Mi meravigliava che dopo tanto tempo fossero giunti alla conclusione che quello era il miglior impiego della mia persona nella loro società, e non avessero pensato di servirsi di me in altro modo. Ho capito cosí che se c’era un muro di pietra tra me e i miei concittadini, ce n’era un altro ancor piú difficile da superare o da abbattere prima che loro potessero essere liberi come lo ero io. Non ho avuto la sensazione di essere prigioniero nemmeno per un istante, e le mura mi sembravano un grande spreco di roccia e malta. Sentivo di essere l’unico, tra i miei concittadini, ad aver davvero pagato il giusto pegno. Ovviamente loro non sapevano come trattarmi, se non comportandosi da persone prive di educazione. In ogni minaccia e in ogni parola gentile s’intravedeva lo stesso abbaglio; tutti ritenevano infatti che il mio desiderio piú grande fosse di ritornare dall’altra parte di quel muro. Non riuscivo a non sorridere nel vederli chiudere la porta a chiave con tanta attenzione, sperando di lasciarsi alle spalle il mio pensiero che li seguiva comunque, senza ostacoli e senza chiedere permesso, e questo era la sola cosa realmente pericolosa. Non potendo arrivare davvero a me, avevano deciso di punire il mio corpo; come quei ragazzini che quando non riescono a raggiungere la persona cui vogliono fare un dispetto, se la prendono con il suo cane. Mi sono reso conto che lo stato era stupido, spaventato come una donna sola che difende la sua argenteria, e non sapeva distinguere gli amici dai nemici. Allora ho perso tutto il rispetto che mi era rimasto nei suoi confronti, e ho iniziato a compatirlo.

Lo stato non si confronta mai volutamente con le profondità morali o intellettuali di un uomo, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Non si arma di spirito o onestà superiori, ma solo di superiore forza fisica. Io non sono nato per essere piegato. Respirerò accordandomi al mio ritmo. Vediamo chi è il piú forte. Qual è la forza di una moltitudine? Possono smuovermi solo quelli che obbediscono a una legge piú alta della mia, spingendomi a diventare come loro. Non ho mai sentito di uomini che siano stati costretti a vivere in questo o quel modo da una massa di loro simili. Cosa significherebbe vivere cosí? Quando m’imbatto in un governo che mi chiede: «I tuoi soldi o la tua vita», perché dovrei subito dargli i miei soldi? Potrebbe trovarsi in notevoli ristrettezze e non sapere piú cosa fare: io non posso aiutarlo. Deve aiutarsi da solo, fare come faccio io. Non è il caso di piagnucolare. Non sono responsabile del buon funzionamento del macchinario che regola la società. Non sono il figlio dell’ingegnere. Mi rendo conto che, quando una ghianda e una castagna cadono l’una accanto all’altra, nessuna delle due resta inerte per fare posto all’altra, ma entrambe seguono le loro leggi, e germogliano, crescono e fioriscono come meglio possono, finché l’una, forse, non metterà in ombra e annullerà l’altra. Se una pianta non può vivere secondo natura, muore; e cosí un uomo.

La notte che ho trascorso in carcere è stata insolita e abbastanza interessante. Quando sono arrivato i prigionieri, in maniche di camicia, si godevano quattro chiacchiere e la brezza della sera, davanti all’accesso del cortile. Ma il secondino poi ha detto: «Forza, ragazzi, è ora di chiudere», e allora si sono dispersi. Sentivo il rumore dei loro passi mentre rientravano nelle celle vuote. Il mio compagno di stanza mi è stato presentato dal carceriere come «una persona di prim’ordine e un uomo intelligente». Quando la porta è stata chiusa a chiave mi ha mostrato dove appendere il cappello, e mi ha raccontato come se la cavava lui lí dentro. Le stanze erano imbiancate una volta al mese; e questa era, come minimo, la piú bianca, quella arredata con maggiore semplicità e forse la piú in ordine di tutta la città. Naturalmente il mio coinquilino voleva sapere da dove venivo e cosa mi aveva portato lí; e dopo averglielo detto, gli ho chiesto a mia volta perché lui era finito in prigione, presumendo si trattasse senza dubbio di una persona onesta.