«Sai, signorina, ne ho lasciato uno in Lorena che, per me, ancora oggi andrebbe a prendere la luna.»
«Questo fa di più,» rispose Hortense; «ti porta il sole.»
«Come se ne può cavar quattrini?» domandò la cugina Bette. «Occorre molta terra per trarre profitto dal sole.»
Quelle battute scherzose dette una dietro l’altra, e seguite dalle follie immaginabili in questi casi, generavano le risate che avevano raddoppiato le angosce della baronessa facendole paragonare l’avvenire di sua figlia al presente, in cui la vedeva abbandonarsi a tutta la gioia spensierata della sua età.
«Ma, per offrirti dei gioielli che richiedono sei mesi di lavoro, dovrà certo avere dei grandi debiti di riconoscenza verso di te,» disse Hortense che quel gioiello faceva riflettere profondamente.
«Ah! vuoi saperne troppo in una sola volta!» rispose la cugina Bette. «Ma ascolta… voglio farti partecipare a un complotto.»
«Ci sarò col tuo innamorato?»
«Ah! ti piacerebbe vederlo! Ma, capisci, una zitella come la vostra Bette che ha saputo tenersi un innamorato per cinque anni, se lo nasconde ben bene… Perciò, lasciami tranquilla. Io, vedi, non ho né gatti, né canarini, né cani, né pappagalli; bisogna che una vecchia capra come me abbia qualche piccola cosa da amare, da tormentare; ebbene, io mi prendo un polacco.»
«Ha i baffi?»
«Lunghi così,» disse Bette mostrandole una navetta carica di fili d’oro. Quando veniva a far visita, si portava sempre appresso il lavoro, e lavorava aspettando la cena.
«Se mi poni sempre delle domande, non saprai niente,» riprese Bette. «Non hai che ventidue anni e sei più chiacchierona di me che ne ho quarantadue, quasi quarantatré.»
«Ascolto, non fiaterò,» disse Hortense.
«Il mio innamorato ha fatto un gruppo in bronzo alto dieci pollici,» riprese la cugina Bette. «Rappresenta Sansone che dilania un leone, e l’ha sotterrato e arrugginito in modo da far credere che è vecchio quanto Sansone. Quel capolavoro è esposto da uno di quei mercanti d’anticaglie che hanno le botteghe sulla place du Carrousel, vicino a casa mia. Se tuo padre, che conosce il signor Popinot, ministro del Commercio e dell’Agricoltura, o il conte di Rastignac, potesse parlar loro di questo gruppo come di una bella opera antica vista mentre passava! Sembra che questi grandi personaggi si dedichino a questo genere di cose invece di occuparsi delle nostre dragone; la fortuna del mio innamorato sarebbe fatta se essi comprassero o solo esaminassero questo brutto pezzo di bronzo. Quel povero ragazzo vorrebbe farlo passare per un oggetto antico e farselo pagare molto caro. Allora, se è un ministro che prende il gruppo, andrà a presentarsi da lui, dimostrerà di esserne l’autore, e sarà portato in trionfo! Oh! si crede già su un piedistallo; ha dell’orgoglio, il giovanotto, quanto due nuovi conti.»
«È copiato da Michelangelo; ma, per essere un innamorato, non ha perso lo spirito…» disse Hortense. «E
quanto ne vuole?»
«Millecinquecento franchi! Il mercante non deve dare il bronzo a meno, poiché deve avere una commissione.»
«Papà,» disse Hortense, «è attualmente commissario del re; vede tutti i giorni i due ministri alla Camera, e farà il tuo affare; me ne incarico io. Diventerete ricca, signora contessa Steinbock!»
«No, il mio uomo è troppo pigro, resta delle settimane intere a tormentare della cera rossa e non fa progressi.
Ah! bah! passa la vita al Louvre, alla biblioteca, a guardare delle stampe e a disegnarle. È un perdigiorno.»
E le due cugine continuarono a scherzare. Hortense rideva come quando ci si sforza di ridere, perché era tutta presa da un amore che tutte le ragazze hanno provato, l’amore dell’ignoto, l’amore allo stato vago, i cui pensieri si concretizzano intorno a una figura che per caso gli vien messa davanti, come la brina che rimane attaccata a dei fili di paglia sospesi dal vento ai margini di una finestra. Da dieci mesi aveva fatto del misterioso innamorato di Bette un essere reale, perché credeva, come sua madre, al celibato perpetuo di sua cugina; e, da otto giorni, questo fantasma era diventato il conte Wenceslas Steinbock, il sogno aveva finalmente un nome, le sue fantasie prendevano corpo in un giovane di trent’anni. Il sigillo che teneva in mano, specie d’Annunciazione in cui il genio risplendeva come una luce, ebbe la potenza di un talismano. Hortense si sentiva così felice che cominciò a dubitare che quel racconto fosse un’invenzione; il suo sangue ribolliva, rideva come una pazza per trarre in inganno sua cugina.
XII • IL BARONE HECTOR D’ERVY
«Ma mi sembra che la porta del salotto sia aperta,» disse la cugina Bette, «andiamo a vedere se il signor Crevel è andato via.»
«Da due giorni la mamma è assai triste: il matrimonio di cui si parlava è senza dubbio andato in fumo…»
«Be’! la cosa si può riaggiustare; si tratta (posso dirtelo) di un consigliere della corte reale. Ti piacerebbe essere la signora presidentessa? Va’ là, se dipende dal signor Crevel, mi dirà bene qualcosa, e saprò domani se c’è qualche speranza!…»
«Cugina, lasciami il sigillo,» chiese Hortense, «non lo farò vedere… La festa della mamma è fra un mese e te lo consegnerò al mattino…»
«No, rendimelo… Ci vuole un astuccio.»
«Ma lo farò vedere a papà, perché possa parlare al ministro con cognizione di causa; sai, le autorità non devono compromettersi,» disse.
«Va bene, non mostrarlo a tua madre, è tutto quel che ti chiedo; perché se venisse a sapere che ho un innamorato, mi prenderebbe in giro.»
«Te lo prometto.»
Le due cugine arrivarono sulla porta del boudoir proprio nel momento in cui la baronessa cadeva svenuta, e il grido lanciato da Hortense bastò a rianimarla. Bette andò a prendere i sali. Quando ritornò, trovò madre e figlia l’una nelle braccia dell’altra; la madre che calmava i timori della figlia, dicendole:
«Non è nulla, è una crisi nervosa. Ecco tuo padre,» aggiunse, riconoscendo il modo di suonare del barone; «mi raccomando, non parlargli di questo…»
Adeline si alzò per andare incontro al marito, con l’intenzione di condurlo in giardino, nell’attesa della cena, di parlargli del matrimonio andato in fumo, di avere delle spiegazioni sull’avvenire, e di tentare di dargli qualche consiglio.
Il barone Hector Hulot si mostrò in una tenuta parlamentare e napoleonica; infatti gli imperiali (gente che ha servito l’Impero) si distinguono facilmente dal piglio militaresco, dalle marsine blu e bottoni d’oro, abbottonate fino al collo, dalle cravatte in taffetà nero, dall’andatura decisa appresa nell’esercizio di un comando necessariamente dispotico.
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