Ecco dell’altro.

(Gli dà altro denaro)

FESTE -

Primo, secundo, tertio…” è un gran bel gioco,

non c’è due senza tre:

e c’è l’antico adagio che sentenzia:

“Il terzo paga per tutti”; e il ternario

è una gagliarda misura di danza;

e le campane di San Benedetto

potrebbero scandirvelo alla mente

con “Uno, due, tre”, continuamente.

ORSINO -

Per questa tua uscita, però, bello,

non riuscirai a cavarmi altro denaro;

ma se vorrai informar la tua padrona

che son qui che desidero parlarle

e riuscirai a condurla qui con te,

ciò potrà forse ridestare alquanto

la mia munificenza a tuo riguardo.

FESTE -

Cullatevela allora per un poco,

signore, la munificenza vostra,

in attesa ch’io torni. Vado e vengo,

ma non vorrei che doveste pensare

che questo mio desiderio d’avere

sia un peccato di venalità;

se però, come dite, nel frattempo,

farete fare alla munificenza

un sonnellino, penserò poi io

a ridestarla in voi fra qualche istante.

(Esce)

Entra ANTONIO, in catene, fra due GUARDIE

VIOLA -

Questo è l’uomo, signore,

cui devo d’esser stata tratta in salvo.

ORSINO -

Questa faccia io la conosco bene;

pur se l’ultima volta che l’ho vista

era, come la faccia di Vulcano,

nera, imbrattata del fumo di guerra.

Comandava una nave

scalcinata per stazza e per pescaggio,

con cui si cimentò in combattimento

con la migliore della nostra flotta,

e l’arrembò e le inferse tali danni

che l’invidia e il clamor della sconfitta

gridarono per lui gloria ed onore.

Ma adesso perché è qui? Che gli è successo?

PRIMA GUARDIA -

Principe, questo è quello stesso Antonio

che catturò il “Fenice”

e tutto il carico del nostro “Candia”,

è quello stesso che arrembò il “Tigre”

il giorno che il nipote vostro, Tito,

ci rimise una gamba.

L’abbiamo catturato qui per strada,

e l’abbiamo arrestato

mentre incurante della sua vergogna

e dei pericoli cui si esponeva,

prendeva parte a una zuffa privata.

VIOLA -

L’ha fatto, mio signore,

per rendere una cortesia a me,

sguainando la spada in mia difesa;

ma poi mi fece uno strano discorso

che non saprei definire altrimenti

che puro vaneggiare.

ORSINO -

Pirata egregio, ladro d’acqua salsa,

qual bislacca insensata braveria

t’ha potuto ridurre alla mercé

di quelli che le tue cruente gesta

han reso tuoi nemici?

ANTONIO -

In primo luogo, nobile signore,

compiacetevi ch’io mi scrolli via

gli appellativi che m’avete dato;

Antonio non fu mai ladro o pirata,

quantunque io vi debba confessare,

sulla base di solide ragioni,

d’esser nemico a Orsino.

Io sono stato tratto fino qui

quasi come per forza d’incantesimo.

L’ingrato giovane che avete al fianco

io l’ho redento dalla bocca irata

e schiumosa del mare screanzato;

non era che un relitto alla deriva,

senza alcuna speranza di salvezza.

Gli ho ridato la vita,

ed a questo ho aggiunto tutto il mio affetto,

senza alcuna riserva o discrezione

interamente dedicato a lui.

Per amor suo - e per questo soltanto -

mi sono esposto al terribile rischio

di aggirarmi per questa città ostile;

ed avendolo visto a un certo punto

a mal partito, assalito da gente,

ho snudato la spada in sua difesa.

È a questo punto che m’hanno arrestato;

e lui, nella sleale sua finzione

- non intendendo correre alcun rischio

d’esser creduto dalla parte mia -

a negar di conoscere chi sono,

e a farmi diventare lì per lì

un qualche cosa di tanto remoto

da essersene perso anche il ricordo

da vent’anni, ed a negare in sovrappiù

d’aver ancora con sé la mia borsa

che gli avevo affidato per suo uso

una mezz’ora prima o giù di lì.

VIOLA -

Che storia è questa? Che dice costui?

ORSINO -

Quando è giunto in città?

ANTONIO -

Oggi, signore; ma fino a poc’anzi,

e durante questi ultimi tre mesi

siamo vissuti insieme, lui ed io,

e giorno e notte, senza interruzione,

senza un solo minuto d’intervallo.

Entra OLIVIA con seguito

ORSINO -

Ecco che viene la contessa Olivia:

il cielo che cammina sulla terra!

(Ad Antonio)

Ma quanto a te, il mio uomo…

le tue parole son pura follia,

dal momento che il giovane che dici

è da più di tre mesi al mio servizio.

Ma di ciò parleremo ancor tra poco.

Per il momento, portatelo via.

(Escono le guardie con Antonio)

OLIVIA -

Che può desiderare il mio signore,

che donna Olivia non possa servirgli,

se non sia cosa ch’egli non può avere?

(A Viola)

Cesario, non teneste la promessa

con me!

VIOLA -

Signora…

ORSINO -

Amabile Olivia…

OLIVIA -

(Sempre a Viola, non badando a Orsino)

Che mi dite, Cesario? Buon signore…

VIOLA -

È il mio signore che vuole parlarvi.

A me il dovere impone di tacere.

OLIVIA -

(A Orsino)

Se si tratta del solito motivo,

esso suona al mio orecchio, mio signore,

altrettanto untuoso e nauseabondo

che il latrato d’un cane

subito dopo il cessar d’una musica.

ORSINO -

Sempre così crudele?

OLIVIA -

Sempre così costante, monsignore.

ORSINO -

Fino ad esser perversa?…

Fino a tanto?… Ah, femmina incivile,

innanzi ai cui altari così ingrati

e per me così poco propizievoli

questa mia anima ha pronunciato i voti

dei più sinceri e teneri legami

che devozione abbia mai formulato!

Che mi resta da fare?

OLIVIA -

Tutto quello che piaccia al mio signore,

e sia degno di lui.

ORSINO -

Perché non potrei fare, a questo punto,

se mi bastasse l’animo di farlo,

quello che fece l’egizio ladrone

del romanzo, sul punto di morire:

uccidere l’oggetto del mio amore?

La gelosia selvaggia

ha talvolta sapor di nobiltà.

Ma ascoltate: dacché della mia fede

m’accorgo che non fate nessun conto,

e poiché credo in parte di conoscere

lo strumento che a forza mi disradica

dal posto che dovrebbe essere il mio

nel vostro cuore, rimanete in vita,

o tiranna dal cuor fatto di pietra;

ma sappiate che questo vostro cocco,

del quale so che siete innamorata,

e che anch’io giuro, nel nome del cielo,

d’amar teneramente,

saprò bene strapparlo da quell’occhio

crudele dove siede da sovrano

a scorno ed a dispetto del padrone.

Ragazzo, andiamo, vieni via con me;

i miei pensieri son ormai maturi

ad ogni maleficio:

sacrifico l’agnello del mio cuore

per dispetto di quel cuore di corvo

racchiuso in un sembiante di colomba.

VIOLA -

Ed io, nella maggior lietezza d’animo,

e la migliore buona volontà,

per ridonarvi la pace del cuore,

sarei pronto a morire mille morti.

(Si avvia dietro Orsino per uscire)

OLIVIA -

Tu dove vai, Cesario,?

VIOLA -

Dietro a colui che amo

più dei miei occhi, più della mia vita,

più - ve lo giuro sopra tutti i più -

di quanto amar potrei anche una moglie.

E se non dico il vero a dire questo,

voi che siete lassù e m’ascoltate,

punite la mia vita,

per aver io macchiato l’amor mio!

OLIVIA -

Ah, falsità! Sono stata ingannata!

VIOLA -

Chi v’ha ingannata? Chi v’ha fatto torto?

OLIVIA -

Sei dunque già dimentico di te?

Tanto tempo è trascorso?

Vada a chiamar qualcuno il santo prete.

(Esce un servo)

ORSINO -

(A Viola)

Andiamo, vieni.

OLIVIA -

Dove, signor mio?

Cesario, sposo, resta.

ORSINO -

Sposo?… Lui?…

OLIVIA -

Sposo, signore! Può egli negarlo?

ORSINO -

(A Viola)

Sei suo sposo, birbante?

VIOLA -

No, mio signore, non io certamente!

OLIVIA -

Ahimè, la tua ignobile paura

strangola in te la tua identità!

Non temere, Cesario,

ma afferra bene la fortuna in pugno,

sii quel che sai di essere,

e sarai grande, almeno tanto grande

quanto colui di cui ora hai paura.

Entra il PRETE

O, benvenuto, padre!

Padre, t’impongo per la reverenza

che t’è dovuta, di far qui palese

- anche se abbiamo testé convenuto

di mantenere il più stretto segreto

su ciò che il corso delle circostanze

ci forza a rivelare innanzi tempo -

tutto quello che, a tua propria nozione,

è intervenuto fra me e questo giovane.

PRETE -

Un contratto d’eterno mutuo amore,

sancito dal reciproco congiungersi

delle mani, attestato dal sacrale

avvicinarsi delle vostre labbra,

rinsaldato dal dono vicendevole

dei vostri anelli e dagli altri rituali

che si convengono ad un tale patto,

con il sigillo della mia presenza,

testimone e ministro di quel rito;

e da quando è successo tutto questo,

il mio orologio, se mi dice il vero,

mi dice ch’io non avrei camminato

più di due ore verso la mia tomba.

ORSINO -

(A Viola)

Ah, tu, piccola volpe ingannatrice!

Che sarai diventato quando il tempo

avrà cosparso il tuo capo di grigio?

O forse che la tua stessa furbizia

sarà cresciuta sì rapidamente

che sarà sufficiente, a rovesciarti,

la stessa foga del tuo sgambettare?

Addio, tòglila pure; d’ora in poi,

però, bada a dirigere i tuoi passi

dove noi due non possiamo incontrarci.

VIOLA -

Vi giuro, mio signore…

OLIVIA -

Non giurare!

Conserva almeno nella tua paura

ancora un briciolo di lealtà!

Entra ser ANDREA, affannato

ANDREA -

Per l’amore di Dio, chiamate un medico!

D’urgenza un medico, per ser Tobia!

OLIVIA -

Che diavolo è successo?

ANDREA -

A me ha mollato un gran fendente in testa,

e a ser Tobia una tale mazzata

in capo, da ridurlo un sanguinaccio!

Per l’amore di Cristo, soccorreteci!

Ah, darei più di quaranta sterline

per potermi trovare a casa mia!

OLIVIA -

E chi v’ha procurato tutto questo?

ANDREA -

Quel valletto del Duca, quel Cesario.

Credevamo che fosse un’animella,

e invece è un vero diavolo incarnato!

ORSINO -

Cesario, il mio valletto, avete detto?

ANDREA -

Ma sì, eccolo là, corpo d’un cane!

(Indica Viola, a cui si rivolge)

M’avete rotto il capo,

senza che ve ne fosse alcun motivo;

e quel che ho fatto l’ho fatto soltanto

perché istigato a ciò da ser Tobia.

VIOLA -

E lo venite a raccontare a me?

Io non v’ho fatto mai nulla di male.

Foste voi a snudar senza ragione

contro di me la spada.

Io v’ho rivolto parole di pace,

né v’ho fatto alcun male.

ANDREA -

Se una zucca percossa e insanguinata

è male, voi m’avete fatto male;

o per voi una zucca insanguinata

penso non voglia dire proprio niente.

Entrano ser TOBIA, in stato di evidente ubriachezza,

e il GIULLARE

Eccolo, ser Tobia, mezzo azzoppato;

ne sentirete dell’altre da lui:

(A Viola)

che, se non fosse stato un po’ bevuto,

vi avrebbe certamente titillato

in tutt’altra maniera. Ma sentiamo…

ORSINO -

Ordunque, cavaliere, che è successo?

TOBIA -

Roba da niente. Solo una ferita,

e nient’altro.

(Al Giullare)

E tu, sciocco d’un buffone,

l’hai chiamato si o no Dick il chirurgo?

FESTE -

Oh, quello è sbronzo già da più di un’ora,

ser Tobia. Alle otto stamattina

già non scerneva più!

TOBIA -

E allora è un gran birbante, un pass’e mezzo,

un passo di pavana;

odio i birbanti quando sono sbronzi.

OLIVIA -

Conducetelo via!

Ma chi li ha mai conciati in questo stato?

ANDREA -

Su, andiamo, ser Tobia, v’aiuto io.

Dobbiamo farci medicare entrambi.

TOBIA -

Tu, aiutarmi, testa di somaro?

Zuccone, farabutto, gran babbeo,

allampanato muso di canaglia!

OLIVIA -

Via, portatelo a letto,

e medicategli quelle ferite.

(Escono, sorreggendo ser Tobia, il Giullare,

Fabiano e ser Andrea)

Entra SEBASTIAN

SEBASTIAN -

Mia cara, mi dispiace immensamente

d’aver fatto del male a vostro zio;

ma fosse stato pure mio fratello,

non mi sarei comportato altrimenti,

sia per prudenza che per sicurezza…

Ma che sono codeste strane occhiate

che mi lanciate?… Ho fatto forse cosa

che possa avervi offeso?

Se così è, mia cara, perdonatemi,

in nome di quei dolci giuramenti

che ci siamo scambiati poco fa.

ORSINO -

Un sol volto, un sol tono della voce,

un sol vestito, eppure due persone…

Bizzarra naturale prospettiva,

qualche cosa che è e che non è!…

Rientra ANTONIO, solo

SEBASTIAN -

Oh, Antonio, caro Antonio,

sapessi che torture, che tormenti,

ho sopportato dacché t’ho perduto!

ANTONIO -

Ma siete voi Sebastian?

SEBASTIAN -

Temi forse ch’io non lo sia, Antonio?

ANTONIO -

Che diavolo di sdoppiamento è questo?

Una mela spaccata per metà

non offrirebbe due metà più identiche

l’una all’altra di queste due creature.

Chi è di voi Sebastian?

OLIVIA -

Incredibile!

SEBASTIAN -

(Indicando Viola/ Cesario)

Come posso esser io quello laggiù?

Io non ho avuto mai alcun fratello,

e non ho il dono dell’ubiquità

sì da stare qua e là allo stesso tempo.

Avevo una sorella,

che l’onda cieca del mare ha inghiottito.

(A Viola)

Dite, per carità, qual parentela

avete voi con me? Donde venite?

Che nome avete? Di chi siete figlio?

VIOLA -

Vengo dalla città di Messalina,

e il nome di mio padre era Sebastian;

e si chiamò Sebastian mio fratello,

che vestito così come voi siete

discese nella sua equorea tomba.

Se gli spiriti, oltre ad una forma,

possono assumere anche un vestito,

voi apparite qui per spaventarci.

SEBASTIAN -

E uno spirito sono, senza dubbio,

ma rivestito, sia pur rozzamente,

di quella forma di cui fui partecipe

nel grembo di mia madre.

E vi dico che se voi foste donna,

come tutto concorre ad indicare,

darei libero sfogo alle mie lacrime

sopra le vostre guance

e vi direi: “Tre volte bentrovata,

Viola annegata, e a me restituita!”

VIOLA -

Mio padre aveva un neo qui, sulla fronte.

SEBASTIAN -

Anche il mio.

VIOLA -

E morì lo stesso giorno

che Viola avea compiuto i tredici anni.

SEBASTIAN -

Oh, ben è vivo ancor nella mia anima

questo ricordo! Sì, è vero, mio padre

finì l’ultimo atto di sua vita

proprio il giorno che mia sorella Viola

compiva i tredici anni.

VIOLA -

Pur se nulla, se non quest’usurpato

abito mascolino ch’io ho indosso,

impedisca a noi due di rallegrarci,

non abbracciarmi come tua sorella

fino a quando le varie circostanze

e di luogo e di tempo e di fortuna

non concordino a dir ch’io sono Viola;

ma per dartene l’ultima conferma

io t’accompagnerò da un capitano

di mare che abita in questa città,

presso il quale si trovano riposti

i miei vecchi indumenti di ragazza

e grazie al cui generoso soccorso

ebbi salva la vita,

e potei anche venire al servizio

di questo nobil Duca. Da quel giorno,

tutto quello che poi m’è capitato

ha avuto testimoni tutti i giorni

questa signora e questo gentiluomo.

SEBASTIAN -

(A Olivia)

Ecco, dunque, signora,

l’origine di tutto il vostro inganno;

ma la natura ha saputo trovare

frammezzo a tutto questo la sua via:

volevate promettervi in isposa

a una fanciulla, né, sulla mia vita,

potete dirvi per questo delusa,

perché vi ritrovate ora promessa

a una fanciulla e ad un uomo ad un tempo.

ORSINO -

(A Olivia)

Non esitate, egli è di sangue nobile.

Se veramente tutto sta così

come per che dimostri la realtà

di questo inganno a specchio,

avrò io stesso una parte felice

in questo felicissimo naufragio.

(A Viola)

Ragazzo, tu m’hai detto mille volte

che non potresti amar nessuna donna

come ameresti me.

VIOLA -

E son pronta a giurarlo ora di nuovo

e serbar vivi questi giuramenti

dentro l’anima mia, con la certezza

con cui l’orbe celeste serba il fuoco

che tien diviso il giorno dalla notte.

ORSINO -

Dammi la mano e fa’ ch’io ti riveda

nelle vesti da donna che son tue.

VIOLA -

Le mie vesti da donna

son presso il capitano della nave

che mi portò per prima in salvo a riva.

Egli però si trova ora in prigione

in seguito a denuncia di Malvolio,

uno del seguito della signora.

OLIVIA -

Gli farò ritrattare la denuncia.

Chiamatemi Malvolio… Ahimè, che dico!

Mi viene in mente che quel poveretto

è uscito fuor di senno, a quanto dicono…

Il grande smarrimento di me stessa

m’ha fatto uscir di mente quello suo.

Entra il GIULLARE recando una lettera, poi FABIANO

Ebbene, come sta ora?

FESTE -

Se devo dir la verità, signora,

riesce ancora a tenere a distanza

Belzebù, per quel tanto che è possibile

ad un cristiano in quelle condizioni.

Ho qui una sua lettera per voi;

avrei dovuto darvela stamane,

ma siccome le lettere dei pazzi

non son davvero passi del vangelo,

la lor consegna in un’ora o in un’altra

non ha molta importanza.

OLIVIA -

Aprila e leggila forte tu stesso.

FESTE -

Preparatevi allora a edificarvi,

sarò il buffone che recita il matto.

(Leggendo a voce alta)

“In nome del Signore Iddio, signora…”

OLIVIA -

Che urli! Sei impazzito?

FESTE -

No, signora, ma leggo la pazzia;

e se vossignoria la vuol sentire

come dovrebbe essere sentita,

deve permettermi di darle voce.

OLIVIA -

Su, su, ti prego di leggere a modo.

FESTE -

È quel che faccio: recitare a modo

vuol dire proprio leggere così.

Conciossiaché, mia cara principessa,

prestatemi un orecchio comprensivo.

OLIVIA -

(Strappa la lettera dalle mani del Giullare

e la porge a Fabiano)

Leggila tu, messere.

FABIANO -

(Leggendo)

“In nome del Signore Iddio, signora,

“voi mi trattate in modo sconvenevole,

“e tutto il mondo lo verrà a sapere.

“M’avete relegato nella tenebra

“e m’avete lasciato alla mercé

“di quell’ubriacone impenitente

“di vostro zio; eppure v’assicuro

“ch’io mi trovo nel pieno godimento

“del benefizio della mia ragione

“almeno quanto lo siate voi stessa.

“Ho tra le mani quella vostra lettera

“chi m’indusse ad assumere l’aspetto

“che ho assunto; con la quale lettera

“non dubito di poter dare a me

“piena soddisfazione,

“o di gettar su voi piena vergogna.

“Pensate pur di me quel che vi piace.

“Nel dirvi questo vi potrà sembrare

“ch’io lasci un po’ da parte il mio dovere

“verso di voi, ma parlo sotto il peso

“dell’offesa subita.

“Il maltrattato e umiliato MALVOLIO”

OLIVIA -

Dice proprio così?

FESTE -

Così, signora.

ORSINO -

Questo sa molto poco di pazzia.

OLIVIA -

Fabiano, fallo liberare subito

e conducilo qui davanti a me.

(Esce Fabiano)

(A Orsino)

Mio signore, vogliate compiacervi,

ripensando con animo sereno

agli eventi che si son succeduti,

di riguardare a me, da ora in poi,

siccome a una sorella,

al modo che m’aveste riguardato

se fossi divenuta vostra moglie;

ed uno stesso giorno, se vi piaccia,

coronerà l’unione, in casa mia

ed a mie spese, delle nostre coppie.

ORSINO -

Madama, sono pronto ad accettare

di tutto cuore questa vostra offerta.

(A Viola)

Cesario, il tuo padrone ti licenzia,

ma pei molti servizi che gli hai resi

sì poco confacenti alla sostanza

del tuo sesso e di gran lunga inferiori

alla tua raffinata educazione,

ti porge la sua mano:

tu sarai d’ora innanzi la padrona

di questo tuo padrone.

OLIVIA -

E a me sorella, come già lo sei!

(Olivia e Viola si baciano)

Rientra FABIANO con MALVOLIO

ORSINO -

Costui sarebbe il pazzo?

OLIVIA -

Sì, mio signore, lui. Dunque, Malvolio?

MALVOLIO -

Signora, voi m’avete fatto torto.

E torto grave.

OLIVIA -

Io, Malvolio? No.

MALVOLIO -

Sì, signora, è così.

Leggete, ve ne prego, questa lettera.

(Estrae dal giubbetto una lettera e la mostra a Olivia)

È la vostra scrittura, non negatelo;

provate a scrivere diversamente,

sia quanto alla mano che allo stile,

se vi riesce, e non venite a dirmi

che codesto sigillo non è vostro

né vostro è il contenuto della lettera.

Non potete negar nulla di simile;

e dunque, ammesso questo,

dichiaratemi, in tutta la modestia

che possa comandarvi il vostro onore,

perché m’avete offerto tanti segni

chiari e lampanti del vostro favore

fino ad ingiungermi di comparire

a voi davanti col sorriso in bocca,

le giarrettiere a croce,

e con la calze gialle ai miei polpacci;

e di atteggiarmi a severo cipiglio

con ser Tobia e con i vostri servi?

E poi che m’ero lealmente indotto

ad eseguir con animo obbediente

e speranzoso questi ordini vostri,

come avete potuto consentire

ch’io fossi relegato in una stanza,

al buio, visitato poi da un prete,

e ridotto il più celebre dei gonzi

e dei babbei che mai fu gabellato?

Ditemi, dunque, perché tutto questo?

OLIVIA -

Ahimè, Malvolio, questa non è affatto

la mia scrittura, se pur riconosco

che le assomiglia molto: fuor di dubbio,

questa è proprio la mano di Maria.

Fu ella, infatti, adesso che ci penso,

a recarmi per prima la notizia

che voi davate segni di pazzia.

Non andò molto che appariste voi

sfoggiando un gran sorriso

e camuffato in quella stessa guisa

ch’era prescritta in quella stessa lettera.

State tranquillo adesso, ve ne prego;

questa burla v’è stata combinata,

lo riconosco, in modo assai crudele;

quando però verremo a conoscenza

anche delle ragioni e degli autori,

sarete insieme querelante e giudice.

FABIANO -

Ora ascoltate me, buona signora,

e non lasciate che alcuna querela

o alcuna lite vengano a turbare

l’atmosfera gioiosa di quest’ora

che ci riempie di lieto stupore.

Nella speranza che ciò non succeda,

io vi confesso con tutta franchezza

che ser Tobia ed io siamo gli autori

della burla alle spalle di Malvolio

e che l’abbiamo apposta architettata

per vendicarci di certe maniere

scortesi e rudi di questo signore.

La lettera fu scritta da Maria

dietro insistente sollecitazione

di ser Tobia, il quale per compenso

di tutto questo se l’è presa in moglie.

Il fatto che ne possa esser seguito

uno spasso di stampo un po’ maligno

può meglio suscitare ilarità

che non proponimenti di vendetta,

a voler misurar con egual metro

i torti fatti da una parte all’altra.

OLIVIA -

(A Malvolio)

Ah, come v’han giocato, poveretto!

FESTE -

Così è la vita: “alcuni nascon grandi,

altri ci arrivano a grado a grado

ed altri ci si trovano costretti…”

Anch’io, signore, ho avuto la mia parte

in questo strano interludio, la parte

d’un certo prete don Topas, signore,

ma questa è cosa di poca importanza.

“Perdio, Giullare, io non sono un pazzo!…

Ricordate? “Signora, non ridete

delle sciocchezze di certa canaglia;

se non ridete e non gli offrite il destro

di riprendersi, è bell’e imbavagliato.

Deve pure recar le sue vendette

la trottola implacabile del tempo!

MALVOLIO -

Saprò ben vendicarmi di voi tutti.

(Esce)

OLIVIA -

Certo che è stato beffeggiato a morte.

ORSINO -

Qualcuno gli si metta alle calcagna

e lo convinca a rappacificarsi:

ancora egli non ci ha detto nulla

del capitano. Quando anche di questo

sapremo che il suo caso sia risolto,

e l’aureo momento sia propizio,

celebreremo in gran solennità

l’unione delle nostre care anime.

Nel frattempo, sorella mia dolcissima,

noi non andremo certo via di qua.

Cesario, vieni: ché tale sarai

fino a che manterrai l’aspetto d’uomo;

ma quando apparirai sotto altra veste

d’Orsino tu sarai la donna amata

e l’unica regina del suo cuore.

(Escono tutti meno il Giullare)

FESTE -

Ai dì ch’ero fanciullo

“in mezzo a pioggia e vento

“di una cosa da niente

“facevo il mio trastullo.

“E la pioggia cadeva

“un giorno dopo l’altro.

“Ma poi, tra pioggia e vento

“divenni un uomo forte,

“per paura dei ladri

“si sprangavan le porte.

“E la pioggia cadeva

“un giorno dopo l’altro.

“Poi quando fu il momento

“di dovermi accasare,

“in mezzo a pioggia e vento

“non potei più campare,

“e andavo per le strade

“a fare smargiassate.

“E la pioggia cadeva

“un giorno dopo l’altro.

“Al fine, vagabondo,

“della vita al tramonto,

“me ne stavo ubriaco

“in mezzo agli ubriachi.

“E la pioggia cadeva

“un giorno dopo l’altro.

“Il mondo nascimento

“ebbe tanti anni fa

“in mezzo a pioggia e vento.

“Ma che importanza ha?

“La commedia è finita,

“noi non cercammo altro

“che allietarvi la vita,

“un giorno dopo l’altro.”

 

 

 

 

FINE

(1) Vale la pena di riportarne uno dei più autorevoli, Gabriele Baldini (BUR Rizzoli, Milano 1983) secondo il quale il titolo “… allude all’atmosfera di spensieratezza e di gaia relatività di ogni valore che caratterizza il periodo fra il Natale e lo scoccare della “dodicesima notte”, cioè la veglia dell’Epifania. Era questo, al tempo di Shakespeare, il periodo delle feste di corte in cui rivivevano tenui bagliori delle antiche festività pagane.” Suggestivo, ma fantasioso e arbitrario; così il titolo dell’edizione francese della commedia che è addirittura “La notte dell’Epifania” (“La nuit des rois”). Arbitrario, per arbitrario, perché non si sarebbe dovuto ispirare Shakespeare per il titolo, alle parole della ballata che canta ser Tobia (II, 3, 81) “Nel dodicesimo dì di dicembre…” (“O’ the twelfth day of December”)?

(2) Le altre sono: “Il mercante di Venezia”, “Le gaie mogli di Windsor”, “Come vi piaccia”, Tutto è bene quel che finisce bene”; il canone dell’Alexander mette però “Tutto è bene” per ultima.

(3) Una testimonianza recente a conforto di questa tesi è venuta dalla illustre attrice inglese Vanessa Redgrave, che, mentre redigiamo queste note, sta recitando a Londra, al teatro del “Globe”, la parte di Prospero della “Tempesta”. Gli inglesi, per le rappresentazioni shakespeariane e degli altri drammaturghi elisabettiani hanno voluto ricostruire dalle fondamenta lo stesso teatro – il “Globe”, appunto – in cui recitava alla fine del ’500 - principi del ’600 la compagnia dei “King’s Men”, “Attori della compagnia del re”) della quale lo stesso Shakespeare faceva parte. “Vedere una commedia qui – afferma la Redgrave – è tutt’altra cosa; nel senso che s’instaura una forte comunicazione fra attori e pubblico per via dello spazio circolare; e la gente, soprattutto quella in piedi al centro, può quasi toccare gli attori, può anche bere una birra durante lo spettacolo; e può parlare, tant’è vero che in certi casi al “Globe” vengono fuori battute estemporanee fra palcoscenico e pubblico. (Intervista al quotidiano “La Repubblica” del 27 maggio 2000).

([4]) “… like the sweet sound/ that breaths upon a bank of violets..”: “sound” è qui “il suono del vento”.

(5) Primo guizzante “pun”, che sfrutta l’omofonia di “hart”, “cervo” e “heart”, “cuore”. Curio ha chiesto ad Orsino se vada a caccia del cervo; Orsino intende “cervo” per “cuore” e dice che a quello (quello suo) la caccia è sempre aperta; perché – come spiega subito dopo – il suo cuore, la parte più nobile di lui (“the noblest that I have”) è continuamente braccato e inseguito dal suo desiderio di Olivia.

(6) Lo strale di Cupido, s’intende.

(7) “… like Arion on the dolphin back.”: Arione, il mitico cantore e citaredo ricordato da Ovidio nei “Fasti”, II, 3 e segg., e da Igino nella sua 124.ma favola che così ne parla: “Il divino citaredo fu ospite per lungo tempo di Periandro, re di Corinto, e quando lasciò la reggia ebbe dal re grandi ricchezze. I marinai della nave che lo riconduceva in patria a Lesbo, volendosi impadronire del tesoro, progettarono di ucciderlo. Ma Arione, avvertito in sogno da Apollo, quando la ciurma si impadronì di lui per ucciderlo, chiese di poter suonare per l’ultima volta il suo strumento. Attirati dal suono della cetra alcuni delfini circondarono la nave; il giovane, appena li vide, si gettò in mare e fu da uno di loro trasportato in groppa a Corinto”.

(8) “… and your mute I’ll be”: è la metafora dell’harem applicata alla corte del duca Orsino: ai guardiani dei serragli dei principi arabi si mozzava la lingua perché non potessero riferire quello che vedevano.

(9)He hat indeed, almost natural”: qui “natural”, che Maria riprende da “gifts of nature”, “doni di natura” della precedente battuta di Tobia, sta nel suo significato di “fool”, “lackbrain”, “stolta”, “scervellata”.

(10) “… like a parish-top”: cioè fino ad ubriacarsi; il cervello che gira dopo avere trincato è paragonato alla banderuola di ferro, a forma di sagoma di gallo, che sulle cuspidi dei campanili delle chiese si muove su un perno ad indicare la direzione del vento.

(11) Espressione spagnola che significa press’a poco: “Non dar retta alle chiacchiere della gente!”. Alcuni leggono “Castiliano vulto”, dove l’ablativo in “o” sarebbe della forma secondaria “vultum”, con che ser Tobia vorrebbe dire: “Atteggiamo il volto alla castigliana!”, vedendo arrivare ser Andrea. Scelga il lettore.

(12)… a cup of canary”: la canaria (o il canario), il vino spagnolo prodotto nelle isole Canarie, molto in voga nell’Inghilterra del tempo.

(13) “… and bear-baiting”: era una forma di spettacolo nel quale un orso legato ad un palo veniva lasciato aggredire da una muta di cani.

(14) Il testo ha “the Count”, “il Conte”, ma si capisce che si tratta del duca Orsino. Non c’è altro “conte” di cui si parli. Si sa che Shakespeare non sottilizza troppo sui titoli di duca, principe, marchese, conte, come nei gradi militari di capitano, generale, comandante e simili.

(15)I can cut a caper” – “And I can cut a mutton too”: “Io so tagliare la capriola” “Ed io so tagliare la candela”; sono espressioni del gergo della danza, per indicare una delle figure della “gagliarda” (una danza vivace di origine italiana) consistente nel “cutting”, cioè nel sollevare i piedi alternativamente e girarli rapidamente uno di fronte all’altro con il movimento di una lama che tagli. La figura è tuttora presente in alcune danze scozzesi.

(16) “… the back-trick”: altra figura acrobatica di danza consistente in una specie di capriola all’indietro.

(17) “… in a coranto”: la corrente, altra danza di origine italiana, assai in voga all’epoca.

(18)… like Mistress’ Mall picture”: “Mistress Mall” era l’appellativo che si dava ad un prostituta quando non se ne conosceva il nome. Il ritratto di Madama Mall è soggetto alla polvere perché è esposto alla vista di tutti.

(19) “… a jig”: la giga, altra danza, di andamento vivace, di origine irlandese.

(20) Shakespeare evoca ogni tanto immagini teatrali. Qui per meglio intendere quello cha fa dire da Orsino a Viola, che Orsino crede un uomo, giova ricordare che nel teatro elisabettiano le parti femminili erano affidate a giovani imberbi, alle donne essendo interdetto di calcare le scene.

(21)“A good lenten answer”: cioè risposta magra, insipida, priva di succo e di sale, come i cibi che si mangiano durante la quaresima.

(22) “Sì, come le tue braghe” non è nel testo; Maria interpreta i “due punti” sui quali il Giullare dice di tenersi su (“resolved”) come i due bottoni che gli reggono le braghe.

(23) È un nome chiaramente inventato da Shakespeare.

(24) “… let the botcher mend him”: “botcher” è il termine col quale gli inglesi indicano il sarto che rammenda gli abiti usati e il ciabattino che fa solo riparazione di scarpe rotte; all’infuori della forma dialettale toscana di “capponaio” non esiste in italiano un termine equivalente, all’infuori del generico “rammendatore”. Il testo gioca sul doppio significato di “to mend” che vale “emendare”, “emendarsi” e anche “rammendare”.

(25) Latino per: “L’abito non fa il monaco”. “Cucullus” è il cappuccio dell’abito monacale.

(26) Una delle tre meningi del cervello: la parte per il tutto.

(27) S’è dovuto, per ragioni di consonanza semantica, cambiare totalmente lo spirito di queste due battute, che nel testo è il seguente: Olivia ha detto a Tobia: “Com’è che vi siete svegliato così per tempo in questo stato di letargo (“lethargy”)?” Ser Tobia capisce “lechery” e intende: “… in questo stato di lascivia (gozzoviglia, deboscia)”, e perciò risponde: “I defy lechery”, “Io sono contro la deboscia”. S’è risolto in qualche modo, ma certo poveramente, con la consonanza “rimbambimento”/“fermento”.

(28)Go thou and seek the crowner”: Il “crowner” (o “coroner”) era in Inghilterra (non nell’Illiria di Olivia) il funzionario di contea, distretto o comune incaricato delle funzioni di pubblico ministero.

(29) “… like a sheriff post”: lo “sheriff post” era il palo di legno messo come insegna davanti alla porta dell’ufficio dello sceriffo (sindaco) della città.

(30) “… and yet, by the very fangs of malice I swear…”: Viola agisce sotto l’impero (“fang”) dell’inganno che le impone di essere diversa da quella che è in realtà; su di esso giura.

(31) “… your giant”: allusione al gigante guardiano della bella dama delle favolistica medioevale.

(32) Il motivo del salice, come simbolo dell’amore perduto o disperato è assai frequente in Shakespeare (“Otello”, IV, 3; “Tanto trambusto per nulla”, II, 1; “Amleto”, IV, 1, e passim altrove).

(33) “… that Sebastian of Messaline”: “Messaline” è nome, non si sa se di città, provincia o regione, inventato da Shakespeare.

(34) “… so near the manner of my mother”: cioè “… sono così presso a piangere”, come una femmina.

(35) Ser Tobia fa sfoggio di erudizione: sono le parole iniziali del noto brocardo latino “Diliculo surgere saluberrimum est”, “È cosa saluberrima alzarsi presto al mattino”. Lo stesso motivo in “Cimbelino”, II, 3, 33-34: “I am glad I was so late, for that’s the reason I was up so early”, “Son contento di aver fatto così tardi, così mi ritrovo all’impiedi di buon’ora”.

(36) Ser Tobia continua a sfoggiare erudizione, e adesso allude, verosimilmente, alla dottrina di Eraclito di Efeso, secondo cui gli elementi della vita sulla terra sono quattro: aria, acqua, terra e fuoco. Ma che cosa c’entri questo discorso con lo stare in piedi dopo mezzanotte, non si sa.

(37) Sulle insegne di certe osterie erano disegnati due ubriachi, e sotto, per chi guardasse, la scritta “Siamo in tre” (“We three”).

(38) Tutti questi nomi sono immaginari, non si capisce se inventati dal Giullare nel raccontare la sua “storiella”, o se ricordati così da ser Andrea sotto l’effetto di una sbornia.

(39)I did impeticos thy gratility”: “impeticos” è forma verbale di tono burlesco da “to impocket”, “mettere in tasca”; “gratility” è del pari una deformazione burlesca di “gratuity”, “largizione”, “appannaggio”.

(40) Il senso di quest’ultima frase è oscuro: forse il Giullare si riferisce – come sembra credere il Lodovici (Einaudi, 1964) – a qualche locale malfamato da non potersi frequentare comunemente come una semplice birreria.

(41) “… in a catch that will draw three souls out of one weaver?”: il “catch” (detto anche “round”) è una forma musicale, una specie di canzone a forma di canone, in cui, tra più voci, una si alterna all’altra cantando la stessa melodia, come in Toscana e nel Lazio gli stornellatori. Così cantavano i tessitori (“weavers”), ossia gli addetti alle filande, che erano per lo più calvinisti dei Paesi Bassi rifugiatisi in Inghilterra dalle persecuzioni dei dominatori spagnoli.

(42) “… some dogs will catch well”: ser Andrea gioca sul doppio significato di “catch” che vale “ritornello” e “caccia” e dice che certi cani sanno ben cacciare, per dire che molti sono i cantanti che cantano da cani.