E voi avete fatto colazione?»
«Altro! caffèlatte e biscotti, così!», esclamò il vecchio, accennando con le mani ad una grande scodella.
Maria rise piano, e pensò che dopo tutto il suocero non era la persona terribile ch’ella si figurava; anzi gli scoprì subito il debole più evidente, ch’era un formidabile egoismo infantile; e s’avvide che per conquistare quella piccola anima bisognava lusingarla e darle sempre ragione.
«È andata Serafina in casa mia?»
«È andata.»
La conversazione, fatta a voce sommessa, pareva nuovamente esaurita, quando s’udì un lieve raspare alla porta. Don Piane tese le orecchie.
«Dev’essere Speranza», disse.
Credendo che si trattasse di persona che invece di picchiare usasse raspar gli usci, Maria si fece premura d’aprire, ma la porta era appena tirata che balzò nel salotto la gatta nera!
«L’ho detto io!», fece don Piane sorridendo. «Mi viene sempre dietro, la strega!
Musci, musci…», chiamò poi, e Speranza gli fu sopra. «Non piacciono a te i gatti, Maria?»
«Altro! Ne ho uno così piccino, color cenere, con gli occhi… mostrate, ecco, ha gli occhi eguali a questi!», esclamò, sollevando la testolina di Speranza, che serenamente la fissò coi suoi grandi occhi verdi cristallini. «Oh che bella gatta, oh, che bella!»
Don Piane sorrise ancora: almeno per il momento egli era pienamente conquistato.
Poco dopo ritornò Serafina con la blusa e con la calzetta di Maria, e avvedendosi della buona relazione stabilitasi fra il vecchio padrone e la padrona nuova, sporse tanto di muso.
«Cosa ti disse la mamma?», domandò Maria infilandosi la blusa.
«A me? Niente!», rispose l’altra sgarbatamente, andandosene.
«Ti ho detto di camminare e parlar piano», disse Maria, e rivoltasi al suocero gli impose: «Diteglielo voi. Ecco che Stene si sveglia».
«Oh, Dio!», esclamò il vecchio tutto mortificato, e gli parve d’odiar Serafina quanto prima odiava la nuora.
Maria intanto s’avvicinava a Stefano, che domandava piano, piano, ma con qualche inquietudine:
«Che cosa c’è? Chi c’è?».
«Nulla. C’è di là tuo padre che aspettava il tuo risveglio. Come stai?»
«Bene assai», e le sorrise.
Don Piane si sollevò puntando i piccoli pugni sul sofà, e camminando presso la parete arrivò a sporger la testa nella porta.
«Venite», disse Maria, accennando con la mano: «Stene è guarito».
«Oh, non ancora!», esclamò il malato, e sollevò le palpebre, meravigliato di trovar tant’aria di improvvisa buona relazione nelle fisonomie del padre e di Maria.
Il vecchio s’avvicinò e stette zitto, ma con una espressione di gran dolcezza nei piccoli occhi.
«Sedetevi lì», disse Stefano, e don Piane si sedette appoggiando una mano sulla coltre azzurra, una piccola mano che leggermente tremava, solcata di vene azzurrastre più che mai turgide sotto la bianca pelle raggrinzita.
Stettero tutti e tre in silenzio, il vecchio seduto, Maria ritta ed attenta, Stefano con le palpebre nuovamente chine. S’udiva il ronzìo delle ultime mosche, il sussurro del noce, qualche trillo d’uccello smarrito nell’aria trasparente della tiepida mattinata.
15
Rimasta nel salottino, Speranza allungava ogni tanto le orecchie nere e metteva una zampina nell’orlo della porta, ma non osava avanzare.
Stefano pensava: “Perché ho fatto venire Maria? Resterà lungo tempo qui?”. E
provava una confusa dolcezza nel vedersi vicini e riuniti il padre e Maria; e s’avvedeva che anche il vecchio subiva l’irresistibile fascino della giovane donna; ma fino a quando? Certo, finché non ricadeva sotto l’insidiosa e pettegola suggestione delle domestiche e specialmente di Serafina.
«Vuoi qualche cosa ora?», domandò Maria.
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