Peter Alexander (William Shakespeare - The Complete Works, Collins, London & Glasgow, 1960, pagg. XXXII-1370) con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello dell’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare curata da G. Welles & G. Taylor per la Clarendon Press, New York, U.S.A., 1988-94, pagg. XLIX - 1274; quest’ultima contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Noble Kinsmen”) che manca nell’Alexander.

 

2) Alcune didascalie (“stage instructions”) sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura cui questa traduzione è espressamente ordinata ed intesa, il traduttore essendo convinto della irrappresentabilità del teatro di Shakespeare ed elisabettiano in genere, sulle moderne ribalte. Si è conservata comunque la rituale indicazione “Entra”/“Entrano” (“Enter”) e “Esce”/“Escono” (“Exit”/“Exeunt”), avvertendo peraltro che non sempre essa indica entrata/uscita di personaggi, potendosi dare che questi si trovino già sulla scena all’apertura o vi restino alla chiusura della stessa.

 

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. Altro metro si è usato per citazioni, proverbi, canzoni, ecc., quando, in accordo col testo, sia stato richiesto uno stacco di stile.

 

4) Per ragioni di pronuncia legate ad esigenze di metrica la lezione di alcuni nomi è stata italianizzata: Valentine, Valentino; ser Toby, ser Tobia; ser Andrew, ser Andrea; Fabian, Fabiano; e “ser” al posto di “sir”, che avrebbe richiesto altrimenti il nome originale inglese; eppoi qui non siamo in Inghilterra ma in una immaginaria Illiria, dove il “sir” sarebbe fuori casa. Quanto ai cognomi “Belch” di ser Tobia e “Aiguecheek” di ser Andrea, poiché essi hanno un preciso riscontro semantico in italiano, sono resi nel loro significato di nomi comuni: “belch” significa “rutto” e “aiguecheek” è parola composta da “cheek”, “guancia” e “ague”, “febbre terzana”, perciò ser Tobia “Rutto” e ser Andrea “Guanciaterzana”. Shakespeare è solito dare ai suoi personaggi un nome che sia un appellativo appropriato alla persona, con riguardo alla professione o a qualche qualità fisica o morale del personaggio stesso.

 

La parola “Fool” è stata tradotta con “Giullare” nell’elenco delle “dramatis personae”, ma nel testo è resa, a vicenda e a seconda del miglior attagliarsi del termine nel corso del dialogo, indifferentemente con “giullare”, “buffone”, “matto” che sono le diverse accezioni che il termine ha nell’inglese ed anche in Shakespeare; mai, comunque con “clown”, che, oltre a non essere italiano, nella nostra lingua ha acquistato uno spiccato e sviante significato circense. Feste del resto, a vederlo bene, è più giullare che buffone; perché sa la musica, e canta e si accompagna col liuto, alla maniera, appunto, dei giullari/menestrelli.

 

5) Il traduttore riconosce di essersi avvalso, ed anche largamente in alcuni casi, di traduzioni precedenti, dalle quali ha preso in prestito, oltre alla interpretazione di passi controversi, intere frasi e costrutti, dandone opportuno credito in nota.

 

PERSONAGGI

 

 

ORSINO, duca d’Illiria, innamorato di Olivia

SEBASTIAN, fratello di Viola

ANTONIO, capitano di mare, amico di Sebastian

Un altro CAPITANO di mare, amico di Viola

VALENTINO

gentiluomini al servizio del duca

CURIO

Ser TOBIA RUTTO, zio di Olivia

Ser ANDREA GUANCIATERZANA, pretendente alla mano di Olivia

MALVOLIO, maggiordomo di Olivia

FABIANO, gentiluomo al servizio di Olivia

FESTE, giullare di Olivia

VIOLA,

sorella gemella di Sebastian, innamorata del duca Orsino (CESARIO nel travestimento maschile)

MARIA, damigella di Olivia

Un Prete

Signori - Marinai - Ufficiali - Musici - Persone del seguito dei vari personaggi

 

 

 

SCENA: una città dell’Illiria e una zona costiera nei pressi.

 

ATTO PRIMO

 

 

SCENA I - Sala nel palazzo del duca Orsino

Entra ORSINO, CURIO e altri nobili. Son già presenti in sala dei musici, che al loro ingresso intonano una melodia.

ORSINO -

Oh, la musica, sì!

S’è vero ch’essa è cibo dell’amore,

somministratemene ancora tanto,

che la mia fame alfine d’esso sazia,

possa ammalarsene, fino morire!

Di nuovo quella melodia! Ancora!

Aveva una sì languida cadenza,

che mi sentivo come carezzare

l’orecchio da un soave venticello

che alitando su un prato di violette

ne rubi e ne diffonda la fragranza…

Ma basta, ora cessate…

Non m’è più così dolce come prima.

(Cessa la musica)

Oh, spirito d’amore,

come sei fresco tu, e vivificante,

tu che, se nella tua capacità

puoi ricevere tutto, come il mare,

non ti lasci da nulla penetrare,

qual che ne sia l’altezza e la sostanza,

senza svilirlo di senso e valore

in men che non si creda!

Perché l’amore è sempre così pieno

d’estrose fantasie

da esser alta fantasia da solo.

CURIO -

Andrete a caccia oggi, mio signore?

ORSINO -

E di che, Curio?

CURIO -

Del cervo, signore.

ORSINO -

Oh, di quello lo sono ogni momento

e del più nobile ch’io abbia in me.

Oh, quando gli occhi miei

videro Olivia per la prima volta

mi parve come se l’aria dintorno

fosse purgata da una pestilenza:

da quell’istante mi sentii appunto

tramutato in un cervo,

braccato ed inseguito tutto il tempo

dalla muta famelica e crudele

dei desideri…

Entra VALENTINO

Che nuove da lei?

VALENTINO -

Così vi piaccia, vostra signoria,

mi fu impossibile d’esservi ammesso;

ma dalla bocca della sua fantesca

vi posso riferir la sua risposta:

prima che sian trascorse sette estati,

ella ha deciso che nemmeno l’aria

dovrà vedere scoperto il suo volto;

simile ad una suora di clausura

ella s’aggirerà velata in casa,

ed una volta al giorno

inonderà di lacrime cocenti

la propria camera; e tutto ciò

per mantenere vivo in lei l’amore

per il fratello morto,

il cui triste ricordo vuol serbare

sempre fresco e costante nel suo animo.

ORSINO -

Ah, s’ella ha un cuore di tal fine tempra

da pagare un tal debito d’amore

soltanto alla memoria d’un fratello,

di quale amore non sarà capace

quel cuore quando l’indorato strale

abbia abbattuto in lei l’intero gregge

degli altri affetti che v’hanno dimora;

quando in lei fegato, cuore e cervello,

questi troni sovrani,

siano stati occupati tutti e tre,

insieme alla sue dolci perfezioni,

da un solo re! Oh, pensieri d’amore,

correte almeno voi avanti a me

verso dolcissimi letti di fiori:

adagiatevi sotto ricche pergole

come sotto lussureggianti alcove!

(Escono)




SCENA II - La costa dell’Illiria

Entrano VIOLA, un CAPITANO di mare

e alcuni marinai

VIOLA -

Che terra è questa, amici?

CAPITANO -

Questa terra è l’Illiria, mia signora.

VIOLA -

E che ci faccio nell’Illiria, io?

Mio fratello è in Eliso…

O forse no, forse non è annegato…

Che pensate di ciò voi marinai?

CAPITANO -

Noi pensiamo ch’è stato sol per caso

che voi stessa vi siate messa in salvo.

VIOLA -

Povero mio fratello!… E se per caso

fosse stato anche…

CAPITANO -

Vero, signora;

e se questo può darvi alcun conforto,

mi sento di potervi assicurare

che quando il nostro barco si spezzò

in due tronconi, e voi e gli altri pochi

che si sono salvati insieme a voi

v’aggrappavate alla nostra scialuppa

in balia delle onde, alla deriva,

io potei scorgere vostro fratello

che con atto di massima destrezza

(suggeritogli insieme dal coraggio

e da un potente istinto di salvezza

in quello stato di estremo pericolo)

si legava ad un albero maestro

che aveva visto galleggiar sull’acqua

e, come Arione in groppa del delfino,

pareva che prendesse confidenza

col mare grosso. Lo seguii con l’occhio

fino a che mi fu dato di vederlo.

VIOLA -

Per questo che mi dici, capitano,

tieni, ecco dell’oro.

Il fatto stesso della mia salvezza

mi schiude adesso il cuore alla speranza,

e queste tue parole

mi fan pensare che così può essere

anche di lui. Conosci questa terra?

CAPITANO -

Sì, son nato e cresciuto in questi luoghi,

signora; in luogo da qui non distante

più di tre ore di cammino a piedi.

VIOLA -

E chi governa qui?

CAPITANO -

Un nobil duca,

nobile di casato come d’animo.

VIOLA -

Come si chiama?

CAPITANO -

Orsino.

VIOLA -

Orsino! Ho spesso udito questo nome

pronunziare dal mio povero padre.

A quel tempo sapevo che era scapolo.

CAPITANO -

E l’è presentemente;

o almeno lo era ultimamente;

perch’io manco da qui da appena un mese,

e già si cominciava a mormorare

(sapete quanto piace al popolino

pettegolar su ciò che fanno i grandi)

che spasimasse per la bella Olivia.

VIOLA -

E chi è costei?

CAPITANO -

Una virtuosa giovane

figlia d’un conte morto un anno fa

e rimasta affidata alla custodia

d’un altro figlio di lui, suo fratello,

anche lui morto qualche tempo dopo;

in onore del quale, come dicono,

ella s’è proibita da se stessa

la compagnia e la vista degli uomini.

VIOLA -

Ah, potessi servire quella dama

nella sua casa, e nascondermi anch’io

al mondo, fino a che non sia matura

l’occasione di rivelare al mondo

qual è il mio vero stato!

CAPITANO -

Mi sembra cosa difficile a farsi:

perché quella rifiuta di ascoltare

ogni specie di supplica o richiesta…

le venga pure da parte del Duca.

VIOLA -

Capitano, nel tuo comportamento

verso di me mi sembra di vedere

una carica di sincerità;

e, se pur la natura

usa recingere la falsità

d’una bella muraglia ingannatrice,

voglio credere che anche la tua anima

s’accordi con le schiette tue maniere.

Ti prego - e saprò ben remunerartene -

di non svelare a nessuno chi sono,

e d’aiutarmi a procurarmi qui

quella tal foggia di travestimento

che meglio si convenga al mio proposito.

Io voglio entrare al servizio del duca,

e tu mi devi presentare a lui

come un eunuco; di questa fatica

non avrai a pentirti, t’assicuro:

perché io so cantare e so parlare

in tali e vari toni musicali

che mi riveleranno certamente degna

di stare al suo servizio. Quanto al resto

ed a quel che possa succedere in seguito,

m’affido solo al tempo.

Tu bada solo con il tuo silenzio

a non fare scoprir questo mio trucco.

CAPITANO -

Va bene, siate pure il suo eunuco

ed io il vostro muto del serraglio;

e si spenga la luce dei miei occhi

se la mia lingua spiccicherà verbo.

(Escono)




SCENA III - In casa di Olivia

Ser TOBIA è seduto ad un tavolo con bevande;

con lui è MARIA.

TOBIA -

Che canchero è successo a mia nipote

di prendere così penosamente

la morte del fratello?

L’afflizione è un nemico della vita.

MARIA -

Ser Tobia, in coscienza, voi la notte

dovreste rincasare un po’ più presto;

vostra nipote, mia buona signora,

trova molto da dire, in verità,

al vostro rientrare ad ore illecite.

TOBIA -

Trovi, trovi… lasciamola trovare.

MARIA -

Eh, ma potreste pure contenervi

nei limiti modesti del buon ordine.

TOBIA -

Contenere! Mi voglio contenere

non più smagrito di quello che sono.

Questo vestito mi contiene bene

per quando bevo, e così gli stivali;

se non dovessero più “contenermi”,

s’impicchino coi loro stessi lacci!

MARIA -

Quel trincare, quel bere

vi fa male; ho udito appunto ieri

la mia padrona parlare di questo,

e di un certo scapato cavaliere

che vi siete portato qui una sera

perché la corteggiasse.

TOBIA -

Chi era? Ser Andrea Guanciaterzana?

MARIA -

Appunto, era di quello che parlava.

TOBIA -

Ma quello è un cavaliere

come ce n’è ben pochi qui in Illiria.

MARIA -

E con questo? Che importa?

TOBIA -

Importa, sì, che importa.

Quello ha tremila bei ducati all’anno.

MARIA -

E potranno bastargli giusto un anno

tutti quei suoi ducati,

se seguita ad andar di questo andazzo.

È un grosso allocco, uno scialacquatore.

TOBIA -

Ah, che dici! Vergogna a dir così!

Lui sa suonare la viola da gamba,

parla benissimo tre o quattro lingue

parola per parola, senza libro,

e ha tutti i più bei doni di natura.

MARIA -

Già, ma di una natura un po’ balorda;

oltre ad essere infatti un gran babbeo,

è anche un maledetto attaccabrighe;

e se a levargli il gusto della rissa

non possedesse il dono del vigliacco,

avrebbe presto il dono di una tomba,

come dice la gente di buon senso.

TOBIA -

Quelli che parlano di lui così,

giuro su questa mano, sono tutti

bassi calunniatori. Di’, chi sono?

MARIA -

(Incalzando)

E dicono anche, per soprammercato,

che s’ubriaca con voi ogni notte.

TOBIA -

Sì, certo: con brindare alla salute

di mia nipote; cosa ch’io farò

fintanto che il mio gozzo avrà un passaggio

e che in Illiria ci sarà da bere.

E vigliacco e bastardo sia colui

che non alzi il bicchiere alla salute

di mia nipote finché il suo cervello

non si metta a girare sul suo perno

come un galletto in cima a un campanile.

Via, via, ragazza! Castilliano vulgo,

che arriva ser Andrea Guanciaterzana.

Entra ser ANDREA

ANDREA -

Ser Tobia Rutto! Caro ser Tobia!

TOBIA -

Mio dolce ser Andrea!

ANDREA -

(A Maria)

E salute anche a voi, bella scorbutica!

MARIA -

E altrettanto a voi, mio buon signore.

TOBIA -

Attracca, ser Andrea!

ANDREA -

Attracca, che?

TOBIA -

La camerista della mia nipote.

ANDREA -

Cara madama Attracca, avrei piacere

di far con voi migliore conoscenza.

MARIA -

Il mio nome è Maria, caro signore.

ANDREA -

Cara Maria Attracca, che piacere!

TOBIA -

No, vi state sbagliando, cavaliere!

“Attracca” vuol significare “affrontala”,

“abbordala”, “corteggiala”, “assaltala”…

ANDREA -

Non vorrei impicciarmi con costei

davanti a voi, perbacco, ser Tobia,

se è questo che intendete per “attracca”.

MARIA -

(Andandosene)

Salute, gentiluomini.

TOBIA -

Se la lasciate partire così,

possiate non sguainar mai più la spada

vostra vita durante, ser Andrea!

ANDREA -

(A Maria)

Se ve ne andate via così, madama,

fo voto di non più sguainar la spada.

Bella signora, vi credete forse

d’avere per le mani due citrulli?

MARIA -

Io non vi tengo per mano, signore.

ANDREA -

Dovete, invece; eccovi la mia.

(Le porge la mano; Maria la prende)

MARIA -

Bene, “il pensiero è libero”, si dice:

questa mano, signore,

portatela, vi prego, all’osteria

e datele da bere. Ne ha bisogno.

ANDREA -

E perché mai, dolcezza?

Che vuole intendere questa metafora?

MARIA -

Ch’è asciutta, signor mio.

ANDREA -

Lo credo bene; non sono tale asino

da non tenere le mani all’asciutto.

Ma che significa il vostro scherzo?

MARIA -

Uno scherzo, signore, anch’esso asciutto.

ANDREA -

E ne avete altri in serbo?

MARIA -

Oh, sì, li ho sulla punta delle dita:

però vi lascio andare, ecco, la mano,

e non ne ho più nessuno.

(Esce)

TOBIA -

Vi ci vuole un bicchiere di canaria,

eh, caro cavaliere!

Quando v’ho visto mai così abbattuto?

ANDREA -

Mai nella vita, penso, salvo forse

che non sia stato qualche volta effetto

del vin delle Canarie.

Di quando in quando ho come l’impressione

di non aver dentro di me più spirito

d’un cristiano o d’altr’uomo qual che sia.

Ma sono un gran mangiatore di manzo,

e credo che dev’esser proprio questo

a mandarmi talvolta giù di corda.

TOBIA -

Senza dubbio è così.

ANDREA -

Se potessi di questo essere certo,

rinuncerei per sempre a trangugiarne.

Domani, ser Tobia, ritorno a casa.

TOBIA -

Pourquoi, mio riverito cavaliere?

ANDREA -

Che vuol dire pourquoi? Che devo, o no?

Vorrei aver potuto consacrare

a studiare le lingue tutto il tempo

che ho speso nella scherma, nella danza

e a veder gli spettacoli degli orsi.

Ah, se mi fossi dato alle arti belle!

TOBIA -

Avreste avuto allora certamente

una splendida chioma.

ANDREA -

Perché? Vorreste forse dir che l’arte

farebbe bene alla capigliatura?

TOBIA -

Sicuro; ché la vostra, lo vedete,

non è bella arricciata per natura.

ANDREA -

Eppure mi sta bene, non trovate?

TOBIA -

Oh, sì, vi pende tutta per le gote

come ciuffi di lino da conocchia,

e mi pare mill’anni di vedere

un giorno o l’altro una brava massaia

prenderli fra le gambe per filarli.

ANDREA -

Bah, domani comunque, ser Tobia,

sarò senz’altro di ritorno a casa.

Vostra nipote non si fa vedere,

e se pur si facesse, quattro a uno,

che di me non vorrà proprio saperne.

Il Duca, qui da presso, la corteggia.

TOBIA -

Il Duca? Non ne vuol proprio sapere;

non sarà mai che voglia andare sposa

a qualcuno che le sia superiore

per blasone, o per censo, o per età

o per intelligenza.

L’ho udita io stesso che se lo giurava.

Insomma, cavaliere,

finché c’è vita c’è speranza in tutto.

ANDREA -

Resterò ancora un mese.

Io sono un tipo tra i più stravaganti

che ci siano al mondo; mi diletto

di feste mascherate e di festini,

qualche volta di tutti e due insieme.

TOBIA -

Di certe frivolezze siete pratico,

eh, cavaliere?

ANDREA -

Più di qualsiasi altro

in Illiria, purché non s’appartenga

a quelli che lo sono più di me;

non vorrei compararmi tuttavia

con qualcuno più pratico di me.

TOBIA -

Quali prodezze riuscite a fare

ballando la gagliarda, cavaliere?

ANDREA -

Eh, alla piroetta sono un asso!

TOBIA -

Ed io son bravo al taglio-di-candela.

ANDREA -

Ed io per me son certo

che in tutta Illiria non ci sia nessuno

più provetto di me

a fare lo scambietto rovesciato.

TOBIA -

Ah, queste nostre belle qualità,

perché dovremmo tenerle nascoste,

perché tener celate ed invisibili

queste nostre virtù

come dietro a una specie di cortina?

Che male ci sarebbe, se, ad esempio,

andaste in chiesa a passo di gagliarda,

o rincasaste a passo di corrente?

Temiamo forse che prendan la polvere

come il ritratto di Madama Mall?

Per me, il mio passo è quello della giga;

e non vorrei di meglio che orinare

al ritmo d’un vivace saltarello.

Che mi volete dire? È questo un mondo

da tenerci nascosti i nostri meriti?

Pensavo giusto che le vostre gambe,

per l’eccellente lor costituzione,

siano state plasmate sotto il segno

d’una costellazione di gagliarda.

ANDREA -

Ah, sì, essa è robusta,

e non manca di far la sua figura

in un paio di calze rosso-fiamma…

Beh, che direste di un po’ di bisboccia?

TOBIA -

Che altro fare, altrimenti, noi due?

Non siamo forse nati sotto il Toro?

ANDREA -

Il Toro?… Ah, sì, presiede a fianchi e cuore.

TOBIA -

No, no, mio cavaliere, a gambe e cosce.

Su, fatemi vedere lo scambietto.

(Ser Andrea fa la capriola)

Eh, no, un po’ più alto!

(Ser Andrea fa un’altra capriola)

Ora va bene, sì, così, perfetto!

(Escono)




SCENA IV - Sala nel palazzo del duca Orsino

Entrano VALENTINO e VIOLA

travestita da uomo come CESARIO

VALENTINO -

Se il Duca seguita così con te,

a favorirti, ne farai di strada,

Cesario!… Ti conosce da tre giorni

e già non sei per lui per nulla estraneo.

VIOLA -

Se metti un “se” - “se il Duca -

alla continuità del suo favore

nei miei riguardi, ne debbo dedurre

che temi un suo cambiamento d’umore

o una mia negligenza nel servirlo.

È sì volubile nei suoi favori?

VALENTINO -

Al contrario, tutt’altro, mi puoi credere.

VIOLA -

Ti ringrazio. Ma eccolo che viene.

Entrano il duca ORSINO, CURIO e altri

ORSINO -

Dov’è Cesario? Chi di voi l’ha visto?

VIOLA -

Son qui, son qui, signore, per servirvi.

ORSINO -

(A Curio e agli altri)

Vogliate allontanarvi per un poco.

Cesario, tu di me sai tutto ormai;

a te ho dischiuso il libro

dei segreti più intimi del cuore.

Perciò, ragazzo mio,

volgi i tuoi passi a lei, alla sua casa,

e se ti fosse negato di entrare,

resta fermo davanti alla sua porta

e fa’ loro saper che le tue piante

là metteranno le loro radici,

finché da lei non ti sia data udienza.

VIOLA -

Son sicuro, mio nobile signore,

che s’ella s’è concessa, come dicono,

completamente in braccio al suo dolore,

mai vorrà consentire di ricevermi.

ORSINO -

E tu mettiti a urlare e a strepitare

oltre ogni limite di convenienza;

ma non devi tornarmi a mani vuote.

VIOLA -

Diciamo pure ch’io possa parlarle,

signore, ma che cosa devo dirle?

ORSINO -

Oh, devi rivelarle, se riesci,

tutta la foga della mia passione;

sbigottirla, col dirle in modo acconcio

di quanto l’amor mio le sia fedele:

tu puoi essere interprete ideale

presso di lei di tutte le mie pene.

Dalla tua giovinezza

ella ascolterà meglio queste cose

che non s’esse le fossero recate

da messaggero di più grave aspetto.

VIOLA -

Ne dubito, signore.

ORSINO -

Credilo, invece, caro il mio ragazzo,

ché mentirebbe ai tuoi anni felici

chi dicesse che tu sei uomo fatto;

non è il labbro di Diano

tenero e arrubinato come il tuo;

e la tua voce ha il suono penetrante

e aggraziato di quella d’una vergine,

sì che tutto di te appare adatto

a farti fare una parte di donna.

So anche che il tuo segno zodiacale

ti rende idoneo a questo ufficio.

(Richiamando le persone di servizio)

Quattro o cinque di voi

vadan con lui, ed anche tutti quanti:

io meno gente ho intorno e meglio sto.

(A Viola)

Porta a buon fine questa ambasceria,

e vivrai bene, come il tuo signore,

da chiamar tue le stesse sue fortune.

VIOLA -

Farò quanto di meglio m’è possibile

per corteggiar per voi la vostra dama.

(A parte)

Però, che ingrato compito,

dovergli conquistare io le grazie

d’un’altra donna, mentre bramo io stessa

d’essere la sua moglie!

(Escono tutti)




SCENA V - La casa di Olivia

Entrano MARIA e FESTE

MARIA -

No, no, o tu mi dici chiaro e tondo

dove sei stato tutto questo tempo,

o io non vorrò aprire le mie labbra

nemmeno da passarci un pel di capra,

a dire le tue scuse alla padrona:

t’impiccherà per questa tua assenza.

FESTE -

E che m’impicchi pure!

Chi trova buona forca a questo mondo,

non teme più bandiera.

MARIA -

Che vuoi dire?

FESTE -

Che non avrà più paura di niente.

MARIA -

Una bella risposta da quaresima!

Lo sai tu dov’è nato questo detto:

“Io non temo bandiera?”

FESTE -

Dove, dove?

MARIA -

È nato in guerra. E tu ti vuoi far bello

a dirlo nelle tue buffonerie.

FESTE -

Bene. Che Dio conservi la saggezza

a chi ce l’ha, e conceda agli sciocchi

di impiegarla per loro a lor talento.

MARIA -

Comunque vada, tu sarai impiccato

per la tua assenza, o se no, licenziato.

Tanto per te impiccato o licenziato

non fa nessuna differenza, o no?

FESTE -

Qualche volta una buona impiccagione

ti salva da un cattivo matrimonio.

In quanto poi all’esser licenziato,

l’estate mi darà ben una mano

a sopportarlo.

MARIA -

Allora, sei deciso?

FESTE -

Non troppo, né per l’uno né per l’altro;

ma sono risoluto su due punti.

MARIA -

Sì, su due punti come le tue braghe:

che se uno si rompe, l’altro tiene;

però se ti si rompon tutti e due,

resti sbracato, a natiche scoperte.

FESTE -

Ben detto, assai ben detto, in fede mia!

Ebbene, vattene per la tua strada.

Se ser Tobia smettesse di sborniarsi,

tu saresti il più arguto pezzettino

di carne d’Eva di tutta l’Illiria.

MARIA -

Taci, canaglia! Basta con gli scherzi.

Ecco la mia signora,

falle garbatamente le tue scuse.

È la cosa migliore che puoi fare.

(Esce)

Entra OLIVIA in gramaglie, seguita da MALVOLIO

e altre persone del suo seguito

FESTE -

(A parte)

Arguzia, prestami ora il tuo spirito,

mettimi in buona vena di facezie.

Quelli che credono di possederti

si dimostrano spesso grandi sciocchi;

io, che son certo d’esserne sprovvisto

posso passare per uomo da senno.

Che cosa dice infatti Quinapàlus?

“È meglio un imbecille spiritoso

che un savio imbecillito.”

(Forte)

Iddio vi benedica, mia signora!

OLIVIA -

(Ai servi, indicando il Giullare)

Allontanate quella testa pazza.

FESTE -

(Ai servi)

Ehi, avete sentito, brava gente?

Suvvia, allontanate la signora!

OLIVIA -

Fuori dai piedi, insipido buffone!

Di te ne ho abbastanza,

tra l’altro mi diventi disonesto.

FESTE -

Due difetti, madama,

che a correggerli sono sufficienti

un bicchiere di vino e un buon consiglio.

Date da bere ad un buffone a secco,

ed il buffone non sarà più a secco;

incoraggiate l’uomo disonesto

ad emendarsi, e se quello si emenda,

non sarà più un uomo disonesto;

se invece non riesce ad emendarsi,

ci pensi ad emendarlo il capponaio.

Tutto ciò che si emenda si rattoppa.

Virtù che trasgredisce e che si emenda

è virtù rattoppata dal peccato;

e peccato emendato non è altro

che peccato con toppa di virtù.

Se questo elementare sillogismo

vi può bastare, è bene;

se no, quale altro rimedio trovare?

Poiché non c’è di veramente becco

che la calamità a questo mondo,

ne consegue che la bellezza è un fiore.

(Ai servi)

La signora ha ordinato poco fa

di “allontanare quella testa pazza”.

E dunque che aspettate, allontanatela!

OLIVIA -

Sei tu, messere, che ho loro ordinato

di togliermi dai piedi.

FESTE -

Un madornale “qui pro quo”, signora!

Perché “cucullus non facit monachum”,

che è quanto dire che nel mio cervello

io non vesto la stoffa del buffone.

Buona signora, datemi licenza

di dimostrarvi che il matto buffone

qui dentro non son io ma siete voi.

OLIVIA -

Ah, sì? E come fai a dimostrarlo?

FESTE -

Semplicissimo, mia buona signora.

OLIVIA -

Avanti, allora, dammi questa prova.

FESTE -

Prima ho da porvi io qualche domanda,

e voi, mio buon topino di virtù,

rispondetemi a tono.

OLIVIA -

Bene, matto; in mancanza d’altri svaghi,

mi sottometterò alla tua prova.

FESTE -

Buona signora, perché porti il lutto?

OLIVIA -

Per mio fratello morto, caro matto.

FESTE -

C’è da credere allora, mia signora,

che la sua anima stia all’inferno.

OLIVIA -

Al contrario, matto, io son sicura

che la sua anima sta in paradiso.

FESTE -

Tanto più matto, allora, in voi, signora,

portare il lutto per vostro fratello,

se la sua anima sta in paradiso.

Portate via questa matta, signori!

OLIVIA -

Che pensate, Malvolio,

di questo matto, non vorrà correggersi?

MALVOLIO -

Sì, lo farà, seguiterà a correggersi

fino a che non verranno a tormentarlo

gli spasmi della morte.

L’infermità, che infirma la saviezza,

fa sempre prosperar la matteria.

FESTE -

Che Dio vi mandi allora prontamente

una cospicua infermità, signore,

a rafforzar la vostra matteria.

Ser Tobia sarà pur pronto a giurare

ch’io non sono una volpe,

ma non impegnerà la sua parola

per due soldi se indotto ad affermare

che voi non siete un matto.

OLIVIA -

Che avete da ribattergli, Malvolio?

MALVOLIO -

Mi stupisce che vostra signoria

si diletti ad udir le baggianate

di un simile insipido straccione.

L’altro giorno l’ho visto messo a terra

da un altro volgarissimo buffone

che ha men cervello in zucca d’una pietra.

Guardatelo: ha smontato già la guardia,

e a meno che non vi mettiate a ridere,

e gli offriate occasione di riprendersi,

è bell’e imbavagliato.

Per mio conto, rimango del parere

che quelli che hanno un grano di saggezza

e si beano a udire le scemenze

d’una siffatta risma di buffoni

son zanni da strapazzo pure loro.

OLIVIA -

Eh, voi siete ammalato d’amor proprio,

Malvolio, ed assaggiate tutti i cibi

con appetito guasto.

Basta essere un poco generosi,

indulgenti e di libere vedute

per valutare tutte quelle cose

che per voi sono palle da cannone

per nient’altro che frecce da uccelletti.

Sul labbro d’un giullare patentato

non c’è mai spirito di maldicenza,

per quante ingiurie possa egli lanciare;

così come non può trovarsi ingiuria

in un uomo di nota discrezione

se gli avvenga di muover qualche critica.

FESTE -

Ti dia Mercurio il dono di mentire,

visto che parli bene dei giullari.

Entra MARIA

MARIA -

Signora, c’è alla porta un giovinetto

che insiste di voler parlar con voi.

OLIVIA -

È da parte del duca Orsino, vero?

MARIA -

Non so; è un giovane di bell’aspetto

accompagnato da una buona scorta.

OLIVIA -

E chi dei miei s’oppone a farlo entrare?

MARIA -

Ser Tobia, vostro zio.

OLIVIA -

Allontanatelo!

Quello non sa dir altro che scempiaggini.

È una vergogna. Andate voi, Malvolio:

s’è da parte del Duca,

dite che non sto bene… o che son fuori…

insomma dite quello che volete,

purché lo licenziate.

(Esce Malvolio)

(A Feste)

Ora lo puoi vedere anche da te,

birbante, come le tue buffonate

sian divenute ammuffite e stantìe,

e quanto poco sian gradite al prossimo.

FESTE -

Eppure voi, signora, poco fa

avete detto bene dei buffoni,

come se il vostro figlio primogenito

dovrà esserne uno;

ed io non posso che pregare Giove

che ben gli stipi di cervello il cranio,

perché questo che viene,

(Indica Ser Tobia che sta arrivando dal fondo)

anch’egli membro del tuo parentado

ha la pia madre alquanto deboluccia.

Entra ser TOBIA

OLIVIA -

(A parte)

Parola mia, è già mezzo ubriaco.

(Forte)

Chi c’è alla porta, zio?

TOBIA -

Un gentiluomo.

OLIVIA -

Un gentiluomo: chi?

TOBIA -

Un gentiluomo,

che lingua parlo? Ho detto un gentiluomo…

(Rutta)

Maledette le anguille marinate!…

(Al Giullare)

Ohilà, baggiano!

FESTE -

Caro ser Tobia!

OLIVIA -

Eh, zio, zio, ma come può succedere

che vi troviate così di buon’ora

in questo stato di rimbambimento?

TOBIA -

Io, in fermento?… No, sono calmissimo.

C’è qualcuno alla porta, ve l’ho detto.

OLIVIA -

Eh, ma insomma, chi è questo qualcuno?

TOBIA -

Per me può essere anche messer diavolo,

faccia il suo comodo, non m’interessa;

dovete credermi, se ve lo dico,

e se no, fa lo stesso, non m’importa.

(Esce)

OLIVIA -

Buffone, a chi somiglia un ubriaco?

FESTE -

A un annegato, a un grullo, a un mentecatto:

il primo goccio in più lo istupidisce,

il secondo lo fa uscir di senno,

e con il terzo è bello che annegato.

OLIVIA -

Vammi in cerca del Coroner,

che venga ad occuparsi di mio zio,

perché è nel terzo stadio della sbornia,

ed è annegato. Va’, prendine cura.

FESTE -

Per ora è solamente alla pazzia,

e così un matto si prenderà cura

di un altro matto. Ma come va il mondo!

(Esce)

Rientra MALVOLIO

MALVOLIO -

Signora, il giovinetto che sta giù

giura che vuol parlarvi ad ogni costo.

Gli ho detto che stavate poco bene:

s’è dichiarato molto comprensivo

di questo, ma ha aggiunto ch’è per questo

che vi vuole parlare;

gli ho detto che stavate ancora a letto,

e lui, come se fosse a conoscenza

anche di ciò, pare proprio che in ciò

trovi buona ragione per parlarvi.

Che dirgli ancora, mia buona signora?

È corazzato contro ogni ripulsa.

OLIVIA -

Semplicemente che non è possibile.

MALVOLIO -

Gli è stato detto, ma la sua risposta

fu che starà impalato sulla porta

dritto là come un palo di sceriffo,

e ch’è anche disposto salvognuno

a fare da sostegno a una panchina,

ma vuol parlarvi.

OLIVIA -

Ma che uomo è?

MALVOLIO -

Mah, della specie umana.

OLIVIA -

Ed i suoi modi?

MALVOLIO -

Smodati, in verità, quant’altri mai;

vi parlerà, che lo vogliate no.

OLIVIA -

Ma com’è di persona? E di che età?

MALVOLIO -

Non abbastanza adulto per un uomo,

non tanto giovane per un ragazzo,

come un baccello non ancor granato

o una meluzza non ancora mela:

sta in acqua ferma tra il ragazzo e l’uomo.

D’aspetto è assai piacevole, direi,

ma parla che somiglia ad una pica;

si direbbe che ancora ha sulle labbra

il latte della madre.

OLIVIA -

Introducetelo,

e mandatemi la mia damigella.

MALVOLIO -

(Avviandosi ad uscire)

Damigella, vi vuole la signora.

(Esce)

Entra MARIA

OLIVIA -

Maria porgimi il velo.

(Maria le porge il velo nero e le copre la testa)

Ecco, così, abbassalo sul viso…

Vogliamo prepararci ad ascoltare

ancora un’altra ambasceria d’Orsino.

Entra VIOLA

VIOLA -

Qual è di voi l’onorata signora

di questa casa?

OLIVIA -

Dite pure a me,

rispondo io per lei: desiderate?

VIOLA -

O beltà radiosissima, squisita,

impareggiabile, vogliate dirmi

se la signora della casa è qui,

perché non l’ho mai vista di persona

e mi dorrebbe di gettare al vento

il discorso che son venuto a farle;

perché non solo è scritto a perfezione,

ma ho faticato molto ad impararlo.

Amabile beltà, non mi guardate

in questo modo, come se a schernirmi;

sono molto sensibile

anche al più lieve cenno di rudezza.

OLIVIA -

Parlate dunque: da dove venite?

VIOLA -

So dirvi poco più di quanto è scritto

nella mia parte, e la vostra domanda

non c’è. Ma datemi, gentil creatura,

un qualsivoglia cenno di conferma

d’essere voi la padrona di casa,

ch’io possa proseguire il mio discorso.

OLIVIA -

La vostra parte… Siete un commediante?

VIOLA -

Non proprio, mio sagacissimo spirito,

ma giuro sull’impero della frode

di non essere nella realtà

quello del quale recito la parte.

Siete voi la padrona della casa?

OLIVIA -

Se non usurpo me stessa, son io.

VIOLA -

Allora senza dubbio vi usurpate,

perché quello ch’è vostro di natura

affinché ne facciate parte agli altri,

non è vostro per essere serbato

così gelosamente da voi stessa.

Ma tutto questo è fuori dell’oggetto

della mia ambasciata.

Io voglio proseguire il mio discorso

in vostra lode per poi rivelarvi

il cuore del messaggio che vi reco.

OLIVIA -

Al fatto. Dalle lodi vi dispenso.

VIOLA -

Ahimè, se m’è costato di fatica

ad impararlo, ed è molto poetico!

OLIVIA -

Tanto più falso allora, rischia d’essere,

e ipocrita; tenetelo per voi.

Siete stato insolente alla mia porta,

come m’han riferito,

ed io ho consentito a farvi entrare

piuttosto più per la mia curiosità

di veder la persona che eravate,

che di ascoltare ciò che avreste detto.

Se non siete insensato, andate via;

altrimenti, se siete ragionevole,

siate breve: non ho la luna dritta

per dialogare in chiave così frivola.

MARIA -

Volete dunque spiegare le vele,

signore, e filar via? La rotta è questa.

(Indica la porta)

VIOLA -

No, caro mozzo, devo bordeggiare

ancora un poco per questi paraggi.

(A Olivia)

Dite al vostro gigante di calmarsi,

dolce signora.

OLIVIA -

Insomma, che volete?

VIOLA -

Nulla per me; son solo un messaggero.

OLIVIA -

Avrete cose orribili da dirmi,

sicuramente, se l’introduzione

v’impone tanta paurosa cautela.

Parlate dunque. Che volete dirmi?

VIOLA -

È riservato solo al vostro orecchio.

Io non vi reco un annuncio di guerra,

né un avviso di leva di tributi:

stringo il ramo d’olivo nella mano,

le mie son tutte parole di pace.

OLIVIA -

Fu rude il vostro esordio, tuttavia.

Chi siete? Che volete?

VIOLA -

La rudezza nel mio comportamento

qual può essere apparsa, l’ho imparata

da coloro che m’hanno accolto qui.

Quanto a quello che sono e a quel che voglio

come voi mi chiedete, son segreti

come è segreta la verginità:

sacra alle vostre orecchie,

profana a quelle di chiunque altro.

OLIVIA -

(Agli altri)

Lasciateci qui soli,

vogliamo udire questa cosa sacra.

(Escono Maria e gli altri)

Bene, signore, il testo del messaggio?

VIOLA -

Dolcissima signora…

OLIVIA -

Dichiarazione molto incoraggiante,

su cui sarebbe molto da ridire…

Ma il testo del messaggio dove sta?

VIOLA -

Sta nel petto di Orsino.

OLIVIA -

Ah, nel suo petto… Ed in quale capitolo?

VIOLA -

Nel primo del suo cuore,

se vi debbo rispondere con metodo.

OLIVIA -

L’ho già letto. Contiene un’eresia.

Se proprio non avete altro da dirmi…

VIOLA -

Siate buona, signora,

lasciatemi vedere il vostro viso.

OLIVIA -

Avete forse qualche commissione

dalla parte di quel vostro signore

di negoziar qualcosa sul mio viso?

Mi par che adesso voi usciate fuori

dal seminato del vostro messaggio.

Tuttavia alzeremo le cortine

e vi mostriamo il dipinto…

(Si solleva il velo e si scopre il viso)

Ecco, guardate, così ero oggi,

signore. Non credete sia ben fatto?

VIOLA -

Magnifico, se è stato Dio a farlo!

OLIVIA -

Il colore è indelebile, signore,

e resistente al vento e alle intemperie.

VIOLA -

Una bellezza assai bene impastata,

in cui Natura con mano amorosa

e sapiente ha ben fuso il rosso e il bianco.

Siete la più crudele delle donne

se lascerete tutte queste grazie

finir per sempre in fondo ad una tomba

senza lasciarne copia sulla terra.

OLIVIA -

Oh, non sarò tanto dura di cuore!

Farò fare di questa mia bellezza

diverse dettagliate descrizioni:

ne sarà fatto un preciso inventario

e ogni singola minima parcella,

ogni singolo articolo di essa

sarà elencato nel mio testamento.

Così, ad esempio: paragrafo uno:

due labbra di colore rosso-neutro;

comma secondo: un paio d’occhi azzurri

e relative palpebre; ed ancora

comma tre: un collo, un mento e così via.

Siete mandato qui

per far le lodi della mia bellezza?

VIOLA -

Ben m’accorgo che donna siete, ora:

voi siete troppo altera ed orgogliosa.

Ma foste pure il diavolo,

voi siete bella… Il mio signore v’ama.

Oh, un amore così

meriterebbe d’esser ricambiato,

vi proclamassero pure regina

incoronata bella tra le belle!

OLIVIA -

E come m’ama?

VIOLA -

Con adorazione,

fatta di calde lagrime,

di sospiri che tuonano d’amore

e infuocati singhiozzi.

OLIVIA -

Il signor vostro sa com’io la penso:

non posso amarlo, s’anche son cosciente

di quanto nobile e virtuoso sia,

quanto cospicue sian le sue ricchezze

e quanto fresca e ancor del tutto intatta

sia la sua giovinezza,

quanto buona la sua reputazione,

quanto larga ed estesa la sua fama

di liberale generosità,

di buona educazione e di coraggio;

come avvenente sia la sua persona

per forma e proporzioni naturali.

E nondimeno io non posso amarlo.

Egli avrebbe dovuto già da tempo

tener per buona questa mia risposta.

VIOLA -

Se fossi io ad amarvi

con la fiamma che arde il mio padrone,

con la pena che gli tormenta l’animo,

e come lui vivessi, a cagion vostra,

una vita ch’è una continua morte,

non saprei certo trovare alcun senso

in questo vostro ostinato rifiuto:

semplicemente non lo capirei.

OLIVIA -

E che cosa fareste?

VIOLA -

Mi farei costruire una garitta

di rametti di salice intrecciati

sul limitare della vostra porta,

e starei tutto il tempo ad invocare

l’anima mia rinchiusa in queste mura.

Scriverei versi d’amore infelice

e ve li canterei a voce piena

nel cuore della notte;

invocherei agli echeggianti monti

il vostro nome, a udirlo ripercosso,

ed al ciarliero spirito dell’aria

direi d’andar gridando: “Olivia, Olivia”.

Oh, v’assicuro, non avreste pace

tra cielo e terra, senza darmi un segno

della vostra pietà per il mio stato.

OLIVIA -

Voi potreste far molto…

Di che casato siete?

VIOLA-

D’un casato più alto

che non dican la attuali mie fortune;

anche se la presente condizione

non è cattiva: sono un gentiluomo.

OLIVIA -

Bene, tornate dal vostro padrone

e ditegli che io non posso amarlo.

E che non mi spedisca altri messaggi…

a meno che non siate forse voi

a tornar qui da me per riferirmi

come può avere accolto il mio diniego.

Addio, dunque. E grazie del disturbo.

Questo è per voi, spendetelo per me.

(Le porge una borsa di denaro)

VIOLA -

(Respingendo l’offerta)

Non sono un messaggero a pagamento,

signora; riprendetevi la borsa.

Ricompensa non io, ma il padrone

dovrebbe avere da voi.

Amore renda duro come pietra

il cuore di colui a cui darete

il vostro cuore; e possa il vostro ardore

esser per lui oggetto di disprezzo,

com’è per voi quello del mio padrone.

Addio, beltà crudele.

(Esce)

OLIVIA -

“Di che casato siete?”

“Più alto delle attuali mie fortune”

“anche se la presente condizione

“non è cattiva: sono un gentiluomo…”

Eh, son pronta a giurarlo, che lo sei!

Il tuo parlare, il volto, la persona,

i tuoi modi, lo spirito che li anima

ti fanno cinque volte ancor più nobile.

Olivia, piano… non correre troppo…

Ah, fosse il servo al posto del padrone!

Piano, Olivia!… S’apprende dunque al cuore

così rapidamente questo male?…

Mi sento tutto penetrar per gli occhi,

sottilissimo, tacito, furtivo

il fascino di questo giovinetto…

Bene! Che sia così!…

(Chiamando)

Ohilà, Malvolio!

Entra MALVOLIO

MALVOLIO -

Son qua, signora, in che posso servirvi?

OLIVIA -

Correte dietro a quell’impertinente…

sì, voglio dire quel servo del Duca:

m’ha voluto lasciare quest’anello

senza prima curarsi di sapere

se mi fosse gradito o no accettarlo.

Ditegli pure che non so che farne,

che non illuda con vane speranze

il suo padrone. Io non son per lui.

E se ancora vorrà quel giovinetto

tornar domani da me, darò a lui

tutte le mie ragioni. Avete inteso?

Fate presto Malvolio.

MALVOLIO -

Sì, signora.

OLIVIA -

Non so che cosa mi stia succedendo,

ma il mio occhio, ho paura,

ha lusingato troppo la mia mente.

Destino, mostra pure il tuo potere;

noi non siamo padroni di noi stessi.

Quello che è stato decretato, sia!

(Esce)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I - La riva del mare in Illiria

Entrano ANTONIO e SEBASTIAN

ANTONIO -

Non volete fermarvi ancora un poco?

Né volete ch’io possa accompagnarvi?

SEBASTIAN -

No, con vostra pazienza: su di me

le mie stelle rifulgono sinistre,

e l’influsso della mia mala sorte

potrebbe forse influenzar la vostra.

Perciò debbo pregarvi di lasciarmi

a soffrire da solo i miei affanni;

sarebbe una cattiva ricompensa

al vostro affetto, se alcuno di essi

dovesse ricadere su di voi.

ANTONIO -

Ch’io sappia almeno ove siete diretto.

SEBASTIANO -

No, in coscienza signore: il mio viaggiare

sarà solo un vagare senza meta;

ma poiché credo di scorgere in voi

un sì squisito tratto di riserbo

da farmi esser sicuro

che non vorrete estorcere da me

quel ch’io voglio serbar dentro di me

gelosamente, tanto più obbligato

mi sento in spirito di cortesia

a rivelarvi la mia identità.

Sappiate dunque, Antonio,

che il mio nome di nascita è Sebastian,

da me mutato in quello di Rodrigo;

mio padre è stato quel tale Sebastian

da Messalina, del quale anche voi

son certo avrete udito.

Egli lasciò al mondo due figlioli:

mia sorella di nome Viola e me,

nati insieme in un parto gemellare.

Così si fosse pur degnato il cielo

di gemellarci pure nella morte!

E se ciò non è stato, è grazie a voi,

signore, poiché quasi un’ora prima

che voi foste arrivato a trarmi in salvo

dal mare grosso, ella era annegata.

ANTONIO -

Oh, me ne duole!

SEBASTIAN -

Una donna, signore,

che se pur si dicesse da ciascuno

tutta a me somigliante,

assai bella da molti era tenuta;

e se pur, quanto a me, io non mi senta

di condividere interamente

una tale eccessiva ammirazione,

penso di poter spingermi a lodarla

fino a dire che ella possedeva

un animo di cui la stessa Invidia

non avrebbe potuto fare a meno

di dire ch’era nobile e gentile.

Ed è annegata, ahimè, nel salso flutto,

anche s’io penso che in più salso pianto

dovrò annegare il ricordo di lei.

ANTONIO -

Perdonate, signore, la pochezza

del trattamento che ho potuto offrirvi.

SEBASTIAN -

Siete voi che dovete perdonarmi,

Antonio, del fastidio che v’ho dato.

ANTONIO -

Se in cambio dell’affetto dimostratovi,

non mi volete uccidere, signore,

lasciate ch’io vi segua per servirvi.

SEBASTIAN -

Se non volete voi che si disfaccia

quello che fino ad ora avete fatto,

cioè se non volete voi uccidere

colui al quale salvaste la vita,

non mi chiedete questo.