caro, rispondeva che, in quel modo, avrebbe trovato ancora più difficilmente marito. La cugina Bette manifestava nelle sue idee quelle singolari caratteristiche che si notano nelle nature sviluppatesi assai tardi, nei selvaggi, che pensano molto e parlano poco. La sua intelligenza contadina aveva del resto acquisito, nelle chiacchiere del laboratorio, col frequentare operai e operaie, un po’ di quello spirito mordente tipico dei parigini. A quella giovane, il cui carattere somigliava straordinariamente a quello dei Corsi, tormentata inutilmente dagli istinti delle nature forti, sarebbe piaciuto proteggere un uomo debole; ma, a forza di vivere nella capitale, la capitale l’aveva cambiata esteriormente. La levigatezza parigina faceva la ruggine su quell’anima vigorosamente temprata. Dotata di un’acutezza divenuta profonda, come tutte le persone votate a un reale celibato, con il tono pungente che imprimeva alle sue idee, avrebbe potuto sembrare temibile in ogni altra situazione. Incattivita, avrebbe messo lo scompiglio nella famiglia più unita.
Nei primi tempi, quando aveva ancora qualche speranza, che, peraltro, tenne gelosamente nascosta, si era decisa a portare il busto, a seguire le mode, ed ebbe allora un momento di splendore durante il quale il barone la trovò maritabile. Lisbeth fu allora la bruna piccante dell’antico romanzo francese. Il suo sguardo penetrante, il suo colorito olivastro, la sua figura diritta potevano tentare un maggiore a mezza paga; ma lei si accontentò, diceva ridendo, di ammirarsi da sé. Finì del resto per trovare la sua vita piacevole, dopo averne eliminate le preoccupazioni materiali, poiché ogni sera, dopo aver lavorato sin dal levar del sole, era invitata a cena.
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