Ma poi, evidentemente, malgrado l'intenzione dichiarata, l'Autore, come si vedrà, non riuscì a decidersi a «spacciare il prete». Gli ripugnava certamente; e sarebbe stato di cattivo gusto, oltre che inadeguato, visto che quel povero Sir Oliver, tutt'altro che una figura eroica, non era che uno strumento nelle mani di un padrone spietato, e una consapevole, tormentata, miserabile creatura Tuttavia, parecchi mesi dopo, Stevenson capitò a Londra e non poté resistere, accompagnato dal suo editore, a far visita a quel suo simpatico «Lettore».

 

Nel 1887 il romanzo fu pubblicato a puntate in America sotto diverso titolo; quindi apparve in volume, col titolo originale e definitivo, nel 1888 in Inghilterra e in America. I pareri della critica contemporanea, come quasi sempre avviene per i libri che diverranno famosi, furono discordi: quali delusi e in attesa di qualcosa di meglio da un giovane scrittore già così affermato, quali entusiastici.

 

E Stevenson, come s'è visto, si schierò con i primi, dicendo che sì "The Black Arrow" non poteva proprio dirsi opera di genio.

Ma noi sappiamo che, sebbene le puntate fossero scritte di getto e «per far quattrini», il genio di Stevenson informa questo romanzo di tutte le sue doti naturali: nella deliziosa scorrevolezza dell'intreccio, nella coerente caratterizzazione dei personaggi, nel fremito leggero dell'umorismo che tocca qua e là circostanze e persone dando più umana vivacità alla vicenda e più tragicità alla tragedia dei tempi; e nella continuità affascinante di quel che oggi si chiamerebbe "suspense", interrotto, fra le pennellate rosse del sangue e il guizzo dell'acciaio, dalle serene oasi coloristiche di cui l'Autore è maestro: l'inconsapevole verde dei prati disseminato di pecore innocenti, il balzo spaurito del daino nei placidi boschi invasi dal vento e dal ronzio delle frecce, il grigiore tempestoso del mare nordico, il bianco e nero profuso nelle scene del porto di notte con la neve e nelle cavalcate sul manto ghiacciato, fra i rami scheletriti della foresta sotto la luna.

 

Stevenson situò la sua storia al tempo della guerra delle Due Rose, traendo il materiale dalla memoria dei suoi studi prediletti sul quindicesimo secolo e da opere quali la corrispondenza della famiglia Paston ("Paston Letters") e il Processo di Giovanna d'Arco. La guerra delle Due Rose fra la casa di York e la casa di Lancaster, le due famiglie alleate alla casa reale che si contesero per trent'anni il potere e la corona, cominciò nel 1455, due anni dopo la conclusione della guerra dei cent'anni. Tornarono gli eserciti dalla Francia e riempirono l'Inghilterra di cavalieri e di arcieri ormai abituati alla guerra, alla licenza, al saccheggio, alla cupidigia soddisfatta senza scrupoli. E un tratto caratteristico di questo riaccendersi d'anarchia in una società civilizzata fu il combinarsi della male intenzionata cavillosità legale con la violenza militare. Sotto Enrico Quarto, al tempo in cui si svolge "The Black Arrow" quasi tutti i baroni con il cuore più o meno «nero», e il loro seguito di armigeri e giuristi, assomigliano molto da vicino a Sir Daniel Brackley.

 

E se è vero che il gusto della bellezza in genere si accentuò in quell'epoca e la cultura si diffuse, il costume brillava di «cavalleria» soltanto sulle corazze e nell'esaltazione della creazione artistica, frutto forse della frustrazione di un'intima esigenza non confessata. E lo Stevenson, anche senza approfondirsi in particolari spiegazioni, con semplici tocchi di fatti e di dialogo ricrea quell'atmosfera nella naturalezza con la quale veniva vissuta, anche se combattuta nei suoi effetti, se appena possibile.

Così, senza che l'opinione pubblica se ne risentisse minimamente, i mariti battevano senza vergogna le mogli, nelle umili quanto nelle più alte classi sociali, per un loro riconosciuto diritto; e le figlie che rifiutassero di sposare l'uomo scelto dai genitori potevano essere rinchiuse, percosse, tormentate. Il matrimonio non era considerato più che un affare più o meno vantaggioso da combinare tra le famiglie, specialmente nelle classi di rango superiore, cosiddette «cavalleresche»; e i fidanzamenti avevano luogo assai spesso quando gl'interessati erano ancora in culla, per unirli in matrimonio quando si erano da poco distaccati dalle braccia della nutrice.

 

Dick, il bravo Dick, l'eroe del romanzo, così spontaneamente partecipe del costume e della morale dell'epoca, ma così ingenuo nel suo prode ardimento, così assetato di giustizia, così puro nel cuore, così fedele a se stesso e a tutte le verità che conosce e che intuisce attraverso il velo di cui l'offusca la cieca avidità umana, ancora una volta rappresenta fra i personaggi di Stevenson, il suo composto ideale del gentiluomo di tutti i tempi, cavalleresco e cristiano.

 

E Senzalegge, ancora una volta anche lui, è l'efficacissimo rappresentante di un altro tipo caro all'Autore: il briccone spensierato e millantatore, che si gloria dei suoi vizi, anche se con qualche malinconia, e agisce spavaldamente in conformità, ma senza mai ledere suo malgrado la coraggiosa leale onestà che è virtù celata dell'indole: tant'è vero che l'umorismo del suo creatore, quando alla fine Senzalegge ritorna sul serio a farsi monaco, gli regala il nome di fratello Onesto.

 

Ma fra tutti i personaggi, Richard il Gobbo, il futuro famigerato Riccardo Terzo, anche se figura di passaggio nel racconto, è quello forse su cui più incide l'unghiata del genio, il più accuratamente e perfettamente finito. Del resto lo stesso Stevenson confessa di aver sempre sentito attratta l'immaginazione da quel patetico deforme con il complesso della sua deformità, da quella «diabolica energia» assetata d'ambizione e di sangue. Anche Dick ne subisce il fascino; eppure non può nascondersi lo spavento per quell'«insano eccitamento», quel coraggio e quella crudeltà che facevano temere per l'avvenire: «... dopo la battaglia, nei giorni della pace, e nella cerchia degli amici fidati, c'era da temere che quello spirito continuasse a generare i frutti della morte»; e l'avversione che ne prova risulta nella saggia indifferenza per il fatto di aver volontariamente perduto il favore di quel cavaliere «terrificante».

 

Dick si è fatto uomo, alla fine del racconto; ha aperto gli occhi e il cuore; quand'era già tutto soddisfatto d'aver perduto tanto importante favore per salvare la vita ad Arblaster, il padrone della «Buona Speranza», la bella nave che Dick stesso aveva fatto rubare e trascinato alla distruzione per l'incalzare degli eventi, capisce che non poteva e non doveva fare altrimenti, ma è frustrato nell'illusione del facile lieto fine da sposare alla coscienza pacificata; capisce «il gioco disperato che noi giochiamo nella vita, e come una cosa una volta fatta non possa essere mutata o rimediata da nessun pentimento».

L'immagine finale di Arblaster pensionato felice non cancellerà mai quella del povero capitano che, ancora mezzo ubriaco, dice di non saper che farsene dell'aver avuto salva la vita, ora che nella vita non ha più scopo, ora che ha perduto la bella nave con la quale correva libero i mari, e che gli hanno ammazzato l'unico compagno suo, il marinaio Tom, l'indimenticabile, l'eternamente rimpianto; e senza più ascoltare Dick, si allontana massiccio e barcollante lungo le sabbie sudicie del porto, e non si cura neppure dell'amico che gli è rimasto, il cagnaccio scampato al naufragio della sua nave, che gli guaisce alle calcagna.

 

EMMA MASCI KIESLER.

 

 

 

 

PROLOGO. JOHN AGGIUSTA-TUTTO.

 

Un certo pomeriggio, nella tarda primavera, si sentì squillare ad ora insolita la campana di Moat House a Tunstall. Vicino e lontano, nella foresta e nei campi lungo il fiume, la gente cominciò ad abbandonare il lavoro e ad affrettarsi verso quei rintocchi; e nel villaggio di Tunstall un gruppo di poveri villici si fermò perplesso a quel richiamo.

Il villaggio di Tunstall in quel periodo, durante il regno del vecchio Enrico Quarto11, aveva più o meno l'aspetto che presenta oggi. Una ventina circa di case, costruite in quercia massiccia, erano sparse per una lunga vallata verde declinante verso il fiume. Ai piedi, la strada attraversava un ponte e risalendo dall'altra parte si perdeva entro i margini della foresta nel suo cammino verso Moat House, e poi più lontano verso l'abbazia di Holywood. In mezzo al villaggio s'ergeva la chiesa fra i tassi. D'ogni lato i pendii erano coronati e la vista era limitata dagli olmi verdi e dalle querce verdeggianti della foresta.

Accanto al ponte c'era una croce di pietra su un monticello, e lì si era radunato il gruppo, una mezza dozzina di donne e un uomo alto in un camiciotto di panno greggio, a discutere sul possibile significato dei rintocchi. Un corriere era passato per il villaggio una mezz'ora prima e aveva bevuto un boccale di birra rimanendo in sella, senza osare di smontare per la fretta di consegnare il suo messaggio; ma neppure lui sapeva di che si trattasse, e non faceva che recare delle lettere sigillate da parte di Sir Daniel Brackley a Sir Oliver Oates, il parroco, che custodiva Moat House in assenza del padrone.

Ma ora si distingueva il rumore di un cavallo; e poco dopo, fuori del margine del bosco e su per il ponte rimbombante cavalcava il giovane "Master"12 Richard Shelton, il pupillo di Sir Daniel. Egli almeno avrebbe saputo, e lo chiamarono e lo pregarono di dare una spiegazione. Tirò le briglie di buon grado: era un giovane non ancora diciottenne, abbronzato e con gli occhi grigi, in un giaccone di pelle di daino con il colletto di velluto nero, un cappuccio verde che gli copriva la testa, e una balestra d'acciaio a tracolla. Pareva che il corriere avesse recato grandi notizie. Era imminente una battaglia.

Sir Daniel aveva mandato a chiamare ogni uomo che sapesse usare l'arco o manovrare l'ascia di guerra, perché andasse in tutta fretta a Kettley, sotto pena di cadere in grave disgrazia; ma per chi dovessero combattere o dove si dovesse combattere, Dick non ne sapeva niente.

Fra breve sarebbe venuto Sir Oliver in persona, e in quel momento stesso Bennet Hatch stava armando gli uomini, perché era lui che doveva guidare il gruppo.

— E' la rovina di questa bella terra — disse una donna. — Se i baroni vivono di guerra, alla gente dei campi non resta che mangiare radici.

— Ma no — disse Dick, — ogni uomo che parte avrà mezzo scellino al giorno, e gli arcieri uno scellino.

— Se vivono — ribatté la donna, — allora sta bene; ma che ne sarà se muoiono, signor mio?

— Non potrebbero morire meglio che per il loro signore naturale disse Dick.

— Non signore naturale per me — disse l'uomo in camiciotto. — Io seguivo i Walsingham; e così tutti noi giù per Brierly, fino a che due anni fa non venne Candlemas. E adesso dobbiamo stare dalla parte di Brackley! E' stata la legge a volerlo; e voi chiamate questo naturale?

E ora, vuoi con Sir Daniel e vuoi con Sir Oliver, che ne sa più di legge che di onestà13, non ho altro naturale signore che il povero Re Enrico Sesto, che Dio lo benedica!, quel povero innocente che non sa distinguere la destra dalla sinistra.

— Parli con lingua maligna, amico — rispose Dick, — accomunando nella calunnia il tuo buon padrone e il re mio signore. Ma il Re Enrico, ne faccia lode ai santi!, ha riacquistato la ragione e rimetterà tutto tranquillamente in ordine. E quanto a Sir Daniel, sai fare bene il coraggioso dietro le sue spalle. Ma non sarò io a riferire; e basta così.

— Di voi non dico niente di male, "Master" Richard — replicò il contadino. — Siete un ragazzo; ma quando sarete cresciuto e diventato un uomo, vi ritroverete con le tasche vuote.